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Autore: EleAB98    02/04/2022    2 recensioni
Malcom Stone è un pretenzioso caporedattore, nonché affascinante quarantenne con una fissa smodata per le belle donne. Ma arriverà il giorno in cui tutto cambierà e l'incallito casanova sarà costretto a fare i conti con i propri demoni interiori, e non solo quelli... Riuscirà mai a guardare oltre l'orizzonte? Ma soprattutto, chi lo aiuterà nell'ardua impresa?
[...]
Gilberto Monti è un giornalista affermato. Oltre a ricoprire una posizione lavorativa più che soddisfacente, ha appena esaudito uno dei suoi più grandi sogni: sposare la donna che più ama. Ma è davvero tutto oro quello che luccica?
[...]
Alex Valenza, un reporter piuttosto famoso, è alle prese con una drammatica scoperta che lo porterà a chiudersi, a poco a poco, in se stesso. A nulla sembra valere il supporto della moglie. Riuscirà a ritrovare la serenità perduta?
*Opera Registrata su Patamù*
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo VI – Piccola Rapsodia dell'Ape: Beato (o dannato?) tra le donne?

 

Il silenzio assoluto mi avvolse tutt'intorno, proprio come la calda coperta che tenevo sulle gambe. A quanto pareva, stavo diventando uno di quei nonnetti di periferia che, a causa della veneranda età, cominciava a soffrire il freddo persino in piena estate. In verità, la giornata appena trascorsa non era stata particolarmente benevola con i concittadini di Los Angeles. Il clima, complice il crescente inquinamento degli ultimi anni, era letteralmente impazzito e, pur essendo a inizio luglio, venti forza dieci e potenti acquazzoni investivano spesso la città e i poveri malcapitati di turno che, non avendo un ombrello con sé, rientravano nelle loro case come pulcini bagnati. Ecco spiegato il perché della coperta. Ero stato preso in pieno anch'io da un temporale, che mi aveva annacquato persino le mutande. A nulla era valso indossare una tuta primaverile per cercare di calmare quei brividi che tuttora continuavano a non darmi tregua. All'improvviso, mi venne un sospetto. Nemmeno stamane, a ben pensarci, mi ero sentito in piena forma. Mi alzai stancamente dal divano, quindi entrai in bagno ed estrassi il termometro da uno dei cassetti. Tornai in soggiorno e, sollevando la felpa, misi quell'aggeggio sotto la mia ascella destra. «Sto diventando davvero un nonnetto», mormorai, inorridito. Come potevo aver preso la febbre il 3 di Luglio?

Sbuffai, contrariato e annoiato. Tutt'a un tratto, ripensai a una vecchia frase di mia nonna, che spesso mi aveva fatto sorridere: «La febbre è come l'amore: arriva sempre quando meno te l'aspetti». Io, con la tipica ingenuità che contraddistingue un bambino, le domandavo spesso: «E quindi è una cosa buona?» Lei, con fare divertito, mi sussurrava che, a ogni lineetta di febbre, diventavo sempre un pochino più alto, e quindi più grande. Più uomo, come amava sempre ripetermi. Mi accasciai di nuovo sul divano, lo sguardo rivolto allo schermo nero della tv al plasma che avevo di fronte. Fino a qualche minuto prima, stavo ascoltando Lord Is It Mine dei Supertramp e altri brani, poi il silenzio era calato prepotentemente su di me, lasciandomi in balia di un'orda di pensieri dalla consistenza pseudo-filosofica. E del freddo. Spostai uno dei cuscini ricamati e ripresi il cellulare, aprii l'mp3 e feci ripartire la canzone. In questo modo, avrei calcolato i cinque minuti necessari per testare se avessi o meno la febbre. Assorbii, parola per parola, ogni singola strofa di quel brano che tanto adoravo. When everything's dark and nothing seems right, there's nothing to win and there's no need to fight.* Ah, quanto aveva ragione Hodgson!

Quando il silenzio ritornò, estrassi il termometro e vi lessi la temperatura. Aggrottai le sopracciglia, perplesso: 35.5 °C. «Okay, sono davvero impazzito, non c'è che dire. Se non si tratta di febbre, di che razza—»

Un improvviso colpo di telefono mi fece sobbalzare. Mi voltai verso sinistra e sollevai la cornetta. Chi mai poteva rompermi le scatole alle dieci e mezzo di sera? «Pronto?»

