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Autore: edoardo811    02/04/2022    3 recensioni
Questa è una raccolta di drabble, oneshot, missing moments e capitoli extra della mia storia, La Spada del Paradiso.
Esploreremo le menti di più personaggi, scopriremo segreti sulla vita al Campo Mezzosangue e soprattutto scopriremo come se la cavano i nostri eroi dopo gli avvenimenti de "La Spada del Paradiso."
Vi consiglio dunque di leggere quella storia per comprendere questa raccolta e soprattutto per evitarvi spoiler nel caso decidiate di farlo in futuro. Potete trovarla nella mia pagina autore.
Spero che la raccolta vi piaccia, buona lettura!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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 EDWARD 

11

Partenze


 

Trascorse ancora un giorno nella Casa Grande. Chirone gli disse che il peggio era passato, ma che per sicurezza avrebbe preferito tenerlo sotto controllo ancora per ventiquattr’ore. Edward poteva comprendere le sue preoccupazioni, in realtà, dopotutto se l’era vista parecchio brutta. E poi era una specie di VIP ormai, se fosse morto probabilmente gli dei si sarebbero mangiati stufato di centauro per cena.

Come punto esclamativo, Chirone mise anche quel tizio con mille occhi, Argo, di guardia nel corridoio. Nessuno sano di mente avrebbe cercato di fargliela sotto al naso, perché… beh, aveva mille maledetti occhi. Edward l’aveva visto una volta sola e si era sentito scrutato nell’anima da ciascuna di quelle iridi azzurre. Un’esperienza che preferiva non ripetere.

Quella notte dormì come un sasso. Rischiare di morire era davvero estenuante, lui lo sapeva bene, era una cosa che aveva fatto spesso. Non fece sogni, il che fu molto positivo. Non era affatto in vena di incubi, o visioni.

Il mattino dopo Chirone passò ad accertarsi delle sue condizioni una volta per tutte. Non appena appurarono che il pericolo di ritrovarsi eleganti in una cassa – o bruciati in un drappo, stando alle tradizioni greche – fosse passato, lo lasciò andare.

«Aspetta Edward, ti accompagno» stabilì, mentre stava per uscire nel corridoio. Edward lo lasciò fare, anche perché non poteva mica dire di “no” alla grande capoccia a capo di tutto. Certo, in teoria era il Signor D il grande capo, ma non si vedeva quasi mai in giro. Gli mancavano ancora dieci anni di servizio come direttore, ormai andava avanti col pilota automatico, bevendo diet coke, giocando a carte e schiacciando pisolini.

Dubitava altamente che Chirone si sarebbe solo limitato ad accompagnarlo, e infatti, dopo neanche dieci passi fuori dalla Casa Grande, il centauro disse: «Mi dispiace molto per quello che è successo, Edward. In tanti secoli di servizio, non è mai capitato che… uno dei miei ragazzi cercasse di ucciderne un altro. È stato un duro colpo per tutti quanti.»

«Davvero? Ma tu non hai… mille anni, o qualcosa del genere? In tutto questo tempo, non è mai successa una cosa simile?»

Chirone agitò la coda. «Mi sono capitati litigi, scaramucce, a volte anche qualche conflitto più… sanguinolento, ma dopotutto è nella vostra indole. Siete semidei, siete fatti per combattere ed è naturale che non sempre persone così diverse tra loro riescano ad andare d’accordo. Ma quello che ha fatto Buck… ammetto che nessuno dei miei allievi è mai arrivato a tanto.»

Edward osservò il centauro. Aveva uno sguardo triste, stanco. Da quando era arrivato nel campo, quel poveretto era invecchiato di qualche altro migliaio di anni nel giro di pochi mesi. Si era ritrovato invischiato in qualcosa di mai visto prima, un greco con una spada in grado di conferirgli una forza stratosferica, che per di più apparteneva a una dea giapponese, la regina degli dei giapponesi. «Beh… in tanti anni non ti è nemmeno mai capitato di addestrare qualcuno come me. Immagino ci sia una prima volta per tutto.»

Chirone gli sorrise. «Forse hai ragione. Non sarai come i semidei che sono abituato ad addestrare, ma rimani comunque uno di noi, Edward, e hai molti più tratti in comune con gli eroi del passato di quanto tu possa immaginare. Non abbiamo avuto modo di parlare spesso, tu e io, ma sappi che ti sono molto grato per ciò che hai fatto per il campo. Sei un guerriero coraggioso, e di buon cuore. Sarai un grande eroe, ne sono sicuro.»

Il ragazzo non rispose. Eroe o non eroe, stava comunque rischiando la pellaccia per una battaglia che era stato costretto a combattere. Medaglie, nomee, encomi e complimenti gli sembravano soltanto una presa in giro, una specie di premio di consolazione per ricordargli che non era ancora morto ma che la prossima volta avrebbe potuto esserlo.

Aveva detto a Natalie di non preoccuparsi per farla sentire meglio, ma in realtà quello che gli era successo l’aveva turbato molto di più di quanto avesse dato a vedere. Buck non era mai stato suo amico, anzi, però era un semidio. Potevano litigare, avere “scaramucce”, potevano anche odiarsi, ma quando la situazione lo richiedeva avrebbero dovuto mettere tutto da parte e concentrarsi sui loro reali nemici. Invece, quel pazzo aveva cercato di ucciderlo. Con tutto quello che era successo, si era comunque spinto fino a tanto. Per quale diamine di motivo avrebbe potuto fare una cosa del genere? E come sapeva del suo punto debole?

Un mucchio di teorie vorticavano nella sua mente, una peggiore dell’altra.

«Mi dispiace per quello che è successo, Edward» disse Chirone, come se gli avesse letto nella mente. «Ci stiamo muovendo in territori inesplorati, con la faccenda della tua spada e tutto il resto. C’è molto tumulto sull’Olimpo. Gli dei sono inquieti e ciò che ha fatto Buck non è certo passato inosservato. Ma di questo tu non devi preoccuparti. L’importante è che tu stia bene.»

Edward assottigliò le labbra. Sì, Chirone aveva ragione. Aveva già troppo per la testa, non doveva pensare anche a quel subumano di Buck. E comunque, quell’idiota si era già dato la zappa sui piedi da solo. Il campo non lo avrebbe mai più accolto dopo quello che aveva cercato di fare. Eppure, un lato di lui non si sarebbe sentito tranquillo finché non si fosse accertato che quel tizio non potesse più fare danni.

Dopo il suo ritorno dal regno dei quasi morti, di nuovo, venne trattato e visto con riguardo per diverso tempo da tutti gli altri. Edward odiava essere al centro dell’attenzione, specie se era quel tipo di attenzione: tutti lo osservavano come se stesse per morire di nuovo da un momento all’altro.

Per diversi giorni continuò il vociare su di Buck e su quello che era successo nella partita. Alcuni non erano felici che Edward avesse rovinato la seconda gara consecutiva, come se fosse stata sua la brillante idea di farsi quasi ammazzare, ma a parte questo non cambiò nulla. Anche l’assenza di Buck dal campo non cambiò nulla. Solo Konnor e i suoi fratelli parevano un po’ più grigi ed Edward non poteva biasimarli, quello psicopatico violento del loro fratello aveva rovinato la reputazione di tutta la loro casa in ogni modo possibile.

Ben presto, però, le cose cominciarono a tornare alla normalità. Buck e i fatti della partita scivolarono via dalle menti e dalle bocche di tutti, mentre una questione più urgente cominciava a prendere il loro posto, ossia la fine dell’estate. Edward non si era reso conto del fatto che ormai fosse agli sgoccioli finché non si era ritrovato un bigliettino sul comodino che l’avvisava di segnalare al più presto se fosse intenzionato a rimanere nel campo o a lasciarlo, altrimenti l’ultimo giorno le arpie si sarebbero mangiati tutte le sue cose e poi lui stesso. 

Sapeva già da molto tempo cosa avrebbe fatto, perciò disse a Chirone che sarebbe rimasto al campo senza alcun ripensamento. Poteva provare a tornare a scuola, magari infilarsi in qualche collegio o cose del genere dove non doveva pagare vitto e alloggio, ma l’idea di tornare in città, in mezzo ai comuni mortali, lo disgustava, per usare un termine gentile.

