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Autore: smarsties    09/04/2022    4 recensioni
[Modern!AU - Duncan/Courtney - accenni Scott/Courtney e Duncan/Gwen]
Ciò che accomuna Duncan e Courtney è che entrambi devono essere a Toronto entro sabato. Bloccati in aeroporto a Filadelfia, a tre giorni da quello che potenzialmente potrebbe essere il weekend più importante delle loro vite, si ritrovano a condividere un folle viaggio in auto verso la metropoli canadese.
Sarebbe un vero peccato se la situazione, già tragicomica di suo, si rivelasse l'occasione perfetta per far venire a galla dubbi e incertezze. Ancora più esilarante sarebbe se, nel mentre, cominciassero a provare qualcosa l'uno per l'altra.
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«Ma guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio piccolo!»
A tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le faceva prudere le mani.
«Di nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto più sarcasmo possibile, mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno stalker.»
«Non lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Scott | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Cinque







Nel sogno era vestita di bianco.

Non era l’abito che aveva scelto in origine. Era meno aderente e decisamente più pomposo, con le maniche a sbuffo e la gonna composta da diversi strati di tulle.

Non poteva specchiarsi, ma si sentiva stupenda – si sentiva una principessa. Se la sala fosse stata piena, gli occhi dei presenti sarebbero incollati su di lei.

A pensarci bene, era strano che i suoi cari non fossero lì a celebrare. Altrettanto insolita era la totale assenza di illuminazione sulla navata, tranne che per un cuneo di luce puntato sul fondo.

Al centro, Duncan indossava un semplice smoking nero, adornato da un giglio sull’occhiello. Teneva le braccia lungo i fianchi e il sorriso, il più bello e spontaneo tra quelli che le aveva rivolto, lo rendeva a dir poco splendido.

Era abbastanza certa che egli non fosse il suo sposo, ma non riusciva a rammentare chi altri avesse dovuto occupare quel posto. Vedere lui ad attenderla le sembrava così giusto.

Era pronta a giurargli amore eterno.

Si concesse un attimo per chiudere gli occhi e inspirare.

Quando li riaprì, Duncan era seduto al posto di guida. Le mani erano salde sul volante e gli occhi non si staccavano dal parabrezza. Non sorrideva.

Il ritorno alla realtà le portò via quel pizzico di buonumore che le era stato concesso durante la fase rem.

Nel sogno era tutto così giusto.









[ Venerdì 23 aprile – Niagara Falls, Ontario ]



Si bloccò col braccio a mezz’aria e le dita a pochi centimetri dal suo obiettivo. Lo ritrasse immediatamente, quasi imbarazzato. Quella che gli era appena saltata in mente era un’idiozia bella e buona.

In cima alla borsa, il cellulare di Courtney aveva preso a squillare e, senza che potesse frenarla, la curiosità di Duncan era caduta sul nome del contatto. Scott doveva essere uno dei pochi, se non l’unico, ad essere stato registrato in rubrica senza il cognome. Il suo nome non era seguito da nulla, nemmeno da un classico cuore rosso – non che la cosa lo sorprendesse.

Distolse lo sguardo. Davanti a sé, dieci birilli attendevano solo di essere abbattuti. L’allegra famigliola, che stava giocando nella pista alla sua destra, era talmente rumorosa da impedirgli quasi di riconoscere le note della canzone agli altoparlanti – Low di Lenny Kravitz, indovinò quando giunse il ritornello.

La scenata di gelosia che aveva origliato gli era rimasta impressa, per quanto esagerata e fuori luogo gli fosse sembrata. Nemmeno ventiquattro ore più avanti, era lui ad essere geloso di uno sconosciuto e quella sensazione gli provocava disagio.

Aveva urgenza di associare una voce alla persona di cui aveva sentito tanto parlare. Voleva un quadro più preciso di colui che aveva il privilegio di starle affianco nel bene e nel male, di conoscerla in ogni sua sfaccettatura, di accarezzarla, di baciarla, di farla gemere. Allora, forse, avrebbe potuto reprimere una volta per tutte i suoi sentimenti.

La suoneria si interruppe di colpo; lo schermo rimase acceso un paio di secondi, notificando la chiamata persa. Nel giro di mezzo minuto, ripartì a tutto volume e stavolta Duncan non seppe controllare l’impulso: premette il tasto verde ancor prima di valutare le conseguenze di quell’azione.

«Pronto?»

«Pronto?» domandò di rimando Scott, parecchio confuso. «Credo di aver sbagliato numero.»

Il tono della sua voce era profondo, vagamente gracchiante.

«Non hai sbagliato numero» gli assicurò. «Sono il ragazzo che sta viaggiando con Courtney. Lei è… in bagno. Si è sentita poco bene.»

«È qualcosa di grave? Posso parlarci?»

«No, niente di preoccupante! Deve essere stato qualcosa che ha mangiato. È solo che-»

Sforzò i neuroni per partorire in fretta una scusa plausibile.

«È ancora debole e molto scossa, non è nelle condizioni di rimettersi in viaggio ora – e siamo ancora abbastanza lontani da Toronto. Dubito che riusciremo a tornare prima di stanotte.»

Si sbatté una mano sulla fronte. Non solo era stato tremendamente vago, ma le informazioni sommarie circa il suo stato di salute avrebbero finito col farlo allarmare.

«In tal caso, sono felice che non sia da sola. Mi fa sentire più tranquillo.»

Gli si contorsero le viscere, in un moto improvviso di quelli che parevano dei sensi di colpa.

Non era quella la risposta che si aspettava.

«Devo scappare.»

Riattaccò e, accertatosi che Courtney non fosse nei paraggi, trascinò l’indice sul display. L’intento era cancellare ogni prova di quella telefonata; avrebbe dovuto immaginarsi, però, che il cellulare fosse protetto da una password numerica. Digitò una sequenza a caso, ma naturalmente non successe nulla.

Poté solo far scomparire le notifiche dalla home, prima di riporlo nella medesima posizione in cui l’aveva trovato, pregando affinché se ne accorgesse il più tardi possibile.

Aveva tradito la sua fiducia, di nuovo.

Inoltre, scambiare quattro chiacchiere con Scott non aveva cambiato un bel niente.

