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Autore: giuliacaesar    26/03/2022    1 recensioni
⚠️POTREBBE CONTENERE SPOILER DEL MANGA DAL CAPITOLO 290 IN POI⚠️
La vita a volte ci pone davanti a delle scelte, facili o difficili che siano. Se ne scegliamo una non sapremo mai il finale dell'altra, il che ci porta a porci una serie infinita di domande che iniziano con un "e se...".
«Ha presente cosa sono gli otome game?» [...] «Insomma, quello che voglio dire è che in base alle scelte che fai ti ritrovi finali diversi, no? Quello bello, quello brutto e, a volte, quello neutrale. Basta una sola azione per compromettere il risultato finale, come nelle equazioni di matematica. Ecco, in quella stanza di ospedale potevo scegliere due strade che mi avrebbero portato a due finali differenti.».
E se... Enji fosse andato alla collina Sekoto quella fredda serata d'inverno?
ATTENZIONE! Il rating potrebbe cambiare!
Pubblicata anche su wattpad su @/giulia_caesar
Ispirazione: @/keiidakamya su Twitter e @/juniperjadelove su Twitter e Instagram.
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dabi, Endeavor, Hawks, League of Villains, Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO 14 - ISTINTO
 

A pochi metri da loro la sua macchina lampeggiò quando premette il pulsante del telecomandino in tasca. Mitsuha si girò nella direzione delle luci vedendo una Chevrolet Camaro bianca con due strisce nere sul cofano, poi seguì il ragazzo che nel frattempo si stava dirigendo verso la propria auto. 

«Ehi! Quindi mi abbandoni sola e indifesa in mezzo alla strada?». 

Touya rise prima di rispondere, sollevò un dito, mentre parlava dandole le spalle. 

«Punto primo, “indifesa” è proprio l’ultimo aggettivo con cui ti descriverei. Punto secondo, è uno dei quartieri più privilegiati e sicuri di Musutafu, dubito che vadano in giro teppisti, anche perché ormai sanno tutti che mio padre abita qui. Punto terzo, non ti sto abbandonando, vengo con te. Solo che non posso lasciare la macchina qui, quindi andremo dovunque vorrai, ma ci porteremo dietro questa bellezza.». 

A fine discorso batté le mani sul cofano della sua macchina, pronto a ricevere dei complimenti nel suo gusto in fatto di auto. Ovviamente aveva Mitsuha davanti, una vera e propria fonte di sorprese. 

«Tra tutte le macchine che ti potevi permettere... proprio quella di Transformers dovevi comprarti?». 

Lo guardò con il sopracciglio inarcato verso l’alto in un’espressione molto scettica, a tratti disgustata. Va bene, era vero, aveva comprato una Camaro perché da ragazzino aveva consumato i dvd di Transformers, ma, gusti cinematografici discutibili a parte, rimaneva comunque una bella macchina. Aveva anche preso l’ultimo modello uscito! 

«E quindi? Cosa vorresti insinuare?» disse Touya incrociando le braccia al petto e poggiando un fianco sul cofano. 

«Che hai gusti di merda per quanto riguarda sia le auto sia i film. Transformers fa cagare.» ribatté lei sincera.  

«Ma non è vero! È un film stupendo! Almeno, il primo lo è.» si imbronciò lui. 

Se possibile, il sopracciglio di Mitsuha si arcuò ancora di più. 

«Dimmi cosa di ricordi della trama a parte il culo di Megan Fox.» controbatté lei. 

Touya arrossì e non rispose, affrettandosi a raggiungere il lato del guidatore per entrare in macchina. Mitsuha, agendo sempre come se fosse la padrona di casa, giunse all'automobile sedendosi al posto del passeggero alla sua destra. Fece un versetto sorpreso quando entrò, osservandosi i sedili in pelle nera e il cruscotto colmo di pulsanti e levette con il display touch. 

«Be’, almeno dentro è più bella di come è fuori.» commentò con un sorrisetto impertinente sulle labbra. 

Touya strinse il volante tra le dita. Se c’era una cosa che lo infastidiva più dei calzini bagnati ai piedi, erano i commenti gratuiti e a sproposito sulla sua macchina. Aveva risparmiato un intero anno di stipendio per permettersela, mettendo da parte ogni singolo centesimo, quindi non avrebbe accettato alcuna critica sul suo gioiellino! 

«Se ti fa così schifo la mia macchina, puoi anche scendere. Non mi offendo.» borbottò seccato accendendo il motore, che ruggì sotto i suoi piedi. 

La ragazza questa volta emise un urletto raccogliendo le ginocchia al petto sorpresa. Chissà perché non l’aveva notato l’altra sera, ma Mitsuha aveva dei tatuaggi anche sulle gambe, lasciate scoperte dai pantaloncini corti. Sulla coscia destra era interamente occupata dalla raffigurazione di una volpe, la ritraeva girata per i tre quarti con lo sguardo fiero, fisso di fronte a sé e le zampe anteriori eleganti che si intrecciavano con un bouquet di fiori che poi contornavano tutto il resto dell’animale. Dal polpaccio destro invece scendeva da un ramo invece una tigre bianca, flessuosa e pericolosa, contornata da macchie rosse, che seguivano l’animale come impronte. 