Mentre tornava dalla Casa Grande fece una piccola deviazione. In quei giorni, con tutto quello che era successo, aveva scordato di fare una cosa. Doveva parlare con una persona molto fastidiosa.

Quasi tutte le case erano assurdi edifici fatiscenti che in qualche modo dovevano ricordare gli dei a cui erano dedicate. E se ce n’era una che alla perfezione riassumeva questo concetto, era quella di Tyche: vista da fuori pareva un piccolo casinò, con insegne a neon appese alle pareti e luci a led che percorrevano il cornicione del tetto. Non si poteva entrare nelle cabine degli altri, ma Edward non si sarebbe sorpreso se al suo interno avesse trovato tavolini da blackjack, roulette e slot machine.

Sperava di trovare Alyssa nei paraggi e non fu deluso. La vide appoggiata contro la parete della casa in compagnia di un’altra ragazza, la stessa che aveva visto assieme a lei la sera della festa, una biondina con mèche multicolore sparpagliate qua e là in modo da ricreare l’arcobaleno.

«Ehi» annunciò, avvicinandosi. Le due smisero di parlare e si voltarono verso di lui, rivolgendogli sguardi confusi.

«Coso» lo salutò Alyssa. «Che ci fai qui?»

«Volevo solo…» Edward esitò. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato così difficile, specie dopo tutto quello che aveva patito per colpa di quella mocciosa. «… ringraziarti, per… insomma, per avermi salvato la pelle. Se non fossi arrivata tu io…» Non concluse la frase, ma lasciò ben intendere cosa volesse dire.

Alyssa corrugò la fronte. Rimase a osservarlo senza dire nulla, quasi come se non fosse sicura di aver davvero sentito quelle parole. «Uhm… okay. Prego, allora.»

Quella risposta sorprese Edward. «Come “prego”? Non hai altro da dire? Hai sventato un omicidio! Mi hai salvato la vita!»

«Duh, non potevo mica lasciarti morire, genio!» Alyssa scoccò uno sguardo alla sua ragazza, incredula. Sembrava le stesse dicendo: “Lo senti anche tu questo pazzoide?”

«Puoi toglierti dai piedi ora, coso? Sono un attimo impegnata» concluse Alyssa, avvolgendo per le spalle la sua dolce compagnia.

Edward era incredulo. Perfino quando cercava di essere gentile con lei quella lo trattava a pesci in faccia. «Scusa tanto» borbottò, prima di inchinarsi. «Me ne vado, sua maestà. I miei ossequi.»

L’altra ragazza ridacchiò, mentre Alyssa fece un verso di scherno. «Ecco, pussa via.»

«Maledetta mocciosa» borbottò lui, mentre si allontanava.

«Ti ho sentito, coso!»

Sistemata quella piccola faccenda, Edward trascorse il resto della giornata nel totale relax. Si ritrovò sulla sponda del laghetto assieme a Thomas, con Rick che faceva rimbalzare le pietre sull’acqua poco avanti. Proprio come il giorno in cui si erano conosciuti. Sembrava passato così tanto tempo da allora. Erano cambiate così tante cose che non sapeva nemmeno da dove cominciare.

Ricordava ancora quando aveva parlato con un Tommy deluso dal campo, pieno di dubbi, di incertezze, un ragazzino timido e un po’ impacciato. Adesso sembrava tutta un’altra persona. Certo, era pur sempre lui, il piccoletto coi capelli rossi, salvo casi eccezionali non ricambiava lo sguardo di nessuno per più di cinque secondi, ma era la sua indole, era una persona mite, tranquilla. Rimaneva comunque il fatto che fosse diventato capocasa e che fosse rispettato da tutti ormai per quello che aveva fatto.

«Rick ti fa ancora gli scherzi come l’ultima volta?» domandò, rompendo il silenzio che si era creato.

Thomas sorrise, lo sguardo fisso sul fratello minore. «Certo. Come sempre.»

«Anche adesso che sei il capo?»

«Soprattutto ora che sono il capo.»

Edward ridacchiò. «Sono sicuro che non lo fa con cattiveria.»

Anche il suo amico ridacchiò, tuttavia ben presto tornò serio. Edward si accorse che sembrava concentrato su Rick, ma in realtà pareva con la mente da tutt’altra parte.

«Tommy, tutto ok?»

Il figlio di Ermes si strinse nelle spalle. «Sì, certo. Sono solo un po’… nervoso.»

«Per cosa?»

«Quando finirà l’estate… tornerò a vivere con mia madre» ammise Thomas. «Non vivo con lei da… da un sacco di tempo. E lei… insomma, l’hanno dimessa da poco. Non ha più crisi, però… ho un po’ di paura.»

Edward sapeva che Thomas avesse fatto pace con sua madre. Sapere che quella situazione si fosse risolta per lui l’aveva rincuorato, anche se poteva comprendere le turbe del suo amico. «Sono sicuro che andrà tutto bene, Tommy.»

«Lo spero… anche perché… beh…» Il piccoletto arrossì. «Ci sarà… anche Lisa.»

Edward ci mise molto più di quanto avrebbe voluto per capire cosa stesse dicendo. «Aspetta… lei verrà a vivere con te e tua madre??»

Lui divenne ancora più rosso, forse per il tono incredulo di Edward. «É… è solo una prova» si giustificò. «Lisa… vorrebbe tornare a scuola, vivere come… una ragazza normale, almeno per un po’. Da quando è arrivata in America non c’è mai riuscita. E io… senza Lisa non sarei mai riuscito a fare pace con mia madre. Ho… ho bisogno di sapere che lei sarà lì con me. Mi fa sentire più tranquillo.»

Tutte le battute e le allusioni che Edward avrebbe voluto fare riguardo quei due sotto lo stesso tetto sfumarono all’improvviso. Capì che per Thomas quella cosa era davvero importante. Lisa era importante, per lui.

«Andrà tutto bene, Tommy» ripeté Edward. «Non devi pensare a quello che potrebbe andare storto. Pensa al fatto che sarai di nuovo assieme a tua madre. Pensa al fatto che lei ti ha sempre voluto bene e pensa anche che la tua ragazza sarà lì con te per tutto il tempo. Capisco che tu sia teso, dopotutto è un salto nel vuoto per te, ma devi avere fiducia. E poi tu e Lisa avete fatto a pezzi un gigante, insieme, sono sicuro che questa sarà una passeggiata.»

«In realtà quella volta ho avuto molta meno paura rispetto a ora» rispose Thomas, ridacchiando nervosamente. «È solo che… non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa situazione. Ho di nuovo mia madre, ho una ragazza, sono… capocasa. È come un sogno che si avvera. E adesso… ho paura di perdere tutto. Non voglio che il sogno diventi un incubo.»

«Non succederà, Tommy. È normale avere paura, ma tu sei la persona più coraggiosa che conosca. Nonostante la paura hai sempre combattuto non per te stesso, ma per le persone a cui tieni. Non ti sei mai fermato di fronte a niente e sono sicuro che non lo farai neanche questa volta, perché so come sei fatto, e so che quando le cose si mettono male, tu sei il primo a darsi da fare per risolverle.»

Thomas spostò lo sguardo su di lui. Sembrava genuinamente senza parole. «Io… grazie, Edward.»

«E di che?» Edward batté il pugno contro la sua spalla. «E ricorda anche che noi ci saremo sempre per te.»

«Voi? Intendi tu e Nat?»

Edward sussultò. Era la prima volta che Tommy menzionava lui e Natalie. Quando vide il sorrisetto divertito di Tommy, realizzò che in fondo in fondo un po’ di Ermes esisteva anche dentro di lui.

«Intendo tutti quanti» rispose Edward, tornando a sorridere. «Steph, Konnor, Rosa… e sì, caro cognato, anche me e Nat.»