Così com’erano apparsi, i sensi di colpa si erano dileguati.

Era ancora cotto di lei. Era ancora geloso di lui.

Sbuffò, frustrato. Era proprio un imbecille.

Quando fu di ritorno, Duncan si premurò di farsi trovare in piedi, lontano dai suoi effetti personali.

«Se non ricordo male, eravamo rimasti che ti stavo stracciando» annunciò lei, le labbra stese in un ghigno compiaciuto. «E toccava a te tirare.»

«Non so te, ma io comincio ad annoiarmi» le disse, recuperando il giubbotto di pelle gettato alla rinfusa sullo schienale del divanetto. «Vogliamo andare a berci qualcosa?»

Aveva sfiorato il coma etilico giusto la scorsa notte, introdurre altro alcol nel suo organismo era tra le ultime posizioni nella lista di idee per trascorrere la serata. Si trattava, piuttosto, del tentativo disperato di distrarla e tenerla lontana dal telefono.

«Non puoi abbandonare ora che sto vincendo io

Protestare non servì a nulla, poiché le aveva già dato le spalle e si stava dirigendo verso la cassa. Fu obbligata a cedere: si lasciò sfuggire un grugnito e gli corse appresso.

Restituite le scarpe e pagata la quota, si ritrovarono per le viuzze piuttosto gremite di Niagara Falls. La sera era calata e, a giudicare dalle code fuori dai ristoranti, doveva essere l’ora di cena.

Duncan procedeva con passo spedito lungo il marciapiede, alla ricerca di un pub in cui potessero entrare senza aspettare più di un quarto d’ora al freddo. Poco più indietro, Courtney arrancava per stargli appresso, schivando gruppetti di ragazzi che venivano dalla direzione opposta.

«Dal momento che stavi brutalmente perdendo, mi aspetto come minimo che sia tu ad offrire!» gli urlò fra un respiro e l’altro.

Individuò dal lato opposto della strada ciò che stava cercando. Il bar per karaoke era incastrato fra due edifici più possenti e passava facilmente inosservato. Nei pressi dell’ingresso, tre uomini stavano fumando degli spinelli.

«Nessuno di noi due caccerà un centesimo» le assicurò. «Ma avrò bisogno del tuo anello.»

«Perché?»

L’espressione malefica parlò al suo posto. Aveva in mente qualcosa di parecchio stupido.

«Dimmi, principessa: quanto sono credibili le tue doti attoriali?»



* * *



Gliel’aveva spiegato per filo e per segno con aria fiera, e Courtney aveva trovato conferma alla sua sensazione: era davvero un piano scemo.

«Non funzionerà.»

«Funzionerà eccome! La gente va pazza per questi sentimentalismi patetici.»

Normalmente, non aveva alcun tipo di problema a stare al centro dell’attenzione, ma solo quando era una situazione di potere e non risultava vulnerabile agli occhi altrui. Non era quello il caso.

A renderla ancora più restia, ci pensava la prospettiva di Duncan inginocchiato davanti a lei, a proclamare una serie di frasi fatte stracolme di nauseabonda dolcezza, concludendo il tutto chiedendole la mano.

Poco importava che si trattasse di un’enorme pagliacciata con una finalità tutt’altro che nobile. Solo ad immaginarselo, il suo cuore mancava un battito.

«Quante volte hai usato questa tattica?»

«Solo una volta. A farmi da complice è stata mia cugina.»

Soffocò una risata.

«Comunque, ricorda che se ti commuovi sono drink extra.»

Si focalizzò su quell’ultimo consiglio – lei che non aveva mai pianto in pubblico, nemmeno ai matrimoni e ai funerali, e che ora stava prendendo in considerazione l’idea soltanto per sbronzarsi.

Duncan era dall’altro lato del locale. Era chinato verso il dj e gli stava bisbigliando qualcosa nell’orecchio. Ad un tratto, la cassa in quarti sfumò per lasciare spazio ad una traccia di pianoforte.

Lo vide farsi spazio fra la folla, stranita dal cambio improvviso di atmosfera, per raggiungerla ed afferrarle entrambe le mani, trascinandola a centro pista.

Come se fossero il fenomeno da baraccone di turno, le teste di tutti si girarono in loro direzione. Alcuni facevano congetture, molti altri dovevano avere già capito ed erano a dir poco elettrizzati.

Si fermarono. Lui le ammiccò e si chinò. Dovette distogliere un attimo lo sguardo, perché le boccate d’aria che aveva preso per tranquillizzarsi si erano rivelate inutili. Si sentiva avvampare.

Abbassò lentamente gli occhi scuri sull’anello di fidanzamento, stretto fra le sue dita, e si accorse che erano velati dalle lacrime.

Scott le aveva fatto la proposta durante le celebrazioni per la notte di mezza estate. I suoi genitori li avevano invitati in fattoria per la tradizionale grigliata e, mentre venivano sparati in cielo i fuochi d’artificio, lui aveva cacciato fuori una scatoletta blu e le aveva posto la fatidica domanda. Circondata dai suoi parenti, pronti a giudicarla e a lanciare sprezzanti sentenze, si era vista costretta ad accettare. Più tardi, chiusa nell’angusto bagno degli ospiti, aveva avuto un attacco di panico.

Stava rivivendo le stesse sensazioni di allora, nonostante fosse tutta un’enorme recita. Era circondata da gente che non la conosceva, che non avrebbe potuto dire nessuna cattiveria sul suo conto in caso di risposta negativa. Tra l’altro, non c’è ne sarebbe stata alcuna, perché il piano prevedeva che lei dicesse di sì – e non aveva il benché minimo senso, ma lei avrebbe davvero voluto dirgli di sì. Ciononostante, la sua mente aveva creato un’immediata analogia fra i due momenti, e adesso voleva solo pregarlo di rialzarsi e portarla via da lì.

Poi, Duncan cominciò il suo monologo.

«Le prime parole che mi hai rivolto erano rimproveri. Mi hai urlato contro per averti interrotta e ho subito pensato che fossi un palo in culo – avevo ragione, ma quello era solo uno dei tuoi tanti strati. Andando più a fondo, ho trovato una ragazza pungente, difficile da trattare, con un discutibile senso dell’umorismo, ma tremendamente intelligente e con un fascino innegabile. Era chiaro che non avessi alcuna possibilità.»