Silenzio. «Pronto?» ritentai, con tono deciso. Aggrottai la fronte. Dall'altra parte dell'apparecchio, sembrava non esserci nessuno, eppure la linea non era ancora caduta. Magari era disturbata. «Insomma, si può sapere chi parla?» Dopo qualche secondo riattaccai, spazientito. Nemmeno il tempo di formulare un secondo pensiero, che il telefono trillò di nuovo. Sbuffai. «Sì?»

«Ciao, Malcom.» Rimasi paralizzato. Quella voce femminile mi fece sussultare. Nessuna esitazione, nessuno scherzo di pessimo gusto. Non questa volta, almeno. Qualcuno, o meglio, qualcuna, mi stava cercando. Ma chi poteva essere? La sua voce non mi sembrava familiare. Ma allora, se si trattava di una semplice sconosciuta, come faceva a sapere il mio nome? «Speravo di trovarti a casa, sai?» continuò lei, quella frase fu quasi un sussurro.

Deglutii, incapace di parlare. Non sarà che ha sbagliato numero? mi chiesi, spiazzato. Scartai quell'ipotesi. Io non credevo affatto alle coincidenze. «Mi scusi, ma lei... lei chi è?» Mi diedi un colpetto sulla fronte. Il Malcom spregiudicato di un tempo avrebbe sfoderato un tono pregno di sicurezza, se non addirittura saccenza. Avrebbe fatto le veci di Johnny Bravo e invitato quella donna a cena senza nemmeno pensarci. D'altronde, fino a qualche annetto fa mi bastava soltanto (o quasi) che la pollastra di turno respirasse, no?

«Forse, un bel giorno... lo scoprirai.»

Rimasi di sasso, la bocca spalancata. Quella donna... quella donna stava forse tentando un approccio con me?

«Sai, stamattina ti ho visto davanti all'edicola del centro e... ed eri bello come il sole.»

Avvampai a quelle parole. E un brivido caldo mi investì il basso ventre. Per la prima volta dopo tanto tempo, provai il tipico istinto ferino a cui avevo sempre sottostato ben volentieri e, sulle prime, non seppi spiegarmi il perché. Mi passai una mano sulla fronte. La sua voce era così particolare, così calda, così... così tremendamente sensuale, ammaliatrice e... Scossi la testa e mi diedi un pizzicotto sulla guancia. No, non stavo delirando. Ma dovevo seriamente darmi una calmata. Avevo quarantatré anni, non diciotto! «Mi scusi tanto, signorina, ma... lei è proprio sicura di non aver sbagliato numero?» Mi diedi dell'idiota. Come potevo aver detto a voce alta una simile cazzata? A una donna, poi! Mi sembravo un nerd, porca miseria. Per non dire un pensionato, che a poc'altro ignorava che esistesse ancora il genere femminile, oltre all'enigmistica o al bridge. Diamine, non era certo la prima volta che ricevevo delle avances!

Mi sistemai meglio sul divano e afferrai per bene la cornetta, l'altra mano a giocare con il termometro. Stavo cominciando a...

«Sbagliato numero? Ti assicuro di no. Tu sei Malcom Stone, talentuoso e stimato giornalista professionista al National De LaPresse

Lo aveva detto con così tanta naturalezza, che sembrava mi conoscesse da una vita. Si era informata bene, dovevo ammetterlo. Mi scappò un sorriso. «Decisamente no, allora. Non ha sbagliato numero.» Aprii la zip della tuta con una certa smania. Stava cominciando a fare un po' troppo caldo per i miei gusti. Sono da ricovero, mi dissi, abbandonando il termometro sul mobiletto che ospitava il telefono. Un istante prima morivo di freddo, mentre adesso... morivo di non-so-cosa.

«Non potevo sbagliare», ribadì lei. «Ma ti prego, diamoci del tu. Vuoi?»

Un'altra scarica di adrenalina. Bloccai il telefono tra la guancia e la spalla e mi sfilai del tutto la tuta. La gettai dietro al divano. Quella voce mi avrebbe fatto diventare matto. Non potevo definirla provocatoria, ma nemmeno comune. Aveva quel non so che di suadente, di dolce; ascoltarla mi faceva uno strano effetto. Mi trasmetteva tranquillità, ma anche qualcos'altro.