I due ragazzi ridacchiarono. A Edward venne inevitabilmente da pensare a sua madre. Era ancora viva, Naito gliel’aveva detto. Era da qualche parte in Giappone. Non aveva mai scordato quelle parole, eppure si sentiva con le mani legate. Non poteva andare a cercarla laggiù, non così dal nulla almeno, non nel bel mezzo di tutta quella storia tra dei. E la cosa lo faceva imbestialire.

I suoi pensieri si interruppero quando udì Rick esultare a pieni polmoni di aver battuto il suo record di rimbalzi sull’acqua. A quel punto gli venne di nuovo da sorridere. Era certo che quella piccola peste gli sarebbe mancata, così come gli sarebbero mancati tutti i suoi amici.

Konnor, Stephanie, Thomas, Lisa, Rosa e purtroppo – purtroppo – Natalie sarebbero partiti. Si erano promessi tutti di tenersi in contatto tramite messaggi Iride, ma Edward sapeva che non sarebbe stato lo stesso. Aveva appena trovato una nuova famiglia e stava già per separarsene. Sapeva che non sarebbe stato per sempre, ma un intero anno senza di loro pareva un’eternità.

Soprattutto per Nat. Gli sarebbe mancato poterla stringere e baciare. Gli aveva detto che, se tutto fosse andato bene, sarebbe tornata nel giro di pochi mesi, ma anche in quel caso a lui sembrava troppo tempo. Trattenne un sospiro affranto e si sforzò di sorridere alla serenità che il laghetto soleggiato trasmetteva. Erano gli ultimi giorni che gli restavano con le persone a lui più care, avrebbe dovuto sfruttarli al meglio.

 

***

 

Era passato di fronte alla Casa Quattro un milione di volte, per questo motivo non si era mai reso conto del meraviglioso roseto che era sbocciato dietro di essa. Quando fece il giro e trovò Stephanie accovacciata sui fiori un altro sorriso nacque sul suo volto. Di nuovo, sembrava passata una vita dall’ultima volta in cui l’aveva trovata inginocchiata in quel giardino. Anche in quel caso, un mucchio di cose erano cambiate. All’epoca i fiori erano morti, calpestati, distrutti, e in un certo senso anche Steph era così, triste, sola, demoralizzata.

Adesso invece lei sembrava genuinamente felice, rilassata, e soprattutto avrebbe potuto far pentire a chiunque di mettersi sulla sua strada, mentre il giardino era rigoglioso, un mosaico stupendo di fiori multicolore. C’erano un mucchio di rose, bianche e rosse, e poi forse delle viole, e dei tulipani, e gigli e… insomma, tutti quegli altri fiori con i petali, i gambi ed eccetera eccetera. Non era Edward l’esperto.

«Steph» la chiamò, visto che non si era ancora accorta di lui.

«Oh, Edward!» Lei si voltò e si rimise in piedi, rimuovendo la terra dal panda raffigurato sul suo grembiule da giardinaggio. «Ciao. Come stai?»

«Bene. Tu?»

«Bene. Stavo finendo di sistemare il giardino. Che te ne pare?»

«È stupendo» disse Edward, meravigliato.

Stephanie sorrise smagliante. «Grazie!»

Edward venne contagiato dalla sua serenità. Era bello vederla così tranquilla, come se qualcos’altro fosse tornato al proprio posto in quel campo. Stephanie senza quel sorriso gentile non era Stephanie.

«Ascolta, Steph… non abbiamo parlato molto da quando siamo tornati da San Francisco. E adesso che stai per lasciare il campo volevo solo assicurarmi che… insomma, non ci fossero rancori tra noi per tutto quello che è successo.»

Stephanie si fece più seria. «Non preoccuparti, Edward. Abbiamo… sbagliato entrambi. Non è stata colpa di nessuno. Non sono arrabbiata con te, davvero.»

Il figlio di Apollo annuì. «Sono felice di saperlo. Sei… stata molto importante, per me. Non voglio perdere la tua amicizia per colpa della mia idiozia.»

La ragazza ridacchiò. «Non sei un idiota, Edward. E anche tu sei importante per me.»

Gli occhi caldi di Stephanie si posarono su di lui, facendolo sentire in soggezione. Fin dal primo momento in cui li aveva visti, aveva perso la testa per loro. Per Steph. Le era piaciuta fin da subito, ma poi… le cose erano cambiate. Lui aveva commesso degli errori, lei aveva scelto Konnor, le cose erano andate come erano andate e forse era meglio così. In ogni caso, sarebbe sempre stata sua amica.

«Sono felice per te e Konnor» disse infine, riuscendo a sorriderle di nuovo.

Steph sorrise a sua volta. Fece un passo avanti e l’abbracciò. «E io per te e Natalie.»

Fu una stretta veloce, ma Edward fu comunque felice che l’avesse fatto. Significava che, nonostante tutto, lei si sentiva a suo agio accanto a lui.

«Per qualsiasi cosa, manda un messaggio Iride. Io risponderò sempre» lo rassicurò poi, quando lo lasciò andare.

«Lo stesso vale per me. Se hai bisogno, chiama. Tanto da qui non scappo» concluse Edward. I due ragazzi si scambiarono un ultimo cenno, poi Edward si congedò.

Steph e Tommy erano i primi amici che si era fatto nel campo, anzi, probabilmente i primi amici che si era fatto in tutta la vita. Gli sarebbero mancati. Si accorse che il cielo era sereno, il sole splendeva ancora, ma stava cominciando a calare. Il che significava che l’ultima persona che stava cercando doveva essere nel solito posto.

Quando entrò nell’arena venne subito accolto dal rumore delle spade che cozzavano e dei grugniti dei ragazzi che si stavano allenando. E naturalmente in mezzo a tutti loro c’era anche Rosa. Quando si accorse di lui lo salutò, ma poi tornò ben presto a concentrarsi sui suoi esercizi, mentre il coach Hedge belava ordini e contrordini.

Rimase seduto sugli spalti, a osservare tutti loro con un sorriso, in particolare Rosa che interagiva anche con gli altri. Ripensò al momento che avevano condiviso assieme nell’arena l’ultima volta, al bigliettino che aveva trovato per terra, e il buonumore svanì da dentro di lui. Non si era dimenticato di quella storia, di Rosa che pensava di unirsi alle cacciatrici, ma soprattutto della profezia che parlava del sangue della vergine. Si irrigidì senza nemmeno accorgersene, mentre di fronte a lui i semidei continuavano ad allenarsi ignari di tutto. Rosa era ignara di tutto.

Edward espirò profondamente, cercando di mantenere la calma. Doveva dirglielo. Rosa doveva sapere. Non poteva entrare nelle cacciatrici, o sarebbe stata in pericolo.

«Bene angioletti, per oggi è tutto» esordì il coach Hedge, ai ragazzi annaspanti e sudati dopo la lunga sessione. Alcuni erano seduti a terra, altri in piedi a braccia conserte, e tutti facevano ombra al piccolo satiro.

«A tutti quelli che partiranno, voglio ricordare che avete solo più tre giorni per allenarvi con il sottoscritto, quindi vi consiglio di sfruttarli per bene, o là fuori vi faranno a brandelli. Sono stato chiaro?»

«Sì, coach» dissero tutti in coro, con lo stesso tono di una classe stanca di sentire gli sproloqui del professore.

Come al solito, il coach Hedge non si accorse di nulla, perché si impettì. «Molto bene. Ora tutti fuori dagli zoccoli, dovete farvi una doccia!»

La folla cominciò a sparpagliarsi. Edward rimase seduto e incrociò lo sguardo di Rosa che si stava avvicinando a lui. «Ehi, hermano» lo salutò, con un ampio sorriso. «Che fai, batti la fiacca? Non ti alleni da una vita, sai?»

Edward sollevò le spalle. «Scusa hermana. In questi giorni ho avuto altro per la testa.»

Rosa si fece seria all’improvviso. Accennò con il mento al suo stomaco. «Stai meglio?»

La preoccupazione di Rosa lo fece sorridere. Saltò giù dagli spalti e annuì, battendo il pugno contro la sua spalla. «Certo che sto meglio. Mi conosci, no? Mi hai dato cazzotti ben peggiori e mi sono sempre rialzato.»