Mitsuha gli schioccò le dita di fronte al naso per rinsavirlo. Si era imbambolato a guardarle i tatuaggi sulle gambe che le fasciavano la pelle. Quando sollevò lo sguardo, la vide osservarlo sorniona, sulle labbra già pronta la prossima frecciatina. In preda al rossore che gli aveva riscaldato il cervello, disse la prima cosa che gli venne in mente. 

«Ha-hai dei tatuaggi meravigliosi.». 

Mitsuha si rizzò di colpo, tornando dritta come una colonna sul suo sedile. Dalla sua espressione non capiva se fosse lusingata o seccata, lo osservava con occhi sgranati, come un coniglio che guarda i fari di una macchina impaurito, ma durò pochi istanti. La ragazza si riprese in fretta con un sottile sorriso sulle labbra. 

«Grazie, Zuccherino.». 

Touya si sforzò di guardare dritto di fronte a sé per iniziare a immettersi nella strada, ma c’era una piccolissima incognita: dove sarebbero andati? Si girò verso Mitsuha che stava studiando per bene gli interni della sua macchina, sondando con gli occhi profondi ogni singolo centimetro, come se fosse alla ricerca di una via di fuga. Forse però quella era una sua impressione. 

«Allora? Sono il tuo autista per questa notte, dove ti porto?». 

La ragazza gli rivolse un sorriso più ampio del solito, mentre riportava la sua attenzione su di lui. Si appoggiò allo schienale incrociando le lunghe gambe, su cui inesorabilmente scivolò lo sguardo di Touya, ipnotizzato dai colori e dalle forme disegnate sulla sua pelle. 

«Non so quanto ti convenga, ma... ho voglia di messicano sta sera.». 

Una mano invisibile lo schiaffeggiò riportandolo alla realtà. 

«Messicano? Non odiavi il messicano?». 

«Quella era una bugia, scemotto. - gli prese il naso tra l’indice e il medio, come se fosse un bambino stupido da prendere in giro. - Io adoro la cucina messicana, quindi andale, andale, amigo!». 

Touya sorrise, scuotendo la testa e ingranando la prima, poi si sporse per vedere se qualcuno stesse arrivando da dietro prima di immettersi nella strada. Quando fu sul punto di lasciare la frizione, vide lampeggiare una spia sul suo cruscotto. 

«Mitsuha, mettiti la cintura.». 

«E tu non guardarmi le tette.». 

Touya si girò di scatto verso di lei, rosso in viso come il sole al tramonto, mentre lei gli rivolgeva un sorriso irritante. Quella sera era proprio in vena di farlo disperare. 

«Non ti sto guardando il seno! C'è la spia!» urlò con voce stridula. 

Mitsuha scoppiò a ridere portando una mano dietro di sé per afferrare la cintura e agganciarla al suo fianco. 

«Come sei suscettibile, Zuccherino.». 

Touya prese l’ennesimo respiro della giornata e uscì dal parcheggio, prima di fermarsi all’incrocio in fondo alla via di casa sua. Appoggiò pigramente la tempia al poggiatesta del sedile quando si rivolse a lei. Era un po’ stanco. Ok, era molto stanco, ma quello faceva parte del suo lavoro. Scarrozzare in giro una mercenaria aggressiva e maliziosa di notte, quando invece poteva tornarsene a dormire non faceva parte del suo contratto di lavoro, ma aveva fatto fin troppe cose al di fuori delle sue competenze. Prima o poi avrebbe chiesto un aumento. O un risarcimento danni. 

«Non mangio messicano. Sai dove possiamo andare?». 

Mitsuha si rivolse a lui con un finto sguardo sconvolto e una mano portata melodrammaticamente al petto. 

«Come non mangi messicano?». 

Touya sbuffò sfregando le mani sul volante in pelle frustrato. 

«Ho lo stomaco delicato e il messicano è pesante. NON RIDERE!». 

Mitsuha però ormai era una cascata di risatine e versetti divertiti, che le scuotevano il corpo in continuazione. Tra un respiro e l’altro faceva un adorabile rumorino col naso, forse a causa della piccola deviazione del setto, che non le permetteva di respirare bene in quella situazione. Le risate sanno essere contagiose, quelle di Mitsuha erano dilaganti: ti travolgevano come un’onda e ti riportavano indietro costringendoti a unirti a lei e così capitò a lui, che si ritrovò a ridere con la ragazza, sentendosi un idiota. 

Quando finì di ridere, Mitsuha prese dei grossi respiri per calmarsi, ma comunque qualche risolino leggero le usciva dalle labbra. 

«Cazzo, sei un tipo particolare, Zuccherino! Dai, forza, ti porto io da un ottimo messicano. Questa notte sognerai burritos!». 

*** 

«Ti va di fare un altro giochetto, Zuccherino?». 

Touya distolse la sua attenzione dai churros con cui si stava ingozzando per rispondere alla ragazza. 