«Cosa sai di me, esattamente?» La domanda mi uscì di getto, non ebbi modo di riflettere, quasi non mi accorsi che ero anch'io passato al tu, come lei stessa desiderava. Volevo solo ascoltare quella voce.

«Quanto basta.»

«Ovvero?»

Per qualche secondo, calò il silenzio. «Sei un uomo di successo, Malcom. Un uomo devoto al suo lavoro e alla sua squadra di colleghi come pochi altri. Però sei anche molto solo. Perciò...» Tentennò un istante. «Da questa sera in poi, se tu lo vorrai, ci sarò io a tenerti compagnia.»

Con la tua voce? Avrei voluto chiederle, ma le parole mi morirono in gola. Ero sbigottito. Tutto quell'interesse mi destabilizzava. Che razza di risposta dovevo darle? «Posso... posso almeno sapere come ti chiami?» Alzai gli occhi al cielo, in bilico tra lo sconcerto, la curiosità e il disprezzo verso me stesso. Nemmeno uno scolaretto delle elementari si sarebbe comportato come il sottoscritto. O forse sì?

«Ti basti sapere che puoi confidarti con me per qualsiasi cosa. Io sarò pronta ad ascoltarti.»

Mi passai le mani tra i capelli. Non potevo crederci. Mi sembrava tutto così... surreale. E io mi sentivo piccolo piccolo. «D'accordo, ma... perché faresti questo per me?» Mi morsicai le labbra. Non era forse chiaro?

Dall'altra parte, mi sembrò di sentire una risata soffocata. Avevo fatto la figura dello sfigatello anche stavolta. A quarantatré anni.

«Il fatto che tu mi piaccia tanto, che ti ammiri e che tenga a te... può bastarti come risposta?»

Deglutii a fatica, le guance in fiamme. Se il mio intero corpo fosse andato a fuoco in quel momento, probabilmente non me ne sarei accorto. Dovevo smetterla di fare domande, dovevo tagliare corto. Però... Mi schiarii la voce. «Credo di sì», mormorai, la bocca asciutta. Dovevo farmi un bel bicchiere di gin tonic. Anzi, due.

«Mi fa piacere sentirlo. Ma adesso devo proprio andare. Buonanotte, Malcom. E scusa tanto se ti ho chiamato così tardi. Ma non ho saputo resistere...»

Mi passai una mano sul collo, imbarazzato e... altrettanto lusingato. Forse, persino emozionato. Scrollai la testa. Io, emozionato? «Buonanotte a te», soffiai, incapace di dire altro.

«A domani, Malcom.»

«A domani, donna misteriosa.» Con quella promessa nel cuore, mollai il telefono e riattaccai. Increspai la fronte. Donna misteriosa? L'avevo davvero chiamata in quel modo? Strabuzzai gli occhi, sempre più esterrefatto. Dovevo assolutamente farmi una bella dormita. Ma ci sarei riuscito?

 

*

 

Occhi spalancati, mente sovraffollata di pensieri. Come sospettavo, non mi appisolai nemmeno per un istante. Avevo continuato a rievocare quell'assurda telefonata, al dolce suono della voce che l'aveva accompagnata, alle parole che lei mi aveva riservato. Avevo cercato di spremere le meningi con la vana speranza di capire chi fosse rigirandomi più volte nel letto, di associarle un volto conosciuto, ma non riuscii a cavare un ragno dal buco. Qualcosa mi diceva che lei sapesse molte cose di me. E non mi riferivo di certo alla mia professione. Doveva esserci altro. Ma come scoprirlo? Agguantai la mia omelette al formaggio e le diedi un bel morso. I miei occhi verdi furono presto catturati dal gioco di luci che emanava lo schermo del mio laptop, posato sopra una pila di vecchi giornali. Fino a pochi minuti prima, avevo cercato di lavorare un po' a qualche progetto, ma avevo fallito miseramente. Così, prima di fare colazione, mi ero affacciato sul balcone per fumare una sigaretta e mi ero beato del calore del sole – questa volta, la giornata era splendida –, una maglietta bianca a mezze maniche e pantaloni lunghi di cotone a ricoprirmi. Esattamente: avevo dormito con i vestiti addosso. Diedi un ultimo morso all'omelette e mi stiracchiai. Il tavolino della cucina era pieno di briciole – frutto della colazione del giorno prima a base di biscotti al cioccolato e frutta secca – e avrei dovuto degnarmi di dargli una bella pulita. Ma la pigrizia aveva quasi sempre la meglio sulle faccende domestiche. Richiusi il laptop. Sarebbe stato meglio se...