Sua sorella ridacchiò, anche se sembrava un po’ nervosa. Non resse più il suo sguardo ed Edward intuì che c’era qualcosa che non quadrava. «Rosa? Tutto ok?»

«Sì, sì… sono solo un po’… tesa» gli spiegò, sedendosi sugli spalti con un profondo sospiro. «Non so cosa aspettarmi quando tornerò a casa. Ho paura di… di non essere la benvenuta.»

«E allora perché torni?» domandò Edward, sentendosi davvero confuso. Tutte le volte che Rosa aveva menzionato la sua famiglia mortale, diceva sempre cose simili. Eppure, voleva comunque lasciare il campo, i suoi allenamenti, gli amici nuovi che si era fatta e un posto da capocasa per tornare da loro.

«Perché è comunque mia madre» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «E questa potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.»

Edward si sedette di nuovo, accanto a lei, sorpreso. «Che intendi dire?»

«Te l’ho già detto, Edward. Sto diventando troppo grande per il mondo esterno. I mostri si accorgono di me più facilmente. E poi sarò molto lontana dal campo, perciò non potrò nemmeno contare sul vostro aiuto se dovesse succedere qualcosa.»

«Dov’è che andrai? Hai detto a nord, una volta, ma non mi hai mai detto un posto preciso.»

Rosa fece uno strano sorrisetto. «Bismarck, Dakota del Nord.»

«Mai sentito nominare.»

Lei ridacchiò. «Non ti perdi niente. Quel posto è una noia mortale. L’unica cosa positiva è che almeno rivedrò Sam.»

«Sam?» Edward corrugò la fronte. «Chi è Sam?»

«Il mio fratellastro mortale, Samuel» spiegò Rosa. «Il figlio del mio patrigno. È l’unico con cui vado d’accordo in quel mortorio.»

«Ohh…» fece Edward. Per un attimo aveva creduto che fosse un ragazzo che aveva lasciato laggiù. E forse anche Rosa aveva pensato lo stesso, perché ridacchiò di nuovo.

«Ci sei, hermano

«S-Sì, certo, certo…»

Rosa tirò fuori un asciugamano dallo zainetto e si diede una ripulita dal sudore, mentre il resto dell’arena cominciava a svuotarsi pian piano. Edward tamburellò con le dita sopra il legno degli spalti. Doveva parlare con Rosa di quella faccenda, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare.

«Mi serve una doccia.» Rosa saltò giù dagli spalti e si sgranchì il collo. «Ci vediamo a cena, hermano

Edward trasalì. «O-Okay.»

Se Rosa si era accorta del suo tentennamento, non lo diede a vedere. Rimise l’asciugamano nello zainetto e gli sorrise un’ultima volta. «Allora a dopo.»

«A dopo…»

Quando anche lei lasciò l’arena, Edward sospirò profondamente e seppellì il viso tra le mani.

 

***

 

Inutile dire che non parlò con Rosa di quella storia quel giorno, e nemmeno quelli successivi. Il tempo stringeva ed Edward cercava di fare tutto meno che quello.

Forse non si sarebbe davvero unita alle cacciatrici. Forse la profezia non riguardava davvero lei. Forse non correva alcun pericolo, forse non le sarebbe successo niente. Eppure, quel macigno che gli era sceso nello stomaco fin dal giorno in cui aveva visto quel biglietto da visita non voleva saperne di svanire.

E poi, arrivò il gran giorno. I ragazzi andavano e venivano dalle capanne, trasportando valige, bagagli, zaini. Le figlie di Afrodite avevano trolley giganteschi, che avevano gentilmente scaricato ai loro ragazzi – almeno, Edward volle pensare che fossero i loro ragazzi e non dei poveretti che volevano provarci all’ultimo momento.

Rimase all’ombra del pino di Talia, dove si era dato appuntamento con gli altri per gli ultimi saluti, a scrutare il campo con attenzione. Vide moltissimi ragazzi salutarsi, abbracciarsi o baciarsi. Non era l’unico che avrebbe perso le sue conoscenze più strette per il resto dell’anno. Ma di Rosa ancora nessuna traccia.

Un altro sospiro gli scappò dalle labbra, ma fece svanire il muso lungo quando si accorse di Thomas e Lisa, che arrivarono mano nella mano. Salutò entrambi con un abbraccio, poi fece un sorrisetto, scrutando prima l’uno e poi l’altra. «Fate i bravi voi due.»

Entrambi arrossirono, borbottandogli di starsene zitto, e a lui venne da ridere.

Salutò con un abbraccio anche Stephanie, mentre con Konnor si limitò a battere il pugno.

«Non fare casini mentre non ci sono» lo mise in guardia il figlio di Ares. «Non vorrei tornare quest’estate e trovare una landa desolata al posto del campo.»

Edward ridacchiò. «Tranquillo, amico. Questo posto è in ottime mani!»

Konnor fece un mugugno poco convinto, ma non disse altro. Edward osservò i quattro ragazzi scendere tutti assieme la collina, per raggiungere le diverse navette del Campo Mezzosangue parcheggiate, in attesa dei passeggeri. Konnor stava parlando con Thomas, Lisa con Stephanie, e sembravano tutti genuinamente felici. Forse si stavano raccontando i loro piani per l’anno scolastico.

Guardandoli, Edward sentì il petto stringersi in una morsa. Lisa e Thomas sarebbero andati a scuola insieme, avrebbero abitato insieme, Konnor invece sarebbe andato in un altro istituto, perché era più grande, ma tutti e tre sarebbero comunque rimasti a New York. Stephanie andava a Kansas City, invece, però poteva spostarsi a suo piacimento con le piante, perciò avrebbe potuto fare avanti e indietro da New York tutte le volte che voleva. Insomma, loro quattro avrebbero continuato a vedersi regolarmente. Lui invece era tagliato fuori.

Qualcuno gli diede un pizzicotto al fianco, facendolo sobbalzare. Si voltò furibondo, per poi ammansirsi di fronte al sorrisetto di Nat.

«Scusa, Edward. Ti vedevo un po’ smarrito.»

«Nat…» disse lui sorridendo, anche se gli fu difficile farlo, visto che stava per salutare anche lei.

Natalie si strinse a lui e gli accarezzò una guancia, con fare apprensivo. «Mi mancherai, testone.»

«Anche tu… anche tu mi mancherai.»

Lei gli sorrise, poi azzerò le distanze tra loro. Sarebbe stato il loro ultimo bacio, quindi Edward decise di avere un bel ricordo di esso. L’abbracciò con forza, avvolgendo le mani dietro la sua schiena e tirandola a sé, carezzando il suo corpo magro.

«Ti manderò un messaggio Iride tutti i giorni» le disse, quando si separarono.

La ragazza sorrise, scaldandolo con il suo tocco gentile. «Va bene. Io… spero di non dovermi fermare troppo. Giusto il tempo di tornare a casa e sistemare… insomma, quella faccenda. Tornerò qui appena potrò, te lo prometto.»

Edward annuì, trovando la forza di sorriderle di nuovo. Gli aveva detto che sua madre aveva avuto qualche problema con l’uomo con cui si era risposata. Non era scesa molto nei dettagli, ma non sembrava una situazione semplice.

«L’importante è che tu e tua madre stiate bene, Nat. Prenditi tutto il tempo che ti serve» disse, spostandole dietro l’orecchio una ciocca di capelli.

«Spero sia il meno possibile» rispose lei, con una risatina nervosa. I loro sguardi si incrociarono e ancora una volta Edward non riuscì a credere a quanto fosse stato fortunato di averla conosciuta.

Natalie sciolse l’abbraccio con dolcezza. «Beh… ci vediamo, Edward.»

«Ci… ci vediamo.»

Com’era accaduto qualche settimana prima, gli sembrò di volerle dire qualcos’altro. E forse anche lei stava provando lo stesso. Tuttavia, nessuno dei due fece nulla. Natalie lo salutò un’ultima volta con un cenno della mano, poi cominciò a scendere la collina, lasciandolo solo. Edward rimase a lungo a osservare i ragazzi che si accingevano a lasciare il campo, per partire per quelle vite “normali” che avevano accantonato in quei mesi.