«Che fioco?» disse con la bocca piena di frittelle e le labbra rosee macchiate dalla salsa al cioccolato, che si stava letteralmente bevendo. Mitsuha ridacchiò, mentre masticava il morso del burrito grasso e unto che si era meritata per quella settimana infernale. 

Lo aveva portato in periferia, quasi a mezz’ora di macchina dalla casa dei suoi genitori, che invece era a pochi passi dal centro di Musutafu. Non conosceva bene il lato ovest della città, lei era cresciuta poco fuori dal centro abitato, in uno di quei paesini che si disperdono man mano nella campagna. Da quando poi aveva compiuto la maggiore età non era stata ferma un attimo, spostandosi in continuazione da prefettura in prefettura, di stato in stato, quindi col tempo si era dimenticata quei pochi punti di riferimento che si ricordava di quando era piccola. 

Aveva trovato quel posto per pura fortuna, quasi come un miracolo divino le era apparso di fronte all’una di notte, quando era di ritorno da un incontro con la League, appena prima dell’attacco a Kai Chisaki. Ci mancava poco che strisciasse sui gomiti per la fame, perché ovviamente il covo di Shigaraki era così scadente da non potersi neanche permettere del cibo decente, per cui proprio dopo aver trovato quell’oasi benedetta dagli dei del cibo messicano si era decisa a prendersi un appartamento suo, in barba a ogni suo principio morale. 

A prima vista dava l’aria di un posto un po’ malfamato: c’era un furgoncino che si apriva su un lato rivelando una piccola cucina e un bancone, con tutti gli ingredienti possibili e immaginabili che si potevano aggiungere ai burritos e alle enchiladas, moltissime salse diverse per i nachos e per i churros, per non parlare dei nopales e delle esquitesi spaziali. Di fronte al foodtruck erano disposti una manciata di sedie e tavolini di alluminio, su cui a malapena riusciva a stare seduta, ma i burritos di Jorge valevano la pena di procurarsi il mal di schiena. Non era così tardi in fondo, quindi c’era un po’ più gente rispetto all’orario solito a cui andava, per lo più motociclisti e gente che tornava tardi da lavoro. Un posto tranquillo insomma. 

Ingoiò con un sorso di Corona giallo brillante gustandosi il sapore pastoso dei fagioli e della carne, insieme all’alcool. Era il paradiso, cazzo. Avrebbe voluto punzecchiarlo ancora, aveva già la battuta pronta, ma avrebbe sciolto lo spettacolo di un giovane eroe che si stava ficcando in bocca churros inzuppati di salsa al cioccolato con la stessa velocità di un ludopatico che infila monetine in una macchinetta del gioco d’azzardo. Era quasi tenero. 

«Semplice, io ti faccio una domanda e tu rispondi, poi facciamo cambio.». 

Touya continuò a masticare il suo churros guardandola impassibile. 

«Quello si chiama “conversazione”, Mitsuha.». 

La ragazza fece un gesto con la mano spazientita. 

«Come sei pignolo! Allora, mettiamo in palio qualcosa.». 

Touya non si prese neanche la briga di rispondere, preferendo fare un verso di assenso, mentre aveva la bocca occupata dalle frittelle. Quanto erano buoni quei churros! 

«E come faffiamo a fegliere chi finfe?». 

«L’ultimo che risponde vince.». 

Touya non era del tutto convinto del criterio di scelta, in quel momento il suo cervello era focalizzato solo sui suoi churros, quindi annuì consenziente. 

«Cofa fi finfe?». 

«Sei davvero un nobile quando fai così. Comunque, che ne so io, l’altro fa qualsiasi cosa gli ordini il vincitore.». 

Adesso, se non fosse stato corrotto con la salsa al cioccolato e frittume unto probabilmente si sarebbe rifiutato. Solo che in quell’istante non era proprio focalizzato su ciò che gli stava dicendo la ragazza, ritrovandosi ad accettare ancora una volta senza accorgersene. 

«Bene, inizia pure tu, Principe.». 

Touya si leccò gli ultimi residui di cioccolato e zucchero dalle dita senza lasciarsi sfuggire il modo in cui gli occhi della ragazza seguivano i suoi movimenti. Quando alzò lo sguardo su di lui, non arrossì nemmeno, facendogli solo un occhiolino mentre si portava la Corona alle labbra. Si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo dalla linea morbida del collo dell’altra. Un po’ di dignità, forza! 

«Quanti tatuaggi hai?». 

«Che domanda banale.» gli disse di rimando l’altra poggiando la bottiglia vicino a sé. 

Mentre iniziava a spiluzzicare i nachos con la salsa guacamole, gli rispose con voce pacata. 

«Sei grandi e altri otto più piccoli.». 

Touya si sorprese, non se ne aspettava così tanti. Forse perché in Giappone non si vedevano ancora di buon occhio cose come i tatuaggi, persino i suoi piercing erano stati oggetti di lamentele e pregiudizi, per lo più da parte della Commissione e dalla Presidentessa. Osservando il dragone che le scendeva lungo il braccio, gli scivolò una domanda sulla lingua, forse un po’ troppo intima e personale per la loro breve conoscenza. 