Drin!

«E adesso chi è?» Imprecai a bassa voce. Prima la telefonata, adesso suonavano persino alla porta. A passo svelto, uscii dalla cucina e controllai attraverso lo spioncino. Occhi verdi, viso tondo, capelli dorati. Labbra serrate, trucco al naturale. Sguardo preoccupato.
Imprecai di nuovo. Benedetta era sulla mia porta. Boccheggiai più volte, e soltanto in quel momento lo ricordai. Non poteva essere! Come potevo essermi sbagliato? «Cazzo», mormorai, a bassa voce. Ma allora era venerdì, non sabato! Mi morsicai una mano, tentando di non dare di matto. Quella maledetta telefonata mi aveva fatto perdere il lume della ragione. Avevo trascorso un'ora e mezza buona a casa mia come un perfetto deficiente senza rendermi conto che non era iniziato il weekend. Non avevo avvertito neanche il caporedattore della mia assenza ingiustificata!
Mi guardai attorno, l'indecisione mescolata all'ansia. Dovevo inventarmi qualcosa, e alla svelta!
In fondo, rimanevo pur sempre Malcom Brian Stone, l'impiegato modello che non aveva mai – e sottolineo mai! – mancato di essere presente in redazione ogni santo giorno della sua vita da quando aveva vent'anni (tranne, chiaramente, il giorno stesso del suo matrimonio, la settimana di luna di miele e quella di fine luglio, dedicata alle vacanze estive). Malcom Brian Stone, l'uomo tutto d'un pezzo, l'uomo dedito al lavoro come se lo stesso fosse un sacramento; mai uno sgarro, mai un passo falso. Battei i pugni sulla coscia.
Non potevo certo fare una figuraccia perché avevo perso il cervello per quella donna senza volto! Men che meno davanti a Benedetta. Il mio sguardo cadde vicino al telefono fisso.

Tesi la mascella. Un altro suono. Lo stridulo suono del campanello mi ripugnava enormemente. E mi faceva saltare i nervi. Corsi verso il telefono – non mancando di rifilargli un'occhiataccia – e presi il termometro fra le mani. «Solo un momento!» esalai, l'agitazione a mille. Stavo per combinare una delle mie marachelle preferite, quelle che mi fruttavano spesso delle assenze a scuola. Tornai in cucina, quindi esaminai la tazza di caffè posata sul tavolino. Una bella tazza fumante, dall'aroma irresistibile.
Sospirai, incredulo per le mie stesse azioni – e non meno dispiaciuto di non poter gustare quella meraviglia. Immersi il termometro nella bevanda e aspettai qualche secondo, controllando ossessivamente la temperatura. «Perfetto», biascicai dopo un po', soddisfatto. Dopo aver raccattato la felpa della sera prima, la indossai e, tenendo il termometro tra le mani dopo averlo asciugato, mi finsi mezzo morto e, strascicando barcollante le ciabatte sul pavimento in cotto, andai ad aprire la porta.

Benedetta si scalmanò all'istante. «Malcom, finalmente! Come stai? Perché non hai risposto alle mie telefonate? Ero così in pensiero!»

Il suo atteggiamento mi intenerì a tal punto, che per un momento fui tentato di dirle tutta la verità. «Ciao, Benedetta. Scusami, mi dispiace davvero tanto, ma...» Le mostrai il termometro, un sorrisetto di circostanza. «Non mi sento molto bene e ho dormito fino a pochissimo tempo fa. Sai, a una certa età si cominciano a perdere colpi e... e ieri sera mi doleva talmente tanto la testa che... che non sono nemmeno riuscito a dare un colpo di telefono al mio capo. E nemmeno adesso va troppo bene.» Con fare teatrale, mi massaggiai la fronte.