Una vita normale. A volte si chiedeva cosa si provasse ad averne una.

Ci mise diversi istanti per accorgersi di non aver ancora visto Rosa da nessuna parte. Spalancò gli occhi, guardandosi attorno agitato, ma di lei nessuna traccia.

Un’orribile sensazione si fece largo dentro di lui all’improvviso. Scese la collina di corsa, ignorando alcuni ragazzi contro cui andò a sbattere, e si precipitò verso la capanna Sette. Trovò al suo interno Jonathan e un paio dei suo fratelli che non sarebbero partiti.

«Ragazzi, avete visto Rosa?» domandò, cercando di non sembrare troppo affannato.

«Uhm… no» rispose Jonathan. «Perché?»

«Non… non importa.» Uscì trafelato e si diresse verso il secondo luogo in cui si aspettava di trovarla.

Non appena udì il rumore della spada che impattava contro i manichini, tirò un sospiro di sollievo. Rosa era lì, nell’arena, sola soletta. Se la stava prendendo con un povero manichino indifeso, trucidandolo con la sua sciabola argentata.

«Rosa!» la chiamò.

Lei si voltò di scatto e lo squadrò stupita. «Sì?»

«Che… che ci fai qui?»

«Allenamenti dell’ultimo secondo. Perché?» Rosa corrugò la fronte. «Che è quella faccia, hermano? È successo qualcosa?»

«N-No, no…» Edward si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo. L’ultima volta che Rosa non si era fatta viva per troppo tempo… non era finita bene. «Le… le navette stanno partendo» disse. «Non… non vai?»

«Prenderò la prossima» rispose lei, prima di ridacchiare. «Alcune fanno due giri, hermano.»

«O-Ohh…»

«Eh già. Quante cose nuove che si imparano ogni giorno, vero?»

Di norma le avrebbe risposto con lo stesso sarcasmo, ma non ci riuscì, non con la consapevolezza di doverle ancora parlare, e soprattutto non dopo aver visto tutti i suoi amici e la sua ragazza partire.

«Ehi, hermano.» Rosa si avvicinò a lui, facendosi apprensiva. «Va tutto bene? Gli altri sono già partiti?»

Edward ricambiò il suo sguardo. Aveva subito capito cosa lui stesse provando. O almeno, una parte. Annuì, mesto, senza rispondere. Quando lei lo abbracciò, sussultò per la sorpresa.

«Mi dispiace tantissimo, Edward. Non è… facile, rimanere soli. Purtroppo lo so bene.»

Le labbra di Edward tremolarono. Ricambiò l’abbraccio di Rosa senza dire niente, stringendola forse con molta più forza di quanto avrebbe voluto, ma lei non glielo contestò. Tra tutte le persone che aveva conosciuto, forse lei era la più importante, più dei suoi amici, più di Natalie. Era sua sorella, era famiglia, la sua vera famiglia.

«Mi… mancherai hermana» mormorò.

«Anche tu, hermano.»

Quando si separarono, Edward cercò di farsi forza. Vedere tutti i suoi amici partire era stato un colpo molto più forte di quanto avrebbe potuto immaginare. «Ci… ci vediamo l’anno prossimo, giusto?» domandò, abbozzando un sorriso.

Rosa esitò. Ancora una volta, abbassò gli occhi e non incrociò più il suo sguardo. «Sì, certo.»

Di nuovo quella reazione. Edward capì che stava nascondendo qualcosa. E forse, quel qualcosa era proprio ciò di cui voleva parlarle. «Va tutto bene?»

«Sì, certo. Tu invece? Va un po’ meglio?»

Edward si irrigidì. Stava cercando di sviare l’argomento. Era una cosa che lui faceva spesso, quando era con le spalle al muro. «C’è qualcosa che devi dirmi, hermana

«Ehm… no… perché?»

Il ragazzo cominciò a spazientirsi. Con tutte le storie che lei gli aveva fatto sul dire la verità, ora stava palesemente mentendogli in faccia. Estrasse il biglietto da visita delle cacciatrici e glielo mostrò. «Questo ti dice nulla?»

Rosa spalancò gli occhi e glielo strappò dalle mani. La sua reazione fu proprio quella che Edward si era aspettato, e che aveva temuto di più. «Dove l’hai preso?» gli domandò, con un filo di voce.

«Ti è caduto dallo zaino. Vuoi unirti alle cacciatrici?»

«Perché non me l’hai ridato subito?»

«Rispondi alla mia domanda. Vuoi unirti alle cacciatrici?»

Sua sorella assottigliò le labbra. Raddrizzò la schiena e ricambiò il suo sguardo con la sua stessa determinazione. «Ci stavo pensando, sì.»

«E quando pensavi di dirmelo?»

Rosa rimase in silenzio, cupa in volto. Tutta la dolcezza e la nostalgia di poco prima era svanita, rimpiazzata da una profonda durezza.

«Volevi partire e unirti alle cacciatrici? Senza dirmi niente?» insistette Edward.

«L’avrei fatto, prima o poi» replicò lei, senza più guardarlo.

«Prima o poi? Vuoi dire tramite un Messaggio Iride, mentre eri a Bismarck, a centomila miglia di distanza?»

«Sì.» Le nocche di Rosa scricchiolarono quando strinse i pugni. Sollevò di nuovo la testa, severa come poche volte l’aveva vista. «Sì, era proprio quello che volevo fare.»

Edward ricambiò lo sguardo, senza battere ciglio. «Perché? Credevo che tra noi non ci fossero segreti, perché volevi…»

«Per evitare questa discussione!» esclamò lei, alzando la voce. «Perché sapevo che tu saresti stato contrario e non volevo che cercassi di impedirmelo!»

«Ma perché vorresti partire? Dopo tutto quello che abbiamo passato! Proprio adesso che il campo ti rispetta, proprio quando…»

«Woo, woo, woo» Rosa agitò le mani per fermarlo, prima di emettere una risatina incredula. «Il campo mi “rispetta”? Ma ti senti quando parli?» Fece un passo verso di lui. Sembrava furibonda. «Certo, mi rispettano, dopo che un mostro mi ha quasi mangiata. Bel modo di farsi rispettare! A nessuno è mai importato niente di me prima di tutto questo! E dimmi, in quanti mi davano già per spacciata prima che tu scoprissi che ero ancora viva?»

Edward esitò, ma Rosa non aveva ancora finito: «Quando sono tornata tutti hanno iniziato a trattarmi con i guanti solo perché ero quasi morta! Mi hanno fatto suonare quella sera, mi hanno fatto fare tutto quello che volevo solo perché si sentivano in colpa! Non è rispetto, quello, e tu lo sai meglio di me! A te piacerebbe se tutti ti trattassero in maniera diversa solo perché hanno scoperto quello che ti è successo nello Yomi?»

La cicatrice di Edward formicolò, facendolo rabbrividire. Sentì Rosa tirare su con il naso e la vide mentre si asciugava una lacrima. «Non… non sono mai stata voluta, qui. A nessuno è mai importato niente di me. E tu… tu non mi impedirai di fare quello che reputo giusto per me stessa. Non mi impedirai di unirmi alle uniche persone che tengono a me.»  

Edward assottigliò le labbra. «Anch’io tengo a te.»

Rosa trasalì. Altre lacrime scesero dai suoi occhi brillanti. Asciugò anche quelle, con un singhiozzo, poi scosse la testa. «Mi dispiace, Edward. Ho fatto la mia scelta. L’ho fatta già da molto tempo, da prima ancora di conoscerti. Mi unirò alla caccia e combatterò assieme alle nostre zie. La nostra amicizia non cambierà le cose.»

«E tutti i discorsi sul fatto che non devo pensare a tutto io, allora? Sul fatto che anche tu vuoi aiutarmi?! Non puoi abbandonarmi così!»

«Sono sicura che te la caverai benissimo anche senza di me. Anzi, mi pare che tu mi abbia già rimpiazzata da un pezzo. Sei l’eroe del campo, ormai, tutti ti amano. Non più hai bisogno del mio aiuto. Non ne hai mai avuto.»