Si era interrotto solamente per prendere fiato. Si chiese quanto di quel discorso fosse improvvisato, se stesse rielaborando lo stesso copione utilizzato l’unica volta prima di questa – o, ancora, se ci fosse un fondo di verità. Era alquanto improbabile, ma la minima possibilità che si stesse dichiarando senza mezzi termini la riempiva di un’incontrollabile gioia. Nello stesso istante, l’ansia andò ad affievolirsi.

«Invece, mi hai dato la possibilità di scoprirti strato per strato. Mi sono ritrovato dinanzi all’unica persona con cui passerei nottate intere a scambiarci storie, personali o no che siano – e sai quanto io odi parlare di me. Dopo la serata in quel campeggio, sapevo di essere fottuto. Ci conoscevamo da un paio di giorno ed ero già innamorato di tutti gli strati che ti compongono – sì, anche quelli più insopportabili. I passi successivi sono venuti naturali e penso sia arrivata l’ora di compierne un altro.»

Le sue guance erano bagnate dalle lacrime. Stava piangendo perché, per quanto finta potesse essere la situazione, nessuno le aveva mai dedicato un discorso del genere, perché era più di una semplice cotta, perché non voleva sposare Scott. Stava piangendo perché era un’abnorme idiota e aveva sbagliato tutto.

Gli altri clienti la fissavano con la stessa tenerezza che avrebbero rivolto ad un cucciolo. Avrebbe voluto gridare fino a farli allontanare.

Strofinò le dita sulle palpebre inferiori, ripulendosi e cercando di darsi un contegno. Quando si rispecchiò in quelle due pozze azzurre, esse le rivolsero uno sguardo carico d’amore. Persa com’era, ci mise un attimo ad accorgersi che le aveva avvicinato l’anello, come tacito invito ad accettarlo.

«Allora?» le domandò in un soffio. «Vuoi sposarmi?»

Il nodo alla gola le impediva di esprimersi. Annuì vigorosamente, sfoggiando un sorriso smagliante.

Mezzo secondo dopo fu fra le sue braccia, mentre l’intera sala scoppiò in un’ovazione gioiosa. Si ancorò a lui con tutte le sue forze e, nella foga generale, osò stampargli un bacio sulla mandibola, proprio sotto l’orecchio.

Avrebbe davvero voluto dirgli di sì.

«I miei complimenti per il pianto disperato» si congratulò più tardi Duncan, davanti a due pinte di birra artigianale. «Mi hai fatto spaventare, credevo fosse reale.»

Perché lo era, avrebbe dovuto confidargli. Si limitò, invece, a piegare le labbra in un sorrisetto sarcastico.

«Merito della tua dichiarazione smielata. Mi ha aiutata ad entrare nel ruolo.»

Si inumidì le labbra con la punta della lingua. Poté giurare di averlo visto rabbuiarsi, ma forse era l’ennesimo tiro mancino del suo cervello esausto, perché l’istante dopo gli stava restituendo una smorfia gemella alla sua.

«Diciamo che siamo entrambi degli attori eccellenti.»

Un ragliato sferzò l’aria. Un tizio al karaoke stava devastando The Chain dei Fleetwood Mac.

«Direi di brindare alla scaltrezza e alla disonestà, che stasera ci permetteranno di ubriacarci a costo zero» propose lui, alzando il suo calice.

«Sono un avvocato, brindare alla disonestà andrebbe contro i miei principi.»

«Ma se mentite in tribunale per difendere i colpevoli!»

«Mentire in tribunale è reato. Quello che facciamo noi è usare le prove a nostro vantaggio.»

«D’accordo» si arrese. «Allora brindiamo a questa serata e al piacere dell’alcol gratis.»

I calici si scontrarono in un leggero tintinnio di vetri.

Bevvero un lungo sorso. Courtney pensò che non aveva mai assaggiato una birra così buona, ma forse erano l’atmosfera e la compagnia a fargliela apparire così deliziosa. A giudicare dalla velocità con cui la ingurgitò, Duncan doveva essere del suo stesso parere.

Un po’ di schiuma gli macchiava i baffetti. Le venne da ridere. Lui era confuso.

Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe voluto allungarsi, arpionargli il viso e far scontrare le loro labbra. Si ingiuriò: non poteva permettersi di cedere ai suoi istinti, né tanto meno immaginarseli.

Tacque nell’istante in cui si accorse che non erano soli. In piedi alle spalle di Duncan, una tizia sulla trentina, dagli occhioni blu e i capelli tinti di biondo, la fissava con la testa inclinata di lato. L’aveva già vista da qualche parte, si sforzò di ricordare dove.

«Sì, sei proprio tu!» squittì quella tutta soddisfatta.

Il ragazzo, colto di sorpresa, saltò in aria, facendo del suo meglio per trattenere una sonora bestemmia.

«Avevo qualche dubbio per via dei capelli più corti, ma ora che ti guardo da vicino non ne ho più. Eri la secchiona che interveniva sempre a lezione di diritto!»

Ricollegò immediatamente la sua voce trillante e acuta a quella del capo cheerleader del suo vecchio liceo. Era impossibile dimenticare gli stonati cori di incitamento per la squadra di football, talvolta gridati a pieni polmoni con un megafono.

«Lindsay Mills?»

«Mi hai riconosciuta anche tu! Le mie amiche,» segnò un punto indefinito con un gesto della mano, le cui unghie erano laccate di un rosso acceso, in pendant col tubino, «hanno cercato di convincermi a lasciar perdere, ‘ché probabilmente nemmeno avevi idea di chi fossi e vi avrei solo importunati, ma dovevo assolutamente accertarmi di aver ragione. È tipo la prima volta che la mia memoria da pesce rosso non mi inganna!»

C’erano ottime probabilità che non sapesse nemmeno il suo nome, ma Courtney decise di sorvolare su quel dettaglio, limitandosi a mantenere un’espressione cortese.

«Comunque, sono venuta a congratularmi per le nozze – e per il futuro sposo. Te lo sei scelto proprio figo! Guarda che pezzo di manzo!»