Benedetta strabuzzò gli occhi, la ventiquattrore in pelle tra le mani. «Oh, mi dispiace molto! Ma ora come stai? Non potevi prendere un antidolorifico? Se ti gira la testa, è il caso che ti sieda immediatamente sul divano!»

Feci un gesto con la mano. «Sta' tranquilla, è tutto sotto controllo. O quasi. Dai, entra. Ma fa' attenzione, non vorrei contagiarti.» Certo che non me la cavo male come attore, constatai, stupito da me stesso. O magari, la notte insonne che avevo appena trascorso mi rendeva molto più credibile di quanto apparissi in realtà.

Lei mi guardò mestamente e avanzò di un passo. Chiuse la porta dietro di lei senza distogliere gli occhi dai miei. «Hai delle occhiaie da far paura. Ma com'è possibile che tu abbia la febbre a trentotto in piena estate? Hai preso un colpo di freddo o cose del genere?»

«È quello che mi sono chiesto anch'io, ma credo che la risposta si trovi – oltre che nei miei quarantatré anni – nell'acquazzone che mi ha investito nel pomeriggio di ieri. Sentivo già qualche brividino di prima mattina, ma evidentemente la situazione è peggiorata. E l'antidolorifico non ha funzionato.» Mi toccai le tempie, fingendo che pulsassero come un martello pneumatico. «Dio, questa forte emicrania non accenna proprio a passare...»

Lei mi prese per le spalle e mi trascinò verso il divano. Continuai a recitare la mia parte da nonnetto bisognoso di assistenza. «Dai, siediti qui.» Piombai sul divano senza farmi pregare, il mio finto sguardo da moribondo l'aveva tramortita. Nei suoi occhi, potevo vedere infinita compassione e altrettanto dispiacere. Senza contare che mi si era seduta vicino senza temere nulla. «Vuoi che ti faccia un caffè? Magari un tè?»

«Ma no, non ce n'è bisogno, te l'assicuro! Devo soltanto avvertire il mio capo che sono caduto in un sonno profondo a causa di questo mal di testa e della febbre. Per questo motivo non sono riuscito a chiamare prima, capisci?»

«Okay, però...» Mi scandagliò dall'alto in basso. «Sei sicuro che non ci sia altro? O che non ti serva altro?»

Negai con il capo e me lo toccai di nuovo, fingendo un dolore atroce. Il vecchio Malcom, forse, ne avrebbe approfittato e si sarebbe tenuto stretta quella ragazza nelle vesti di crocerossina, facendosi viziare come un bambino. Ma il mio obiettivo non era certo quello.
Presi il cellulare posato sul divano e, sbloccato lo schermo, mi accorsi del caos che vi regnava: Chiamata persa: Michelle Pantano. 3 Chiamate perse: Benedetta Carisi. Chiamata persa: Danielle Pick (commercialista). Chiamata persa: Mamma.

Solo la donna misteriosa, chiaramente, non figurava in quell'elenco.

Spalancai gli occhi, più sorpreso che mai. Ci mancava soltanto che mi chiamasse Jill Biden e potevo definirmi l'uomo più desiderato di tutta Los Angeles. Forse avrei potuto considerarmi l'Adriano Celentano della situazione in "Segni Particolari: bellissimo". A parte gli scherzi, non riuscivo proprio a capacitarmi di un simile sovraffollamento di telefonate. Cinque donne in una sola giornata, o quasi, avevano contattato il sottoscritto. E io non sapevo se definirmi beato o dannato. Una cosa, però, la sapevo: dovevo scoprire a tutti i costi l'identità della donna che, per la prima volta dopo più di vent'anni (e contro la mia volontà), mi aveva sottratto ai miei doveri professionali.

 

*Quando è tutto nero e nulla sembra andare bene, non c'è niente da vincere né da combattere. (Lord Is It Mine – Breakfast In America (1979))

 

N.d.A: Questo capitolo, anche se è già scritto in alto, è dedicato a Lita_85 per dei "segni particolari" in esso presenti (lei sa bene quali)! Anche stavolta, grazie di cuore per l'ispirazione che mi hai dato oggi e che continui sempre a darmi! ❤

   
 
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