Sembrava davvero amareggiata mentre diceva quelle parole. Dal modo in cui glielo disse, poi, sembrava che fosse un sentimento che nutriva da parecchio tempo.

«Rosa…» provò ancora a dire lui.

«Basta, Edward. Ti prego. Non complicare ancora di più le cose.»

«Ma non puoi unirti alle cacciatrici!» insistette lui. «C’è una profezia! Un verso che non si è ancora realizzato!»

«Che… che cosa?»

Edward notò il suo stupore e pensò che forse aveva trovato il modo di farla desistere. Le spiegò tutto quello che aveva scoperto, la profezia, il sangue della vergine, il fatto che lei fosse il sacrificio, tutto quanto. A racconto concluso, Rosa rimase in un silenzio attonito, con le labbra schiuse.

«Non puoi unirti alle cacciatrici» ripeté Edward, sentendosi drenato di ogni energia. «Se lo farai… sarai in pericolo.»

Per un momento, Rosa non disse niente. Sembrava che stesse davvero ponderando sulle sue parole. Poi, però, un’altra risatina nervosa le scappò dalla gola. «E quindi… cosa dovrei fare, Edward? Mh?» Si avvicinò a lui, arrivando a un palmo dal suo naso. «Dovrei… perdere la verginità?»

Edward trasalì, senza rispondere. Anche perché non aveva proprio idea di che cosa dire.

«Ma si può sapere cosa ti dice il cervello?» insistette Rosa. «In quale universo credevi che parlarmi di questa cosa non mi avrebbe comunque fatto unire alle cacciatrici? Io… non riesco nemmeno a credere che tu abbia detto una cosa del genere a tua sorella! Ma cosa speravi di ottenere?! Pensi di controllarmi anche su questo, adesso?!»

«Voglio solo proteggerti!»

«Ah sì? E in che modo? Lasciando andare via la stessa persona che mi ha cacciato in questa situazione? Obbligandomi a non fare quello che voglio?! Non mi serve la tua protezione! Non mi è mai servita!»

Edward non poteva credere alle sue orecchie. Affondò le unghie nei palmi. «Non ti è mai servita? Sei salva grazie a me.»

«Ah, è così che vuoi metterla? Vuoi davvero giocarti questa carta, Edward?»

«Senti…»

«L’unico motivo per cui mi hai salvata, anzi, l’unico motivo per cui sei un eroe è quella stupida spada!» tuonò Rosa. «Senza non saresti niente!»

«Che… che cosa?»

Rosa spalancò gli occhi. Sembrò pentirsi di quelle parole nel momento esatto in cui aveva finito di pronunciarle.

«Tu… tu sei invidiosa» sussurrò Edward, incredulo. «Sei invidiosa che io sia un eroe. E… e ti fa arrabbiare il fatto che all’inizio io avessi bisogno di te e ora non più. È così?»

Rosa si irrigidì. Parve toccata su un nervo scoperto e quella reazione disse a Edward tutto quello che aveva bisogno di sapere.

«Tutto quello che è successo… la nostra amicizia, quello che abbiamo fatto insieme… vuoi buttare tutto alle ortiche per questo? Per una stupidaggine del genere?!» Ora Edward era furibondo. «Ma fai sul serio, Rosa?»

«Smettila» bisbigliò lei. «Io… io volevo cambiare le cose. Volevo che il campo fosse unito, che nessuno ci giudicasse per i nostri genitori, volevo… essere un’eroina. Mi sono rotta la schiena per anni, in attesa del momento giusto, in attesa di un’impresa. E poi… poi sei arrivato tu e hai fatto tutto quello che volevo fare io. Sono… sono diventata “la sorella di quello importante”. La ragazza da salvare. L’ostaggio, il sacrificio. Non sono invidiosa di te, Edward, anzi. Sono felice che tu abbia trovato la tua strada. Ma quello che è successo… mi ha fatto capire che io non servo qui. Non sono mai servita. Il campo ha già un suo eroe.»

«Non riesco a credere alle mie orecchie. Dopo tutto quello che mi hai detto, tutti i discorsi che mi hai fatto, vuoi scappare via così!» Edward non si era mai sentito così deluso. «Che ipocrita…»

Le labbra di Rosa tremolarono. «Sei crudele…»

«E tu una mocciosa che vuole scappare dai problemi!»

Sua sorella schiuse la bocca. Non appena la vide con quell’espressione così ferita, Edward realizzò di aver esagerato. Fece per parlare, per chiedere scusa, ma lei fece un passo indietro e accennò con il mento all’uscita. «Vattene.»

«Rosa, io…»

«VATTENE!» Rosa sollevò la sciabola, con uno sguardo così furibondo che Edward sussultò.

«Va bene» acconsentì, stanco, sconfitto, troppo triste per continuare a litigare, troppo arrabbiato per tentare di ragionare ancora con lei.

Le diede le spalle e si avviò verso l’uscita con il peso del mondo che gravava sulle sue spalle. Era quasi morto, l’avevano ferito, l’avevano sfigurato, l’avevano trattato come un insetto, eppure non si era mai sentito così abbattuto. Poco prima di uscire si fermò e strinse i pugni. «Spero… spero davvero che tu sappia quello che fai, Rosa. Saluta la zia da parte mia.»

Non attese risposta. Uscì dall’arena prima che Rosa potesse ribattere, conscio del fatto che quella discussione sarebbe stato l’ultimo ricordo che entrambi avrebbero avuto l’uno dell’altra.

 

***

 

Quel pomeriggio il campo era così silenzioso che pareva tutto un altro posto. Mentre camminava tra le case semivuote, Edward si sentiva nello scenario di qualche film di zombie. A un certo punto cominciò perfino a temere che uno dei suddetti zombie sbucasse fuori per mangiargli il cervello. Anzi, piuttosto che temerlo, era meglio dire che ci sperava. Un bello zombie che saltava fuori dal nulla e gli mangiava la testa. Sarebbe stato il modo migliore per smettere di pensare a quello che era successo con Rosa.

Non solo i suoi amici e la sua ragazza erano partiti, ma aveva anche litigato con sua sorella. Si era lasciato con lei nel peggior modo possibile, il tutto proprio mentre stava pensando se unirsi alle cacciatrici. Se Rosa aveva ancora dei dubbi su cosa fare, dopo quello che era successo di sicuro non ne aveva più. Stephanie si era sbagliata su di lui: era un vero autentico idiota. Forse, se avesse tentato un altro approccio, Rosa l’avrebbe ascoltato. Ormai era troppo tardi.

Edward si stravaccò sul suo letto, con un sospiro esausto. Gli sarebbe piaciuto mettersi a dormire fino all’estate successiva. Forse avrebbe potuto chiedere ai figli di Ipno se potevano ipnotizzarlo o qualcosa del genere. Il suo sguardo cadde distrattamente su Veloce come il Vento, appoggiato contro la parete accanto al suo letto, la corda ancora spezzata. Rimuginò per qualche istante, poi intuì cosa avrebbe potuto fare per smettere di pensare a tutti i casini che aveva combinato.

Mentre si dirigeva verso il bosco, incrociò con suo enorme stupore il volto familiare di una ragazza seduta all’ombra di un albero.

«Jane?»

«Edward!» disse lei. Si alzò in piedi con un sorriso raggiante. «Come va?»

«Ehm… bene» mentì spudoratamente lui, mentre studiava il suo aspetto. Aveva i capelli color platino raccolti in uno chignon. Le stavano bene, con due ciuffetti più lunghi che scivolavano lungo gli zigomi. Doveva anche aver scelto i vestiti “casual” quel giorno, perché indossava una semplicissima camicia di lino azzurrina e degli shorts color panna che lasciavano scoperte le gambe pallidissime.

«Non… non sei tornata a casa?» domandò, accorgendosi di essere rimasto in silenzio a fissarla come un baccalà.

Jane si strinse nelle spalle, il sorriso gentile che svaniva. «Non ho nessun posto dove tornare. Mio padre… beh, è in prigione.»