Gli tastò un bicipite senza pudore alcuno. Duncan, girato di tre quarti sulla sua sedia per avere una visuale migliore, non si premurò di nascondere quanto fosse lusingato e intrattenuto dalla situazione.

«Beh, nemmeno tu scherzi. Non credevo che la mia donna avesse conoscenze di cotanta bella presenza.»

Lei ridacchiò.

Courtney strinse i pugni. Avrebbe voluto strozzare entrambi.

«Grazie del pensiero, Lindsay.»

Nonostante avesse l’intelligenza di un palo della luce, colse dal tono fermo e vagamente inacidito l’invito a togliere il disturbo. Prima di dar loro le spalle, li lasciò con un ultimo commento: «Sono sorpresa. Pensavo che solo nelle serie tv la secchiona si innamorasse del cattivo ragazzo.»

Lo pensava pure lei, ma ultimamente il destino si stava divertendo a giocarle un tiro mancino dietro l’altro.

«Che tipetto delizioso!» esclamò Duncan, permettendosi di sbirciare un’ultima volta. Quando tornò finalmente a prestarle attenzione, lei lo guardava con le braccia conserte e gli occhi ridotti a due fessure.

«Hai finito di farle i raggi x?»

«Qual è il problema? Non mi pare che io e te stiamo insieme per davvero!»

Il calcio che gli tirò sotto il tavolo non fece sparire quel ghigno fastidioso.

Con la – dolorosa? – consapevolezza che ciò fosse la realtà dei fatti, si concesse un altro sorso. Nel frattempo, colse un microscopico dettaglio: si era riferita a lei chiamandola “la mia donna”.

La birra le andò di traverso.



* * *



Presto, un drink tirò l’altro – perché non approfittarne? Era tutto offerto!

Come se non bastasse, un camionista piuttosto corpulento sfidò Duncan a tracannare quanti più shottini di vodka in trenta secondi, e chi era lui per rinunciare ad un gioco alcolico – specie se c’era Courtney a fare il tifo per lui?

Entrambi potevano affermare con certezza, però, di non essere ubriachi. Forse erano un po’ brilli, di sicuro euforici, ma erano ancora in grado di intendere e di volere.

A dimostrazione della tesi, smisero di bere prima che potessero prenderci gusto e si tuffarono nella mischia, fra luci psichedeliche e sudore. Dalla postazione karaoke, una voce femminile intonava I Wanna Dance With Somebody di Whitney Houston; se la cantarono addosso, saltando e volteggiando, senza lasciarsi le mani nemmeno per un attimo. Sebbene non fossero più l’occhio del ciclone e non c’era alcun motivo per portare avanti la farsa, non si separarono nemmeno con le canzoni successive – perché avrebbero dovuto? Stavano così bene l’uno fra le braccia dell’altra!

E poi, si disse Courtney, non stava tradendo Scott. Non era scritto da nessuna parte che ballare con un altro, portargli le braccia attorno alle spalle, e guardargli con insistenza le labbra, equivalessero a tradire.

Non ne poterono più e, poco più tardi, erano in strada. Tirava vento, ma avevano talmente tanto alcol e adrenalina in corpo da non sentire freddo. Non avevano una meta precisa, si limitavano a correre e a gridare, come avrebbero potuto fare degli adolescenti qualunque – in effetti, erano spensierati come tali.

Si ritrovarono a seguire la folla in ingresso al casinò più importante della città. Non erano lì per scommettere, ma il tavolo della roulette attrasse la loro attenzione.

Vinsero la prima partita. Durante la seconda, Duncan strinse la presa attorno ai suoi fianchi – le aveva spiegato che era il suo portafortuna.

«Se esce otto, ti sposo stanotte» annunciò a lei e a tutti quelli che stavano giocando.

Tirò i dadi: uscì il sette. Seguì un boato generale.

Per fortuna avevano puntato poco.

«Sarà per la prossima volta.»



* * *



La lunga passeggiata affacciava sul fiume, donando alle orecchie il sottofondo musicale dell’incessante scorrere dell’acqua, ed era popolata da coppiette, che si godevano la quiete del luogo. Loro, fastidiosamente rumorosi e a tratti molesti, erano le pecore nere e, come tali, non ci misero molto a guadagnarsi gli sguardi sdegnosi di tutti. Non potevano proprio fare a meno di ironizzare su qualsiasi cosa, galeotto anche l’alcol che avevano ingerito.

Era evidente che la sfida personale di Duncan fosse farla ridere a più non posso, perché s’era innamorato del suo suono cristallino, e perché la trovava a dir poco adorabile quando lo faceva, con gli occhi semichiusi e il naso lentigginoso arricciato. Avrebbe voluto scattarle una foto.

In quei giorni gliene aveva fatte un paio, la maggior parte a tradimento, dapprima per il gusto perverso di innervosirla, e in seguito per catturare la sua bellezza nella spontaneità e conservarla non soltanto nella memoria.

Non voleva pensare al momento dei saluti, non quando Courtney era aggrappata al suo braccio e le battute che gli uscivano di bocca erano la causa della sua ilarità. Erano ancora nella loro bolla paradisiaca, dove scadenze e impegni non esistevano, e intendeva impiegare al meglio il poco tempo che restava.

«A che pensi?»

Le rivolse un’espressione interrogativa.

«Hai lo sguardo vacuo. A che pensi?» gli ripeté.

«Penso che questa serata sia memorabile.»

Ed è merito tuo, aggiunse nella sua testa. Erano entrambi troppo poco brilli per permettersi di farlo ad alta voce.

Lei sbatté le palpebre ed annuì, stringendo un po’ più forte la presa.

Più avanti lungo la via, si estendevano schiere di bancarelle in legno, che esponevano gadget di ogni tipo. Gli venne in mente di prendere una felpa in ricordo di quei tre giorni folli, o magari di comprarle un regalo. Fu la trovata successiva ad attizzarlo.

«Hai già “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo”?» le chiese a bruciapelo. «Per il matrimonio, intendo».

«Il mio abito da sposa è nuovo» rispose, non convinta di dove volesse andare a parare. «E indosserò un medaglione che abuela mi regalò per la quinceañera. Mi mancano qualcosa di blu e di prestato, magari chiederò a mamá o a Heather.»

«E se prendessi in prestito per te qualcosa di blu?»