«E hanno un significato?». 

«Una domanda, una risposta, Zuccherino. Ora tocca a me.» gli rispose sorridendo. 

Si prese qualche secondo di riflessione, mentre si mangiava i suoi nachos tuffandoli nella salsa guacamole. 

«Da quanto tempo conosci Hawks?». 

La guardò sorpreso, perché onestamente non si aspettava una domanda simile, tanto meno con quel tono improvvisamente serio. Aveva smesso di sorridergli con malizia e finta amicizia, ora lo stava osservando, analizzando come la prima sera che si erano conosciuti. 

«Da quando avevo 14 anni. Eravamo compagni di stanza in un programma sperimentale della Commissione, che prevedeva l’addestramento di futuri eroi per ragazzi che non sarebbero mai potuti diventare pro heroes con i metodi tradizionali.». 

Quella era una notizia di dominio pubblico, esattamente come la Commissione aveva sbandierato ai quattro venti la sua debolezza fisica, rendendolo una specie di martire. La cosa agli inizi gli aveva dato non poco fastidio per le varie reazioni del pubblico, in parte lo trattava con pietà e in parte gli rinfacciava la sua posizione di “privilegiato”. Cosa cazzo ci fosse di privilegiato nel non poter usare il proprio quirk senza bruciarsi i suoi stessi arti non lo capiva, ma la gente a volte ragionava con l’odio e non con la testa. 

Mitsuha non disse nulla, annuendo. Sperava in una risposta diversa, magari condita con qualche informazione in più rispetto a quello che già sapeva dagli articoli. Durante le sue peripezie in giro per Musutafu si era completamente immersa in una ricerca spasmodica di notizie sui due pro heroes che si ritrovava alle calcagna. E cazzo quanti articoli inutili aveva trovato. Cibo preferito, libro preferito, film preferito, “il luogo del cuore”, se gli piacessero di più i cani o i gatti e tutte stronzate da ragazzini di una boy band. Non aveva trovato scandali, pettegolezzi o anche solo una recensione negativa su Rotten Tomatoes! Questa cosa le puzzava, eccome se le puzzava. Persino su All Might ed Endeavor, i due paladini della giustizia per eccellenza, avevano le loro macchie rosse sui curriculum, ma su quei due scapestrati della nuova generazione di eroi nulla, il vuoto cosmico. Si chiedeva se non fosse voluta quella cosa, anche perché Hawks aveva scalato la classifica a velocità supersonica approdando a soli 22 anni alla terza posizione dei Pro Heroes più famosi, mentre Dabi aveva raggiunto il decimo posto. Insomma, non erano di certo degli sconosciuti. 

«Hai altri clienti oltre alla League?». 

Puntò gli occhi su di lui assottigliandoli, non le era piaciuta per nulla né la domanda né il tono che aveva usato. Non era stupida, aveva capito benissimo cosa stava cercando di fare: sondare il terreno. Non si fidava di nessuno lei, era una delle poche cose che sua madre si era premurata di insegnarle prima di sparire. Aveva pochi ricordi con lei, molto confusi e disordinati, ma certe cose sembravano indelebili nella sua testa, come se gliele avesse tatuate nel cervello. 

Fiducia e lealtà, una la conseguenza dell’altra. Mai cedere la propria fiducia facilmente, mai tradire chi si fida di te. Trasgredisci una delle due cose e finisci fregato. Sua madre glielo aveva insegnato anche a costo di doversene andare. 

Addentò con più violenza il nachos che si stava portando alle labbra, infastidita da quei pensieri ingombranti. Cercava di non pensare spesso a lei, perché le montava una rabbia addosso da far tremare ogni goccia d’acqua nelle sue vicinanze. Dissimulò il suo stato d’animo bevendo un altro sorso di birra, per poi riprendere la discussione. 

«Dipende.». 

Incrociò le mani sul tavolo, guardando il ragazzo negli occhi in segno di sfida. Non le sfuggì il modo in cui contrasse la mascella infastidito dalla sua risposta vacua, quasi vuota, però lei fece finta di nulla, continuando a mangiare indisturbata. 

Forse Touya era stato troppo affrettato e diretto, sia nella domanda che nella risposta che aveva dato. Aveva colto la palla al balzo per conoscere meglio il suo bersaglio, ancora sapeva fin troppo poco di lei, ma era stato frettoloso. A volte Mitsuha gli ricordava un animale selvatico, sospettoso e ringhiante, che devi avvicinare pian piano, magari con un’offerta da lasciargli. Non doveva forzare le cose. 

«Allora, Zuccherino... dimmi tre cose che non ti piacciono del tuo lavoro.». 

«Non è una domanda questa.». 

«Zitto e rispondi.». 

«Come faccio a stare zitto e a rispondere allo stesso tempo?». 

Mitsuha gli lanciò uno sguardo che si poteva definire solo come una bufera di neve congelata che gli fece scivolare lungo la schiena un piccolo brivido di paura. Alla ragazza non piaceva essere contestata o che si alzasse la voce con lei, quindi lanciò nel cassonetto le sue ripicche pungenti e fece quanto gli aveva chiesto. 