L’espressione basita di Edward la fece ridacchiare. «È successo tanto tempo fa. Sta ancora scontando la pena» gli spiegò, prima di sospirare affranta. «Devo aver preso da mia madre la bravura nel scegliere gli uomini…»

«Jane…» cercò di dire Edward.

«Sono felice che tu sia rimasto nel campo.»

Edward rimase in silenzio, stupito, mentre Jane tornava a sorridergli. Non sembrava nemmeno lontanamente la stessa persona che aveva conosciuto il suo primo giorno al nel campo. Gli bastò vederla con quell’espressione così serena per sentirsi subito meglio. Fu come se, per quel breve istante, tutti i suoi problemi e le sue turbe fossero passati in secondo piano.

«A proposito…» disse ancora lei, passandogli accanto. «… non sei ancora passato da me per rivedere il tuo guardaroba. Guarda che non puoi continuare ad andartene in giro conciato in quel modo. Fai male agli occhi.»

«Ma…» provò a protestare Edward, ma Jane era già partita. Il figlio di Apollo rimase immobile, a guardarla mentre si allontanava, e un altro sorriso nacque sul suo volto. Scosse la testa, poi proseguì verso la sua destinazione.

 

***

 

«… come?» domandò Kevin, con voce stanca, mentre esaminava l’arco.

«Cosa?»

«Come hai fatto a romperlo?»

«Io non ho fatto proprio niente. Si è rotto da solo.»

«Impossibile. È uno dei miei lavori migliori. Devi averlo rotto di proposito.»

«Ti dico di no! Si è rotto da solo!»

Un grugnito poco convinto provenne dal figlio di Efesto, che posò l’arco sul tavolo da lavoro e si stravaccò su una sedia ergonomica girevole. «Beh, amico, ora non sono proprio in vena di riparazioni. Magari domani gli darò un’occhiata.»

Edward assottigliò lo sguardo, facendolo vagare lungo tutto il Bunker Nove. L’ultima volta che era stato lì c’era un disordine pazzesco, ma adesso era pure peggio. Non c’era una sola cosa al proprio posto, le mensole, gli scaffali, i tavoli erano strapieni di aggeggi smontati, con cavi scoperti e pile e pile di circuiti e bulloni accanto.

«Ma che cavolo è successo qui?» domandò. «È passato un tornado?»

«Stavo dando una sistemata.»

«Si vede…»

Kevin mise i piedi sul tavolo. «Allora, te ne vai o no?»

Edward si voltò verso di lui, irritato. «Senti, ma qual è il tuo problema? Perché devi comportarti come se detestassi tutti quanti, quando in realtà sappiamo entrambi che non è così?»

Per la prima volta da quando lo conosceva, quel Mister Simpatia sembrò senza una risposta scontrosa da dargli. Rimase in silenzio per qualche istante, a scrutarlo dal basso, come se stesse davvero riflettendo sulla sua domanda. Poi si strinse nelle spalle. «Vuoi la verità? Non ne ho idea. So solo che... per alcuni di noi figli di Efesto è difficile avere a che fare con le persone. Avete tutti i vostri… sentimenti, sogni, ambizioni. Non siete macchine. Siete… complicati. E quando… vi “rompete” non basta un po’ di olio di gomito per aggiustarvi. Per quelli come me… isolarsi è molto più semplice. Non rischiamo di fare danni, almeno. Lo so che ti sembrerà assurdo, ma è la verità.»

Il figlio di Apollo pensò che fosse una delle spiegazioni più strambe che avesse mai sentito, tuttavia Kevin sembrava davvero sincero. Lo capì dal suo tono di voce, dal suo sguardo. Sembrava che stesse parlando per esperienza.

«Ma scusa, non… non avevi una ragazza? Quella della casa di Ebe, come si chiama? Sasha?»

«Sarah» corresse Kevin, prima di sospirare. «E sì, hai detto bene. Avevo.»

«Oh…»

«Già, amico. “Oh” è la parola giusta.»

«Che è successo?» domandò Edward, sedendosi di fronte a lui.

Kevin si mise una sigaretta in bocca. «E a te che ti frega?» borbottò, prima di accorgersi dell’occhiata che Edward gli lanciò. A quel punto si schiarì la voce. «Si è… arrabbiata quando ha scoperto che fumavo. Cioè, è una figlia di Ebe, quindi ci sta che sia contraria al fumo, però… non le è proprio andato giù il fatto che io gliel’abbia tenuto nascosto. Si è arrabbiata perché le ho mentito. Ha creduto che… che fumare per me fosse più importante di lei.»

«Ma… e allora perché non smetti, scusa?»

«Ci sto provando, okay!» esclamò Kevin, togliendo i piedi dal tavolo e sbattendo una mano sul ripiano. «Non è così facile! Mi sembra… mi sembra che io non abbia fatto altro che fumare da quando sono stato creato…» Si appoggiò allo schienale con un sospiro abbattuto. «Maledetti esseri umani… perché non potete avere un interruttore per i problemi? On e Off. Problemi sì, problemi no. Sarebbe tutto molto più semplice.»

«Ma anche più noioso. No?»

Kevin spostò lo sguardo su di Edward. Un mugugno gli scappò tra le labbra, mentre ponderava sulla sua affermazione. «Può darsi» convenne, con un’alzata di spalle. «E tu, invece?» domandò, indicandolo con la sigaretta. «Nemmeno tu hai una bella cera. È perché tutti i tuoi amici ti hanno mollato qui?»

«Come lo sai?» chiese Edward, stupito.

«Tsk. Non sei il primo e non sarai l’ultimo che vedo con quella faccia il giorno delle partenze. Succede tutti gli anni. Ti ci abituerai… se non schiatti prima, certo.»

«Wow, grazie…»

Il figlio di Efesto non sembrò accorgersi del sarcasmo, perché gli sorrise. «Figurati.»

Edward non credeva di averlo mai visto sorridere in quella maniera, quindi decise di non dirgli che lo stava solo prendendo in giro.

«Comunque non è solo per i miei amici» disse ancora, sentendosi sprofondare nella sedia. «Ho… ho litigato anch’io con qualcuno di importante.»

«La tua ragazza?»

«Mia sorella.»

«Brutta storia. Però, se posso dirti una cosa…» Kevin sollevò le spalle. «Le persone sono complicate, ma le famiglie lo sono ancora di più. Anzi, direi che sono proprio stronze. Specie quelle divine.»

Edward ridacchiò. «Sì, me ne sono accorto.»

«Però due persone di cui non importa niente l’una dell’altra non litigherebbero mai, secondo me. Si ignorerebbero e basta. Io ho otto fratelli e a malapena ricordo i loro nomi. Se non ho mai litigato con loro è per questo motivo. Se tu hai litigato con tua sorella, è perché tieni a lei. Ho ragione?»

Il figlio di Apollo cominciò a capire dove l’altro volesse andare a parare. «Sì, è così.»

«E allora non devi preoccuparti troppo. I litigi succedono spesso, specie in una famiglia. Aspetta che le acque si calmino e poi parlale di nuovo. Tutto si risolverà.»

«Sì, forse hai ragione» mormorò Edward, prima di sorridere. «Dai buoni consigli, per essere un incapace con le persone.»

«Beh, per sbagliare tutte le domande di un test occorre sapere tutte le risposte.»

Edward annuì. «Forse non sei così stupido. Anche se…» Si sporse verso di lui e gli sfilò la sigaretta dalle labbra proprio mentre se la stava per accendere. «… è ora che tu la smetta.»

«Ehi!» protestò il figlio di Efesto, per poco non rovesciandosi dalla sedia. Ghermì l’aria con la mano nel tentativo di raggiungerlo. «Ridammela!»

Edward allontanò la sigaretta da lui. «Te lo scordi. Rivuoi la tua Sarah oppure no? Cos’è più importante per te?»

«… vaffanculo» mugugnò Kevin indispettito. Distolse lo sguardo da lui, cosa che fece capire a Edward di aver colpito nel segno.

«Ti basta resistere tre giorni, poi è fatta» lo rassicurò, mentre spezzava la sigaretta a metà.

Il figlio di Efesto guardò la scena con aria quasi addolorata. «Sì, come no. Tre giorni più ventisette.»

