Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Exentia_dream2    10/04/2022    0 recensioni
In un universo in cui chi perde la propria anima gemella non vede più i colori, Mikasa decide di chiudersi in se stessa e tagliare i ponti con gli ex compagni della Squadra di Ricognizione. Un ritorno annunciato, però, cambierà il corso della sua vita.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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È difficile dimenticare qualcuno che ti ha dato così tanto da ricordare.

 

I.



 

È lei che non ha più cognizione del tempo — non sa quand'è che il sole tramonta e lascia spazio alla sera — perché, dei colori che prima l'avvolgevano, Mikasa non ne ha più memoria.

La sciarpa che tiene stretta al collo — e l'uccello che becca ogni mattina contro il vetro della finestra — è l'unico oggetto che ancora non ha assunto le tonalità grigiastre di cui il mondo si è vestito: ha una teoria tutta sua, pensa che la vita abbia smesso di essere colorata a causa dell'estinzione dei giganti e, questa volta, la mente degli Ackerman non ha saputo resistere al potere dei titani. Allora perché, si chiede, riesco ancora a vedere il rosso di questa stoffa?

Trascorre giorni interi a strofinarsi gli occhi, a cercare un modo per tornare a vedere i colori, ma è tutto grigio grigio grigio: sono ore infinite, quelle in cui tiene le palpebre calate e si chiude in casa, lascia fuori cielo e terra, perché a cosa serve guardare tutto e non vederlo davvero? L'emicrania ha continuato a tormentarla da quando Eren si è sacrificato — ancora di più — senza remore e batte contro le pareti del cervello come l'uccello che ha ancora i suoi colori batte contro la finestra. Lo so che sei tu, ma ti prego, dammi tregua, lasciami sola per un po'.

Quella mattina, però, i colpi che sente sono dita che bussano alla sua porta.

"C'è una lettera per te" ha detto l'uomo che si è accollato il compito di smistare la posta cha arriva da Marley: ci sono soldati — padri, figli, fratelli — che hanno lasciato l'isola di Paradis per trasferirsi oltre oceano e portare pace tra due terre che si sono conosciute nei secoli precedenti e poi si sono dimenticate.

Mikasa stringe forte la lettera tra le mani, la ceralacca che la chiude non ha colori, ma pensa che almeno foglio e inchiostro siano del colore giusto (bianco e nero, come.ogni cosa su cui posa lo sguardo) e non ha il coraggio di aprirla. Manca poco al quarto anniversario della morte di Eren e sa che, vergate, troverà le parole di conforto di Armin: chiudi con il passato, Mikasa, dai a te stessa la possibilità di essere felice, ti prego. Torneremo presto, te lo prometto, ma tu, per favore, sorridi.

La bocca le si distorce appena e si domanda come sia possibile sorridere se le sue labbra sono sempre state ferme in una linea dritta che trema quando non è più capace di ingoiare le lacrime.

Se avesse avuto la forza di contarle, probabilmente, si sarebbe resa conto di quante fossero poche le volte in cui aveva sorriso. Tre, forse quattro, non di più. 

Mikasa ha smesso di farlo quando la più grande bugia di Eren le si è conficcata nello sterno — ti ho sempre odiata — e l'ha messa di fronte a una verità con cui non hai mai voluto fare i conti: essere schiava degli intrecci del proprio DNA, avere come missione di vita quella di salvare l'unica persona che abbia mai amato (quella che poi ha ucciso, quella che, sul finire, l'ha uccisa).

E ora, che non ha più nessuno da proteggere, Mikasa china il capo e prega un Dio che ha conosciuto da poco, genuflessa di fronte a una tomba di marmo, e si stringe al collo la sciarpa che le ricorda che Eren è vissuto, che l'amore che lei ancora prova non è indirizzato a una furia che ha massacrato donne e bambini. Non solo, almeno.

Quando smette di pregare, incrocia le gambe e poggia la schiena contro il tronco dell'albero che fa ombra alla lapide: ha ancora la lettera di Armin tra le mani e, quando stacca il sigillo, l'uccello che ogni mattina bussa alla finestra le si poggia su una spalla. "Sei curioso?" gli chiede e in risposta riceve una leggera apertura di ali.

Posa gli occhi sulla scrittura ordinata di quello che è diventato il cuscino pronto ad attutire le sue cadute, anche se lei non gli ha mai dato modo di curarla: ha pianto da sola, sofferto nello stesso modo, passando ore a ripulire dal sudiciume una casa diroccata in cui s'è stanziata da quasi quattro anni.

"È l'unico modo che ho per vegliare ancora su di lui" ha confessato ad Armin quando le ha chiesto di seguirlo a Marley. "Non posso andare via."

È ancora ferma sulla prima riga quando l'uccello le becca il lobo dell'orecchio sinistro e la sprona a leggere.

 

Ciao Mikasa, 

vorrei chiederti come stai, ma so che la mia domanda non avrà risposta, come tutte le lettere che ti ho spedito in questi anni.

La missione di pace prosegue e al momento abbiamo stretto patti di alleanza con i paesi che confinano con Marley.