«Da dove inizio? Non sopporto la presidentessa della Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi, è una stronza. Faccio decisamente troppo per lo stipendio che prendo. Odio le vecchiette.». 

«Cosa?» chiese perplessa la ragazza, colta di sorpresa dall’ultima affermazione. 

«Quello che ho detto: odio le vecchie, perché mi fermano per qualsiasi stronzata. Il gatto che è salito sull’albero, la nipote single a cui stanno cercando un fidanzatino, devono attraversare la strada e non ci vedono un cazzo. Una volta ho dovuto salvare una coppia, adorabile per carità, ma stavano camminando in mezzo alla strada e lei aveva anche il deambulatore! Ma io dico, ho capito che siete prossimi alla chiamata del Signore, ma aspettatelo a casa vostra, non in mezzo alla strada!». 

Mitsuha aveva ripreso a ridere, rideva piegata in avanti sul tavolo nascondendosi la testa in mezzo alle braccia incrociate. Touya non resistette e la seguì, incantato da quell’allegria. Era incredibile come bastasse una frase e tutto prendesse una piega totalmente diversa rispetto a pochi minuti prima. Risero talmente forte da attirare l’attenzione del gruppo di motociclisti un po’ alticci a qualche tavolo da loro e di Jorge, il proprietario del foodtruck, che scosse la testa ridacchiando anche lui senza alcun motivo. 

La ragazza prese un ultimo sorso di birra per rinfrescarsi la gola da tutte quelle risa, che però le scuotevano ancora il corpo. Anche Touya sapeva essere sorprendente, dal faccino pulito e il curriculum immacolato si era immaginata il classico ragazzo perfetto che ogni donna vorrebbe come genero, ma sotto tutti gli strati di spandex della sua tuta da eroe si nascondeva il lato più umano. 

«Mi hai sorpreso, non me lo sarei mai aspettata!». 

Touya lasciò andare gli ultimi rimasugli della risata dalle labbra, mentre pensava alla prossima domanda da fare alla ragazza. Era combattuto tra la voglia irrefrenabile di farle domande personali, di parlare solo di cazzate e cogliere l’occasione per conoscere meglio il suo avversario, raccogliere ancora più informazioni su quella strana e stravagante mercenaria su cui la Commissione aveva puntato i suoi occhi. Voleva essere Dabi quella sera o continuare ad essere Touya? 

«Ti rigiro la domanda: tre cose che odi del tuo lavoro.». 

Alla fine aveva scelto una specie di via di mezzo. Avrebbe di certo tirato fuori qualche aneddoto divertente su cui continuare a ridere, mentre allo stesso tempo sarebbero uscite fuori più informazioni su qualche affare losco della League. Almeno, così sperava. Ciò che gli importava era non fare insospettire Mistuha, diffidente già di suo. 

La ragazza assottigliò lo sguardo, giocherellando con l’ultimo nachos rimasto, che faceva rigirare nel guacamole avanzato in piccoli cerchi, poi se lo cacciò in bocca e gli rispose. 

«Se il mio si può considerare un lavoro, odio quando i clienti fanno i tirchi offrendomi troppo poco o richiedendomi più lavoro di quello pattuito. Odio quando credono di potermi fottere solo perché sono una donna o perché sono straniera, soprattutto qui in Giappone. Odio-». 

Mitsuha si interruppe quando qualcuno le finì contro, versandole addosso della tequila. Touya ebbe come l’impressione che la temperatura attorno a lui fosse calata, all’improvviso sembrava essere dicembre e non più una calda notte di luglio. Gli occhi di Mitsuha si ridussero a uno spillo incollerito, una fredda e movimentata rabbia le scalpitò nel cervello, desiderosa di sfogarsi. Si girò verso il suo disturbatore come farebbe un automa, rigida e senza trasparire alcuna emozione se non dagli occhi freddi. 

Vide alle sue spalle un ragazzotto, rivestito di finta pelle nera e jeans scadenti, che già si era girato verso il suo gruppetto di amici, ridendosela. Con la coda dell’occhio, a Mitsuha parve di vedere Jorge cercare di nascondersi sotto al bancone spaventato, mentre a qualche metro da loro una fontana tremò impercettibilmente. Il ragazzo in tutto ciò non sembrava intenzionato né ad aiutarla né a chiedere scusa. Tanto con le sue scuse non si sarebbe di certo pulita. 

«Ma che cazzo di problemi hai?» sbottò alzandosi in piedi. 

L'altro si girò verso di lei con lo sguardo di chi sapeva che l’avrebbe passata liscia e che non aveva nulla da temere, se non le urla stridule di una donna isterica. Sbiancò quando dovette alzare gli occhi per poter anche solo guardare la gelida collera che mascherava il volto di Mitsuha. Non si perse lo stesso di animo, glielo dovette riconoscere Mitsuha: era più idiota di quello che sembrava. 

«Oh, andiamo, dolcezza, non l’ho fatto apposta!». 

«Ma l’hai fatto sul serio, brutto stronzo.». 