Inarcò un sopracciglio.

«Si chiama rubare.»

«Solo se ti beccano.»

Passarono i primi stand. Duncan lanciava occhiate furtive, nell’intento di individuare il miglior luogo del delitto. Courtney gli camminava a fianco controvoglia, ma al contempo non abbastanza lucida per dibattere od opporsi.

«Va’ a parlare con quel venditore» le ordinò, indicando con un veloce gesto un anziano signore mezzo addormentato, seduto dietro il bancone alla loro sinistra. Non c’era alcun curioso a osservare gli oggetti esposti, il che poteva rivelarsi un enorme vantaggio.

«E poi?»

«E poi niente, devi solo intontirlo di chiacchiere. Io vedo di sgraffignare qualcosa.»

Non si mosse.

«Dai Court, andrà tutto bene! Fidati di me.»

Sottolineò per bene le ultime tre parole e queste la fecero capitolare.

«Se ti becca, io non ti conosco» sibilò a denti stretti, prima di incamminarsi in direzione della povera vittima.

Ancora una volta, Courtney si rivelò essere la complice perfetta. Lo bombardò di domande, alle quali egli faceva fatica a stare al passo, mischiando inglese e spagnolo per finire a confondergli le idee, e costringendolo a mantenere l’attenzione fissa su di lei.

Mentre si avvicinava furtivamente, si incantò ad ascoltarla. Aveva invidiabili proprietà di linguaggio e capacità di appigliarsi al più insignificante dei dettagli. Non potevano essere solo frutto di studio ed esperienza, c’era nata con quelle attitudini. Già dai suoi racconti non aveva dubbi che fosse eccellente nel suo lavoro, adesso ne aveva la conferma.

Si costrinse a concentrarsi. Da vicino, l’operazione non gli parve più così semplice. Tutta la roba più interessante era in bella vista e, per quanto il venditore ispirasse scarsa fiducia, dubitava che fosse talmente poco sveglio da non accorgersi di un furto compiuto proprio sotto al suo naso.

Sull’estremità più lontana erano affisse decine e decine di calamite, tutte di diverse forme, raffiguranti le cascate da ogni postazione possibile e immaginabile. Nessuno avrebbe mai notato che ne mancava una.

Indietreggiò di qualche passo, fin quasi a toccare con le spalle il pannello espositivo. Con una mano dietro la schiena, staccò una calamita quadrata e la fece scivolare nella tasca dei jeans. Non si curò di sceglierne una in particolare, tanto erano tutte blu.

Quando le camminò a fianco, richiamando la sua attenzione con un colpetto tra le scapole, Courtney stava decantando ad alta voce le differenze fra due t-shirt perfettamente identiche, sotto lo sguardo attonito dell’anziano oramai ammutolito. Chiuse la sceneggiata lanciandole in aria e borbottando qualche maledizione intanto che si allontanava; Duncan dovette trattenere le risa.

Accelerò il passo, e un metro più indietro la ragazza fece lo stesso, ma sempre in modo tale da non risultare sospetto. Si fermò in un punto poco illuminato – sotto un albero, lontano da indiscrezioni di qualsiasi tipo – e attese che fosse vicina per lanciarle il bottino, che lei afferrò al volo.

«E come dovrei indossarla una calamita?»

La smorfia divertita tradiva la serietà con cui aveva pronunciato la domanda.

«Non avevi fatto nessuna richiesta, quindi ho preso il primo oggetto blu che mi è capitato sotto tiro» si giustificò lui. «E poi, non deve per forza essere in bella vista. Puoi sempre incastrarla nella giarrettiera, o infilarla nel reggiseno!»

La reazione di Courtney fu spontanea. Rideva talmente forte da tenersi la pancia con le braccia, il che suscitò ilarità anche in lui.

Fu come avere di nuovo vent’anni. Fare il giro dei bar inventando stratagemmi creativi per pagare di meno, ballare e cantare ammassati in uno spazio di pochi metri quadrati, passeggiare in lungo e in largo per ore, scherzare di qualsiasi stronzata. Essere liberi di fare nuove esperienze.

In quel clima spensierato, Duncan si mosse in avanti e le prese il viso fra le mani, portandosela talmente vicino da far sfiorare le loro fronti.

Tacquero entrambi. Courtney lo fissava senza battere ciglio, gli occhioni neri che luccicavano. Anche da quella distanza faceva fatica a scovare le pupille, e di certo la penombra non aiutava. Al contrario, ebbe l’occasione di studiare meglio gli altri piccoli dettagli – il neo sotto l’occhio destro che si confondeva con le lentiggini color caffè, le lunghe ciglia, l’arco di Cupido ben pronunciato. Era irreale quanto fosse splendida.

Un altro passo e avrebbe potuto scoprire anche il suo sapore. Bastò il solo pensiero ad elettrizzarlo.

Piombò tutto d’un colpo nella realtà.

L’aveva portata lì con l’inganno per un suo capriccio. Aveva proposto attività su attività per appropriarsi in maniera illecita di altro tempo. Stava quasi per baciarla, pur sapendo che a casa l’aspettava il futuro marito – che, per quel poco che ci aveva parlato, sembrava pure una bellissima persona.

Si era invaghito di lei e, non solo non era in grado di sopprimere i sentimenti, ma si era pure concesso il lusso di provare gelosia.

La lasciò andare.

«Scusami.»

«Non fa niente.»

E lo intendeva sul serio. Questo lo sollevò.

«Vogliamo fare qualche foto prima di andare via?»



* * *



11:57 pm

Ehi Geoff, ricordi quando hai conosciuto Bridgette e mi hai raccontato che è stato amore a prima vista?

E io ti ho preso per il culo per settimane?



11:58 pm

Potrei aver trovato la mia Bridgette.

Però c’è un problema bello grosso.



00:01 am

Stai parlando della tua “conquista prossima al matrimonio”?



00:03 am

Sì.

Porca puttana.



* * *



11:57 pm

Heather, ho un’emergenza!

Provo dei sentimenti per una persona.

Sentimenti romantici.

E domenica mi sposo con Scott.



11:58 pm

Come posso farmeli passare in fretta?



11:59 pm

RISPONDI!

Per favore.



00:00 am

Heather, sul serio, ho bisogno di aiuto.