«Su, su. Vedrai che ci riuscirai. Anche Sarah è partita?»

«Sì…»

«Allora hai un anno di tempo per dimostrarle che tieni davvero a lei. Mi sembra fattibile.»

«Se lo dici tu…»

Edward ridacchiò e anche Kevin abbozzò un altro sorriso. Per un momento, sembrarono due amici qualsiasi che cercavano di ridere sopra i loro problemi. Forse… forse erano partiti con il piede sbagliato. Erano molto più simili di quanto entrambi potessero immaginare.

Il suo sguardo scivolò lungo i banconi da lavoro del bunker e si posò sopra uno strano aggeggio fatto di tubi e cavi. Si alzò dalla sedia e si avvicinò. «Questo è l’affare con cui hai quasi incenerito Tommy?» domandò sbalordito, mentre osservava quella specie di esoscheletro rudimentale.

Sentì la sedia di Kevin spostarsi mentre lui si alzava. «Sì, perché? Vuoi farmi anche tu la morale sul fatto che il fuoco è pericoloso ed eccetera eccetera?»

Edward appoggiò la mano sull’invenzione di Kevin. «Che forza» mormorò.

«Oh.» La voce del figlio di Efesto sembrò sorpresa. «Ti piace?»

«Scherzi? È una cosa pazzesca! L’hai costruito tutto da solo?»

Kevin lo affiancò, impettito. «Naturalmente! Lo sai con chi stai parlando? Io sono Kevin fottuto Bolt.»

«Hai solo quest’affare? Oppure hai costruito altro?»

«Beh…» Kevin si grattò il mento. «Ci sono le mie mine alla polvere orticaria, le trappole elettriche, la mia giacca anti aggressione…»

«Giacca “anti aggressione”?»

«Può sparare scariche da 300 volt. L’ideale per stendere i mostri. E anche i malintenzionati. Devo migliorarla però, perché durante i test ha folgorato anche i manichini che la indossavano. Vuoi vederla?»

Edward sollevò le spalle. «Perché no?»

Nei minuti successivi, Kevin gli mostrò tutte le diavolerie che aveva progettato. Erano per lo più armi, come lance e spade caricate con elettricità, frecce esplosive, la suddetta “giaccia anti aggressione”, che si trattava di uno smoking malconcio con dei taser della polizia nascosti in delle tasche interne – Edward non volle sapere dove diamine li avesse presi – e per finire alcune armi da fuoco.

«Questo è un M1921 con caricatore di tipo C, da 100 colpi» spiegò Kevin, sollevando il mitra con il caricatore rotondo che già una volta Edward aveva visto. «Meglio conosciuto come Thompson, o “Mitra Tommy”.»

«Mitra Tommy?» domandò Edward. Gli sembrò di averlo già sentito da qualche parte. «Che… nome strano.»

«Questo invece…» Kevin sollevò un fucile di legno e ferro con il caricatore a leva. «… è un Winchester Model 1866, detto “Yellow Boy”. Calibro 50 Express.» Il ragazzo tirò la leva, producendo un rumore meccanico, poi lo sollevò e lo puntò verso un bersaglio immaginario. «Hai mai visto qualche film western?»

«Ehm… no.»

«Recupera allora. Non sai che ti perdi.»

«Può uccidere anche i mostri?» domandò Edward, quando Kevin posò il fucile sul banco da lavoro.

«Ovvio, l’ho riconvertito personalmente. Nell’armeria ci sono alcune armi da fuoco, ma non mi sono mai piaciute. Io sono più per i classici.» Kevin si accorse del suo sguardo e sorrise. «Ti interessa?»

Edward accarezzò il calcio del fucile, annuendo. «Si chiama come me.»

«Yellow Boy?»

«No, Model.»

«Beh amico, se lo vuoi è tutto tuo. Però forse faresti meglio a lasciarlo qui. Chirone e gli altri si innervosiscono quando vedono le mie armi. Dicono che sono “poco sicure”. Bah!»

Il figlio di Apollo allontanò la mano da Yellow Boy. «Che ingrati.»

«È quello che dico anch’io! Non capiscono il mio genio!»

Edward ridacchiò. Si guardò ancora una volta attorno, concentrandosi su tutti gli arnesi costruiti da Kevin, e poi osservò Kevin stesso mentre strofinava un panno sopra il Thompson per pulirlo. In un certo senso gli ricordò Stephanie, solo che al posto delle piante si prendeva cura di dispensatori di morte.

Diverse idee presero forma nella sua mente. «Sai amico… io riconosco il tuo genio, invece.»

Kevin si illuminò. «Davvero?»

«Ah-ah. Queste armi… tutta questa roba…» Edward accennò al bunker intero. «… ci tornerà utile. Ne sono sicuro.»

Il figlio di Efesto assottigliò le palpebre, come se pensasse a una presa in giro, tuttavia Edward era serissimo.

«Beh, amico…»

Kevin si accovacciò sotto a un banco da lavoro, per poi riemergere con tra le mani due lattine. Gliene passò una ed Edward la esaminò, accorgendosi dell’arpa color oro raffigurata sopraRimase senza parole: era una Guinness. Ed era anche ghiacciata, con gocce di condensa ancora sopra.

«E queste da dove saltano fuori?» domandò, rigirandosi quella lattina nera e fredda tra le mani come se fosse stata una reliquia preziosa, cosa peraltro vera, visto il divieto di alcolici nel campo.

«Ma lo sai con chi stai parlando? Io sono Kevin fottuto Bolt. Io posso tutto.»

«Sì, l’hai già detto.» Edward tirò la linguetta, producendo il classico suono dell’aria gasata che si liberava.

Anche Kevin tirò la linguetta, per poi alzare la lattina come se fosse stato un trofeo. «Propongo un brindisi. Alle… famiglie incasinate. E alle ragazze incazzate.»

«Ci sto.» Edward batté la lattina contro quella di Kevin e alcune gocce caddero a terra. «Alle famiglie, e alle ragazze.»

I due ragazzi si scambiarono un cenno d’intesa. Bevvero insieme, senza dire altro.

 

 

 

 

 

 

Salve gente. È passato un bel po’ dall’ultimo aggiornamento e di questo chiedo scusa, però finalmente ci siamo, e sono molto molto felice di comunicare che questo per il momento è tutto per quanto concerne questa storia. 

Il motivo per cui gli aggiornamenti sono stati così scostanti è perché all’inizio questa raccolta è nata come tappabuchi, nel senso che scrivere capitoli come i primi, brevi che però davano qualche excursus sui personaggi, era una cosa molto semplice e veloce, e il mio intento era quello di scriverli e pubblicarli mentre mi dedicavo a progetti più complessi, come L’Elisir di Lunga Vita e il Velo Invisibile. Quello che è successo però è che sono stato molto veloce a scrivere queste due storie e quindi il ruolo della raccolta è sempre valso meno, perché non c’era bisogno di un tappabuchi se i buchi erano già tappati, e alla fine ho finito col trascurare questa storia e a lasciarla un po’ a sé stessa. 

Un’altra cosa che è cambiata è che ho deciso di trasformare la raccolta in una sorta di prequel, abbiamo visto cose importanti, come il tradimento di Buck, e adesso il litigio tra Edward e Rosa, con lei che vuole diventare cacciatrice, e abbiamo scoperto cose che contribuiranno al futuro della serie, come Rosa che va a Bismark, e cose del genere. Insomma, alla fine lo scopo di questa storia si è un po’ trasformato e la mia attenzione verso di essa è un po’ calata, ma ora siamo finalmente giunti al termine e sono felice di essermi tolto questo peso, almeno per ora, poi mai dire mai, però per il momento questa è la fine non ufficiale. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, spero che vi siate divertiti fino a questo momento, spero che gli altri personaggi siano stati all’altezza delle aspettative o magari anche di più, insomma, spero di avervi intrattenuti. Ringrazio di cuore Farkas e Cabin per aver recensito gli ultimi capitoli e nulla, ci vediamo al prossimo aggiornamento, che spero sia abbastanza rapido perché il prossimo capitolo del Velo è quasi pronto. 

Alla prossima!

 

   
 
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