Touya guardava passivo la scena, indeciso se intervenire o meno. Dabi nella sua testa scalpitava per mettersi tra i due e fermare sul nascere l’imminente litigio, ma dentro di sé voleva vedere come si sarebbe comportata Mistuha. Nelle ultime due serate aveva visto una donna totalmente diversa dalla prima volta in cui l’aveva incontrata, stranamente troppo solare e aperta di quell’animale feroce che era stata al The Last Hour, pronta a saltargli al collo al minimo passo falso. Si impose di vedere cosa sarebbe successo, anche se non ne era del tutto certo. Conosceva Mitsuha da poco più di qualche giorno, ma aveva capito una cosa di lei: fare una previsione su quello che avrebbe fatto era come lanciare dei dadi in una stanza buia, solo il fato avrebbe saputo cosa sarebbe successo. 

«Bambolina, dai, calmati, non è nulla. Se ti spogli qui posso-». 

A Mitsuha non piace parlare. Nel senso, a lei piace parlare con poche persone, quelle che ritiene interessanti, quelle che sa che hanno qualcosa da raccontare. Una fiaba, una storia, un’esperienza, una lezione di vita. 

Mitsuha odia chi da aria alla bocca. Odia chi vuole parlare solo per vantarsi, per attirare l’attenzione o anche solo per farsi vedere più grande di quello che in realtà è. Le parole hanno un peso, esattamente come gli oggetti, ci sono quelle leggere come le piume e quelle pesanti come pianoforti, ognuna di esse ha la propria importanza. Per questo Mitsuha odia chi parla a sproposito, perché non sa che le parole non è semplice aria, ma sono robusti macigni e sono svolazzanti fogli di carta. 

Mitsuha preferisce di gran lunga i fatti. 

E tra i fatti predilige i pugni. 

Il gancio destro che rifilò al ragazzo lo colse di sorpresa, facendolo barcollare all’indietro. Touya non ebbe il tempo di alzarsi e afferrare le spalle della ragazza, che l’altro aveva già risposto con un altro pugno, diretto al viso di Mitsuha. La ragazza riuscì a pararlo con l’avambraccio e spintonarlo più lontano, alle spalle aveva ancora il tavolino e la sedia che le limitavano lo spazio di manovra. 

Nessuno si muoveva, tranne Touya che si era alzato in piedi irrequieto per sedare la rissa, ma con un colosso come Mitsuha non sapeva come avrebbe fatto. Inoltre anche il gruppetto di amici del ragazzo era scattato, senza però intervenire, guardando circospetti la ragazza, che non se la stava cavando affatto male, anzi tra i due era in vantaggio. 

Mitsuha era in preda a una rabbia feroce e cocente, agiva seguendo l’istinto senza cercare neanche di controllarsi. Vedeva tutto sfocato, tranne l’uomo di fronte a lei che barcollava per restare in piedi, ma non aveva una faccia il tipo, ne aveva tante, troppe. Era tutti ed era nessuno, portava mille maschere e poi aveva il volto completamente nero. Il suo cervello si era completamente staccato al “bambolina”, no neanche. Aveva avvertito sulla pelle lo sguardo lascivo e perverso come se le avessero spennellato dell’olio addosso, aveva sentito mani attorno ai polsi e al collo che appartenevano ad anni lontani, distanti, di una ragazzina indifesa lasciata da sola in mezzo alla strada. 

Non riusciva a controllarsi. 

Non voleva controllarsi. 

Voleva sfogarsi, dare fuoco a tutta la rabbia che aveva sempre represso negli anni. 

Non voleva essere la preda lei, non lo sarebbe più stata. 

Afferrò per la giacca il ragazzo, che era semisdraiato per terra, con una mano e lo tempestò di pugni con l’altra, finché questo non riuscì a puntare i piedi per terra scrollandosela di dosso. A quel punto le tirò un calcio allo stomaco facendola piegare in due per la sorpresa, poi caricò un gancio destro diretto allo zigomo. Mitsuha sentì l’adrenalina urlarle nelle orecchie, nelle vene e nei muscoli, facendola scattare in avanti per afferrare di nuovo il ragazzo, che si era avvicinato di più per continuare il pestaggio. 

Divennero una massa indistinta di braccia e gambe, urla e insulti. Nessuno riusciva a capire chi stava prevalendo, perché il tempo che uno si accaniva sull’altro con pugni e calci, l’altro si era già rimesso in piedi e rispondeva con altrettanta ferocia. Touya sentiva il corpo immerso nella gelatina, lento e impacciato, non era la prima volta che assisteva a una rissa da sedare, ma non aveva idea di come bloccare uno dei due senza essere preso di mira dall’altro, oltre alla possibilità che, se avesse fermato Mitsuha, questa non avrebbe avuto abbastanza mobilità per difendersi nel caso in cui il gruppetto non avesse bloccato anche il loro amico. Anzi, la situazione sarebbe di certo degenerata se si fossero uniti alla danza. 