Non ignorarmi.

Sono disperata.



00:03 am

SMETTILA DI VISUALIZZARE SENZA RISPONDERE!



00:05 am

Ti odio.



* * *



«Non abbiamo bevuto abbastanza per stasera?»

«Una birra in più non ci ucciderà» affermò Duncan con una scrollata di spalle, di ritorno dal minimarket con due Heineken.

Forzò i tappi col coltellino svizzero che teneva in una tasca della giacca, e gliene allungò una.

«E ti avevo promesso che avremmo brindato a questo weekend importante per entrambi.»

Courtney corrugò la fronte, stupita dal fatto che se ne fosse ricordato.

Poggiati contro il cofano, consumarono in silenzio le birre, restando ad ascoltare il vociare lontano e la musica ovattata che sferzavano la notte. Nel frattempo, Duncan decise di accompagnare la bevanda ghiacciata ad una sigaretta, che si ritrovò a dover smezzare.

«Mi hai rotto le palle per tre giorni, mi hai ripetuto fino alla nausea quanto facesse male, e adesso vuoi fumare?»

«Io fumerò forse quattro volte l’anno, e solo quando sono particolarmente stressata, mentre la tua è una dipendenza. Ergo, passami quella cazzo di sigaretta!»

Non si dissero nient’altro finché la cartina non si fu consumata.

«Devo farti una domanda» affermò poi lei.

«Spara.»

«Perché continui a chiamarmi principessa?»

Mandò giù un sorso prima di risponderle.

«Perché sei sempre tesa, ligia alle regole e talvolta – forse inconsapevolmente – hai un atteggiamento di superiorità verso tutto e tutti. E poi perché sei raffinata ed elegante come tale. È un nomignolo che ti si addice alla perfezione, insomma.»

«Mio nonno mi chiamava così. Mi faceva sentire speciale» gli spiegò. «Purtroppo, ho pochi ricordi di lui. È morto che avevo otto anni.»

«Mi dispiace. Vuoi che smetta?»

Scosse il capo.

Presto non rimase granché da fare. Era pur sempre mezzanotte passata e si trovavano nel parcheggio deserto di un Depanneur. Non restava che spararsi gli ultimi centotrenta chilometri e concludere finalmente quel folle road trip.

«Non voglio andare a casa.»

La sua mano era già attorno alla maniglia dello sportello, quando Courtney lo colse in contropiede.

Era rimasta impassibile, ma la sua voce s’era tinta di malinconia, gemella di quella che aveva soppresso circa ventiquattr’ore prima. Stavolta, però, non si sarebbe accasciata su di lui, attendendo che quell’attimo di debolezza se ne andasse via da solo.

Stavano per sorpassare il confine immaginario che avevano tracciato di tacito accordo, e da lì non potevano tornare indietro, ma solo fare in modo di limitare i danni. Ne era consapevole Courtney, che si stava prendendo del tempo per valutare cosa dire e come dirlo, e ne era consapevole Duncan, che non intendeva metterle fretta.

«Non sono mai stata così presa», puntò lo sguardo verso l’asfalto per nascondere le lacrime, «ma credevo che sarei stata quantomeno serena, con lui. Poi, mi sono ritrovata coinvolta in tutto questo, e…»

Si asciugò le gote. Quando tornò a guardarlo, con le sopracciglia piegate verso il basso, non c’era più alcuna traccia di pianto.

«È colpa tua» lo accusò, marciando verso di lui per fronteggiarlo. «Non avevi alcun diritto di farmi capire che si può essere davvero felici, che di accontentarmi ed adattarmi non mi va più.»

All’improvviso, tutto acquisì un senso – i non detti, l’espressione turbata con cui aveva sottolineato che non tutti gli errori potevano essere coperti, la reazione spropositata al test di gravidanza. Al contempo, quel discorso lo mandò in confusione – era piuttosto certo che ci fosse un’altra chiave di lettura, ma non riusciva a coglierla.

«Casomai, è merito mio. Ti ho salvata da un eventuale matrimonio disastroso» ribatté, senza celare una certa confusione. «Non c’è di che.»

«Non capisci! Sposare Scott mi darebbe la stabilità che ho sempre cercato!»

Lo lasciò attonito.

«Non mi sono mai innamorata» confessò Courtney in un sussurro. «Ho avuto diversi ragazzi, più che altro per dimostrare che fossi in grado di stare in una relazione. Scott avrebbe dovuto essere uno dei tanti, ma è stato in grado di farmi sentire apprezzata come mai prima di allora, e ho pensato che non potesse capitarmi di meglio. In fondo, non sono altro che una stronza cinica dedita solo a me stessa e al mio lavoro. Mostrare affetto ad altri esseri umani non è nel mio DNA. Ma chissà, magari col tempo sarei stata in grado di restituirgli un decimo dell’amore che mi dà ogni giorno!»

Avrebbe voluto abbracciarla, dirle che nulla di ciò era vero – ma come avrebbe potuto, se pure lui percepiva di essere incapace di amare e di essere un buon amante?

Per anni aveva vagato di anima in anima, risucchiando quanto esse avessero da offrirgli, per poi abbandonarle quando si sentiva sazio a sufficienza. Perché poteva vivere in loop la fase iniziale di una nuova relazione, ma era altrettanto vero che non sapeva affrontare quanto proseguiva. Difatti, le rare volte in cui provava a portare il tutto ad un livello successivo, si procurava nuove ferite e bruciature.

I parassiti come lui non erano destinati ad un lieto fine.

«Non ho mai messo in conto il suo benessere, poco importava se fosse contento o meno: l’importante era che fossi apposto per una vita intera. Voglio lasciarlo non perché ho realizzato tutte queste cose, ma perché sono un’egoista. Ho cominciato a provare qualcosa per una persona conosciuta tre giorni fa e, al contempo, a credere che forse non sono allergica all’amore e merito di cogliere quest’occasione.»

Eccola lì, l’altra chiave di lettura.

Quella mossa scombinava le carte in tavola. L’unica ragione per cui Duncan aveva tenuto la bocca chiusa era l’anello sul suo anulare sinistro – perché era un’abnorme testa di cazzo, ma non fino a quel punto. Adesso che Courtney aveva fatto venire a galla l’intenzione di cancellare le nozze, e soprattutto aveva velatamente confessato un certo interesse nei suoi confronti, non c’era più nulla a bloccarlo – nemmeno la sua coscienza con la voce di Bridgette, che gli ricordava quanto poco fosse lucida, che era stato l’alcol a parlare e che probabilmente se ne sarebbe pentita l’indomani.

Meritava anche lui di cogliere quell’occasione.

Fece un passo in avanti, annullando quasi del tutto la distanza fra di loro. Non la toccò, voleva che fosse lei a prendere eventuali iniziative.

«Per quel che vale, non c’era nulla di finto nella mia dichiarazione. Dire che sono innamorato è prematuro, ma per il resto intendevo ogni singola lettera. Sono attratto da ogni tuo singolo strato.»

In un battibaleno, le labbra di Courtney furono sulle sue e la lingua spingeva con insistenza contro i suoi molari. Schiuse la bocca, permettendole di approfondire il bacio, e immediatamente fu scosso da una serie di scariche elettriche lungo la colonna vertebrale. Nonostante il disgustoso retrogusto di birra, baciarla era tutt’altro tipo di adrenalina. Faticava a ricordare una situazione in cui s’era sentito tanto euforico, con la testa leggera e il battito cardiaco a mille.

Sempre cingendogli le spalle con le braccia, Courtney lasciò scivolare le dita della mano destra sotto il colletto della giacca di pelle, massaggiandogli la nuca coi polpastrelli. Di tutta risposta, lui se la portò ancora più vicina, facendo aderire perfettamente i loro corpi, e inclinò il capo in avanti. Ciò gli permise di infilare la lingua più a fondo nella cavità orale, strappandole un sospiro mozzato. Bastò quello per mandarlo su di giri.

Senza staccarsi da lei, Duncan cercò con una mano la maniglia dello sportello posteriore. Lo aprì e la spinse senza troppe cerimonie sui sedili, liberandosi finalmente della giacca; lei lo emulò.

Si sistemò su di lei in modo tale da non schiacciarla, incuneando un ginocchio fra le sue gambe, e si tuffò nuovamente sulle sue labbra, prendendosi il tempo di assaporarla per bene. Le mani erano scivolate verso il lembo del suo maglioncino beige; lo alzò fino all’altezza del seno e, intanto che lui le lasciava una scia di baci umidi sulla pancia, Courtney colse l’invito a liberarsene.

Quando cominciò a leccare e succhiare la pelle del collo e del petto, lei non riuscì più a celare la crescente eccitazione, lasciandosi andare a sospiri e gemiti, e strusciandosi contro la sua gamba. Duncan era già consapevole che quell’immagine sarebbe tornato a trovarlo nelle notti in cui la solitudine si faceva sentire più forte. Sfortunatamente, fu anche l’attimo in cui realizzò quello che stava realmente succedendo.

Si fermò ad ammirarla. Era ancora più bella distesa sotto di lui, tutta spettinata e accaldata, con un’espressione trasognante in volto e le pupille ricolme di desiderio che lo supplicavano di andare avanti. Il problema era che teneva troppo a lei, tanto da non voler approfittare di un suo momento di debolezza per scoparsela in una macchina non sua, parcheggiata all’interno di uno squallido parcheggio, mentre erano entrambi sbronzi.

«Dobbiamo fermarci.»

«Non voglio» si lamentò lei, mettendosi a sedere e stampandogli un bacio, col tentativo di dissuaderlo.

«Nemmeno io» rispose, afferrandola per le braccia. «Ma non voglio nemmeno fare qualcosa di cui tu possa pentirti da sobria. Se domani avrai ancora voglia di stare con me, vienimi a cercare. Ok?»

Annuì, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime.

Le diede un veloce bacio sulla fronte e si allontanò, lasciando che si rivestisse.

Aveva fatto la cosa giusta. Eppure, quando la sentì tirare su col naso, il suo cuore si spezzò un po’.









[ Sabato 24 aprile – Toronto, Ontario ]



Avevano bevuto dell’acqua e preso un’aspirina. Miracolosamente, la sbornia si era attenuata in fretta, ma nessuno dei due fu in grado di riposare per tutti i centoventotto chilometri che separavano Niagara Falls da Toronto – chilometri che parvero il doppio, visto che, dopo quello che era accaduto, avevano ritenuto che fosse opportuno non parlarsi.

Courtney aveva guidato fino ad Oakville, superando i limiti di velocità dove era certa che non ci fossero autovelox. Prima il viaggio sarebbe finito, meglio sarebbe stato per entrambi.

Per gli ultimi quaranta chilometri, Duncan le diede il cambio.

Con la musica alla radio a fare da atmosfera, si mise a guardare le luci della notte scorrere rapide fuori dal finestrino, come chiazze chiare su una tela nera. Era l’unico modo per tenere a bada i pensieri.

Dire che era mortificata era usare un eufemismo. Non si pentiva delle sue azioni, ma allo stesso tempo si sentiva uno schifo per aver tradito Scott. Qualsiasi fossero i suoi sentimenti, lui non meritava un trattamento del genere.

L’indomani la spaventava da morire. Avrebbe dovuto lasciare il suo ragazzo libero di trovare qualcuna che lo amasse davvero, con la consapevolezza di star rinunciando alla possibilità di un’eterna stabilità emotiva. Non sapeva, però, se avrebbe trovato il coraggio di farlo.

Per quanto l’attrazione fosse reciproca, per quanto meritasse di stare bene, lei e Duncan erano agli antipodi e, una volta che se ne sarebbe accorto pure lui, non ci avrebbe pensato due volte a piantarla in asso. Nella realtà di tutti i giorni, dove non c’erano road trip su veicoli che sapevano di nuovo, non sarebbero durati più di due mesi – ma, Dio se sarebbero stati i due mesi più felici e spensierati della sua vita!

«Beh, direi che ci siamo.»

Erano le tre e cinquanta del mattino ed erano parcheggiati sotto il suo condominio. Erano giunti a destinazione e, ironia della sorte, in radio era appena partita Begin Again di Taylor Swift.

«Hai bisogno di una mano coi bagagli?»