Doveva muoversi, quindi agì nel modo peggiore possibile: seguendo l’istinto. Si avventò sulla ragazza, prima afferrandole le spalle, ma Mitsuha quasi gli tirò una gomitata sul naso urlando infastidita dall’intromissione, poi le afferrò le braccia e tirò indietro il più possibile, anche a costo di cadere per terra. Quando riuscì a staccarla dalla sua preda, accese una fiamma blu con la mano e la lanciò per terra tra i due contendenti per spaventarli. Il ragazzo scattò all’indietro venendo acciuffato dai suoi compagni che subito se la diedero a gambe sulle loro motociclette, mentre Mitsuha sembrava inarrestabile, tentò persino di seguirli senza neanche preoccuparsi di essere a piedi e sanguinante. 

«Ehi, ehi, calma, Tigre. Se ne sono andati, basta!» le urlò contro mentre lei si dimenava tra le sue braccia. 

Mitsuha si staccò di lui quasi disgustata respirando a fondo, a ogni respiro emetteva un piccolo sibilo. Si guardò attorno confusa, poi posò gli occhi castani su Touya, che teneva le mani sollevate in segno di resa. Sembrava un animale con i capelli disordinati, lo smanicato strappato e sporco di tequila e terra, aveva un sopracciglio spaccato che le colava sangue sull’occhio, facendole sbattere la palpebra infastidita, e la guancia tumefatta. Anche le mani erano rosse sulle nocche ferite e scorticate, ma non pareva fregargliene molto. 

«Dove cazzo è andato quel pezzo di merda?». 

«Mitsuha, calmati. Se n’è andato.». 

Faceva parte del lavoro di Touya avere a che fare con persone agitate, spesso molto spaventate, in preda alle emozioni che non riuscivano a controllare. Il trucco era cercare di sembrare sicuri di sé stessi, non farsi coinvolgere dall’agitazione e rimanere calmi con la voce ferma. 

«Mitsuha, dai, vieni con me. Fammi vedere le mani.». 

Quando allungò le dita verso la ragazza, quasi temette di essere bersagliato anche lui di pugni. Voltò la testa di scatto, come un animale ferito colto da solo in mezzo alla neve, indietreggiando di qualche passo. Ci rimase un po’ male, sperava di aver creato un minimo di rapporto di fiducia con lei, ma non poteva immaginare che in quel momento nella testa di Mitsuha c’erano solo le urla assordanti di una bambina spaventata. Dopo qualche secondo si riprese, il mondo tornò ad essere normale, i battiti del suo cuore rallentarono pian piano facendola respirare a fondo e con regolarità. Chiuse un secondo gli occhi travolta dal dolore al viso e alle mani e quando li aprì si ritrovò davanti quelli azzurri, preoccupati e indecisi, di Touya, che avanzava verso di lei cautamente porgendole una mano. 

In quel momento non era ancora del tutto sé stessa, non ci stava capendo nulla, ma gli occhi di Touya, così immensi e puri, sembravano l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non scivolare di nuovo via. 

*** 

Jorge era stato gentile con loro, dandole del ghiaccio in un sacchetto per alleviare il dolore che aveva un po’ ovunque e indicando il combini più vicino. Stava aspettando Touya in macchina, col sacchetto congelato sulla guancia per sgonfiarla un po’ prima che arrivasse il ragazzo con qualche garza e disinfettante. 

Poggiò la testa all’indietro sospirando stanca. Il sopracciglio era il minore dei mali, le nocche invece sembravano aver preso fuoco, pizzicando come carboni ardenti nella brace. Non si ricordava nemmeno più il perché di quella rissa assurda, aveva solo sentito una scarica di rabbia e adrenalina travolgerla e trascinarla con sé. 

Aprì gli occhi quando sentì la portiera della macchina aprirsi e vide Touya chinarsi affianco a lei con un sacchetto in mano. Non sembrava arrabbiato, non le aveva urlato contro come avrebbe fatto la maggior parte delle persone, invece era rimasto calmo prendendo in mano la situazione e prendendosi cura di lei come se fosse una bambina ferita. Di solito odiava questi comportamenti paternalistici da parte degli uomini, odiava quando cercavano di preoccuparsi per lei credendola indifesa, ma la premura di Touya, la sua attenzione nei suoi confronti non le sentiva viscide o con secondi fini come spesso succedeva. Ogni volta che posava quei freddi occhi azzurri su di lei non sentiva brividi di schifo percorrerle, era più un calore diffuso nel petto. 

«Mi fai vedere le mani, testona?» disse il ragazzo sedendosi suoi propri talloni, vicino a lei. 

Mitsuha non aveva le forse per ribattere con una delle sue solite frecciatine, quindi gli porse le nocche senza fare storie. Vi era una insolita delicatezza nel modo in cui le dita del ragazzo le afferrarono le mani, per controllarle meglio. Ferma gentilezza, ecco come le avrebbe descritte. Non tremavano mentre le rigirava il palmo per vedere se ci fossero altri graffi, non indugiarono quando presero un piccolo dischetto di cotone imbevuto di disinfettante. 

«Ma quello è un dischetto per struccarsi?». 

Touya sollevò lo sguardo verso di lei con un sorriso in volto, divertito che la prima cosa che avesse detto nell’ultimo quarto d’ora fosse proprio quell’osservazione. Stando attento a non farle male, riportò la sua attenzione alle nocche rosse e martoriate. 