Si girò verso di lui. Contornati da pesanti occhiaie nere, le iridi azzurre brillavano più del solito. Ci aveva familiarizzato abbastanza, eppure continuava a trovarle tremendamente magnetiche.

«No, faccio da sola.»

Lui annuì.

Rimasero immobili per un paio di secondi, prima di gettarsi l’uno fra le braccia dell’altra, come nella più scontata delle commedie romantiche.

«Grazie» mormorò Courtney, con la guancia appoggiata sulla sua spalla. «Sei stato davvero il miglior compagno di viaggio che potessi desiderare.»

«Non mi dire!» esclamò, sarcastico. «Mi hai finalmente rivalutato?»

Risero entrambi.

Fu lei a sciogliere l’abbraccio e, per l’ennesima volta dall’inizio della serata, dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non baciarlo sulle labbra. Col suo profumo ancora addosso, scese dalla macchina e la fiancheggiò fino al bagagliaio.

«Courtney?»

Duncan si era sporto dal finestrino e la fissava con un’intensità tale da farle tremare le ginocchia.

«Non sparire.»

Gli angoli della sua bocca si piegarono spontaneamente verso l’alto.

«Non ho nessuna intenzione di farlo.»

Non si girò a salutarlo un’ultima volta, ma attese che il rombare del motore fosse lontano, prima di girare la chiave nella toppa e varcare a grandi passi l’ingresso.

Nel pianerottolo si respirava un’atmosfera da film dell’orrore. Nel silenzio martellante, lo strisciare delle ruote del trolley sul pavimento suonava amplificato. Fu quasi un sollievo entrare in casa ed essere accolta dal russare di Scott.

Poggiò la borsa, si sfilò la giacca e fu colta dallo sconforto. Non sapeva che fare, si sentiva una straniera nel suo stesso appartamento. Non era lo stesso che aveva lasciato lunedì mattina.

Con la speranza che, con le prime luci dell’alba, si sarebbe sentita meno scombussolata, e sarebbe finalmente stata in grado di prendere una decisione, si trascinò fino al divano in soggiorno e si sdraiò con la testa contro il bracciolo. Non avrebbe potuto dormire nemmeno se avesse voluto, quindi sbloccò lo schermo del cellulare e aprì iMessage. La prima chat non era più quella con Heather, che non ancora si era degnata di risponderle, ma quella con Duncan.

Le aveva mandato ogni singolo ricordo di quel viaggio, dal primo selfie sfocato in autogrill, ai video girati in compagnia dello sgangherato terzetto conosciuto in campeggio, fino ad una serie di foto più o meno serie a Niagara Falls. Appena avrebbe avuto un attimo libero, avrebbe caricato tutto sul computer.

Intanto che gli inviava quel poco che aveva lei, gli tornò alla mente l’audio che non aveva mai ascoltato.

Risalì la chat fino a ritrovarlo. Data la quantità di alcol che aveva mandato giù, c’erano ottime probabilità che fosse composto da parole strascicate e blateramenti vari, ma voleva ascoltarlo lo stesso per chiudere il cerchio.

Respirò a fondo. Poi, schiacciò il tasto play e portò il ricevitore all’orecchio.


«Court, ho bisogno di aiuto. Ti manderei la posizione, ma la batteria del telefono sta per morire. Credo di essere a Marathon, ci sono un sacco di case bianche e la luce del lampione qui di fronte sta per fulminarsi. È tutto quello che posso dirti, sono troppo ubriaco per darti informazioni più precise. Sì, mi trovo in questa situazione di merda perché pensavo che, bevendo, avrei smesso di dare corda alle paranoie che ho in testa da due settimane. Faccio sempre così. Piuttosto che aprirmi ed esprimere in maniera onesta i miei sentimenti, mi autodistruggo. E adesso ho solo voglia di vomitare. Semmai ascolterai questo audio, puoi venire a prendermi? Sono buttato proprio affianco ad un cassonetto. E, siccome ho la sensazione che non riuscirò a dirtelo di persona, voglio che tu sappia che mi piaci tantissimo, che stasera avrei voluto baciarti più e più volte, e che avrei voluto conoscerti in altre circostanze. In questo periodo ho la testa che è un casino, ma avrei cercato di rimettere in ordine solo per provare a stare con te. Ma non importa, perché tu stai per sposarti. E forse è giusto così. Ti avrei comunque cacciata in un mare di guai.»












Angolo dell’autrice

Beh, è successa un bel po’ di roba. A mia discolpa, vi avevo detto di aspettarvi di tutto.

Sono sorpresa anch’io di quello che è uscito fuori – devo ancora capire se in positivo o in negativo. La scaletta ce l’avevo già abbozzata, ma ad un certo punto il delirio ha avuto la meglio. Per dirne una, la scena lime non era premeditata. Doveva essere molto più soft, sono io che mi sono lasciata prendere la mano. Ma immagino che vi avrà fatto piacere, quindi passiamo oltre.

Come avevo promesso, il famoso audio è finalmente stato “ascoltato” – spero di non aver deluso le aspettative di chi lo attendeva. E spero che siate riusciti a raccapezzarvi in questo flusso di scene caotiche e ragionamenti sconnessi che conta circa settemila parole. Di nuovo, mi sono lasciata prendere la mano.

La piccola digressione sul casinò e la battuta di Duncan sono un omaggio al finale della quinta stagione di Friends – se capite a quale scena, possiamo essere amici.

Altro piccolo dettaglio: “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo” sono i primi versi di una filastrocca inglese. Secondo la tradizione, nel giorno del proprio matrimonio, è buon auspicio che le spose indossino qualcosa di vecchio, di nuovo, di prestato e di blu – e anche una monetina d’argento in una scarpa, ma ho glissato su quest’ultimo dettaglio.

Il prossimo capitolo, ahimè, è l’ultimo e compariranno quei personaggi che sono stati più o meno presenti per tutto il racconto, ma – quasi – mai di persona. Altrimenti, che razza di gran finale sarebbe?

Per i saluti e i ringraziamenti se ne parla fra un po’. Adesso posso solo augurarmi che abbiate gradito e invitarvi a lasciare feedback di qualsiasi tipo, dalla recensione ad una semplice lettura silenziosa.

Ci vediamo con l’epilogo! xx

  
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