«C’erano solo questi, non ho trovato le garze.». 

Mitsuha non rispose, continuò a guardare i gesti delicati e leggeri del ragazzo sulle sue dita. Tutto quello che sentiva era un leggero bruciore, segno che il disinfettante stesse facendo il suo lavoro, ma delle mani di Touya sentiva solo il tepore che sprigionavano. A parte quel disperato e fugace bacio di qualche sera prima, non si erano mai toccati e quel piccolo, insignificante contatto la rasserenava. Forse era la stanchezza, forse era il vuoto lasciato dall’adrenalina, si sentiva come cullata da quelle mani calde. 

«Ok, fatto, togli il ghiaccio e fammi vedere l’occhio.». 

Ancora una volta, Mitsuha fece quanto richiesto senza replicare sporgendosi verso il ragazzo, che nel frattempo stava versando altro disinfettante nel dischetto. Touya si dovette rizzare un po’ per poter raggiungere il viso della ragazza, che osservava ogni suo gesto in silenzio, in una passiva accettazione delle sue premure. Gli faceva strano tutta quella docilità da una persona come lei, si sarebbe aspettato un rifiuto categorico da parte della ragazza, ma non sembrava intenzionata a farlo smettere. E lui da bravo crocerossino avrebbe continuato. 

Mentre era concentrato a pulirle il sopracciglio dai rimasugli incrostrati di sangue, non poté non sentire gli occhi di lei studiarlo a fondo. Non era diffidente, lo osservava curiosa come fanno i gatti quando vengono avvicinati, con gli le pupille grandi quasi a sovrastare il castano scurissimo delle iridi. 

«Tutto bene?» le chiese guardandola negli occhi. 

Castano e azzurro, cielo e terra. Che accoppiata strana pensò la ragazza, assorta nei suoi pensieri mentre annuiva. 

Era bello il modo in cui Touya le toccava il viso, con una mano delicata le sorreggeva il mento e con l’altra le passava leggero il dischetto sul sopracciglio per pulirlo. Era concentrato in quello che faceva, gli occhi puntati sul piccolo taglietto che ormai aveva smesso di sanguinare e le labbra semi aperte. Le pupille di Mitsuha finirono proprio lì, sul cerchietto di metallo che le circondava così perfettamente, non erano né troppo sottili né troppo piene. 

«Finito.». 

La voce del ragazzo la risvegliò dai ricordi umidi di quelle labbra sulle sue. Touya mise via tutto quello che aveva usato buttandolo in un sacchetto che infilò nello scompartimento della portiera della macchina, poi rivolse lo sguardo verso di lei sorridendo appena. 

«Devo controllarti anche la lingua? Non parli.» le disse per sdrammatizzare un po’. Era troppo silenziosa per i suoi gusti. 

«Se proprio ci tieni, Zuccherino.» gli rispose lei facendogli una pernacchia dispettosa. 

Touya alzò gli occhi al cielo divertito, poi ritornò il silenzio tra loro. Lui si sentiva a disagio quando le persone non parlavano con lui, rimanendo ferme a guardarsi attorno imbarazzante, con Mitsuha invece era diverso. I silenzi erano pieni di parole con lei. 

«Posso chiederti perché l’hai fatto?». 

Mitsuha riportò gli occhi color cioccolato su di lui, osservandolo prigioniera dei suoi stessi pensieri. Dopo una rissa si sentiva sempre così stanca e demoralizzata. 

Alzò le spalle mentre si raddrizzava sul sedile. 

«Mi dava fastidio il modo in cui mi guardava.». 

«E c’era bisogno di colpirlo?». 

«Certi uomini non capiscono le cose con le buone, ma a suon di pugni gli si infilano le cose nella testa.» rispose lei stizzita. 

Touya annuì, poi si tirò in piedi spazzolandosi i pantaloni. Si stiracchiò portando le braccia in alto e la testa indietro, sentì tutte le ossa rimettersi la loro posto dopo quella posa tremendamente scomoda. Mitsuha non perse tempo, lo osservò da cima a fondo, soffermandosi anche sulla striscia di pancia che la maglietta aveva scoperto. Il singolo piercing all’ombelico svettava complice sul suo addome. Alla ragazza venne da ridere. 

«Sei proprio sfacciato, lo sai?». 

Touya la guardò confuso e imbarazzato. 

«Come, scusa?». 

Il ragazzo rivide fin troppo bene un lampo di malizia negli occhi castani di Mitsuha, la stessa che aveva un gatto che vede un gomitolo di lana rotolare per casa. 

«Ho detto che sei sfacciato, piccolo bugiardo.». 

Touya sentì l’ansia scorrergli lungo le braccia e le gambe come una cascata congelata che lo bloccò completamente dalla testa ai piedi, anche il respiro era fermo tra i polmoni e il naso. Non riuscì nemmeno a reagire quando Mitsuha allungò le mani per afferrarlo dal colletto della maglietta e lo trascinò dentro la macchina. 

Almeno per una cosa è utile questo catorcio. 

  
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