Questo mese torneremo a Paradis per proporre al popolo di Historia la tregua in cambio della verità. 

Non dovrai accollarti la responsabilità delle tue azioni: siamo stati una squadra, lo siamo ancora e sei la mia migliore amica.

Non permetterò agli Jeageristi di farti del male, quindi, ti prego, non cercare di proteggere nessuno: adesso tocca a te essere protetta dalle ali del Corpo di Ricerca.

A presto, amica mia.

 

Sono trascorsi sei giorni da quando Mikasa ha staccato la ceralacca dalla busta che conteneva la lettera, ha tirato le tende e s'è seduta al centro della cucina con le mani poggiate sul tavolo: non è pronta a vederli, a riesumare un passato in cui scava ancora con le unghie senza preoccuparsi di sbeccarle; non è pronta a dire loro la bugia che vogliono sentirsi dire: il dolore è passato, ora sto bene.

Ha la sciarpa stretta attorno al collo che le fa mancare l'aria, ma non la toglie mai e come potrebbe se questo è l'unico modo per sentire ancora le mani di Eren che l'accarezzano?

Lo fa di rimando, passa le dita lungo le trame della stoffa e se l'unico colore che vede è il rosso, allora, è il rosso del sangue che lui le ha versato prima di morire addosso e sulle labbra quando ha baciato una bocca senza più respiri. È per questo, si dice, che tutti gli altri colori sono svaniti: una punizione, una condanna, un monito per ricordare ciò che sono stata capace di fare (ferire, uccidere).

Eren adesso è un rivolo di sangue che le scorre implacabile tra la linea della vita e quella dell'amore che le segmentano la mano, Mikasa si chiede perché, invece di scegliere la salvezza del genere umano non abbia preferito salvare se stessa e quel cuore che adesso è ammasso di detriti che faticano a stare fermi, che franano, a una velocità che lei non riesce a concepire, in uno stomaco maciullato dai sensi di colpa che fanno di lei soltanto un insieme di muscoli e nervi sorretti da uno scheletro vuoto.

La luce che stenta a filtrare dalle tende tirate si spegne fiocamente con l'avanzare della sera e Mikasa socchiude gli occhi, in segno di preghiera al buio, perché adesso finalmente il mondo si spegne e, insieme a lui, i colori che lei non riesce più a vedere.

Il bianco e nero, lei, l'ha conosciuto quando sua madre ha smesso di raccontarle della stagione dei ciliegi e ha aperto le labbra solo per esalare l'ultimo saluto al sapore di addio e di morte, ed è tornato il verde quando ha incontrato gli occhi di chi è diventato assassino a nove anni per saperla viva e vegeta e l'ha accolta come un dono del cielo e le ha riservato i sorrisi più gentili — sbrighiamoci a tornare a casa, la nostra casa, le aveva detto, promettendole riparo dal freddo e dalla crudeltà del mondo esterno — e se ci pensa adesso, si domanda come abbia fatto a credere a quelle parole se Eren stesso è stato causa di una crudeltà inenarrabile che lo ha portato a morire pur di redimere i peccati commessi e quelli ereditati. Scuote la testa e stringe le mani, macchiandosi con il sangue della ferita che si è autoinflitta poco prima: é stata un'assenza breve di colori, quella che l'ha vista bambina orfana un'ora prima e parte di una famiglia l'attimo successivo a quel sì che ha emesso a stento in una nuvola di fumo e freddo, ma ora… ora la brevità del tempo è un concetto che le sembra estraneo e le fa scuotere le membra d'impazienza, spingendola a guardare l'orologio a pendolo che tiene sulla parete di fronte alla cucina, con le lancette che si sono spostate appena e rendendole inconcepibile l'idea che un solo istante, a volte, duri più di un giorno intero quando non si hanno risposte esaustive.

Quando bussano alla porta, Mikasa spalanca gli occhi e s'ingabbia il respiro nei polmoni: nemmeno un fruscio, nemmeno un alito a tradire la sua presenza in quelle quattro mura diroccate che lei chiama casa. La voce di Armin la chiama e lei tace ogni risposta, ferma le frasi sulla punta della lingua e le mastica come tozzi di pane secco: le sbriciola, le trattiene sul palato, ma non dice una parola che sia una.

Il ticchettio contro il legno tiene una compagnia lugubre per un tempo che non sa definire, ma quando cessa, il silenzio le crolla addosso come valanga di neve e le indolenzisce i sensi: da quant'è che non sentiva qualcuno pronunciare il suo nome? Da quanto l'unico rumore che si concedeva di ascoltare era il beccare di quell'uccello che ogni mattina picchietta contro la finestra?

Non lo sa, Mikasa, e non ha cuore per porsi una domanda a cui non sa rispondere. Ha una lista infinita di interrogativi che giacciono sullo sterno e pesano pesano pesano, le schiacciano il petto e la riducono in affanno. 

Si alza, a un certo punto, e si avvicina alla porta poggiando l'orecchio sulla superficie, forse con la speranza che lì fuori ci sia ancora qualcuno per lei o con il desiderio di scoprire di essere rimasta sola. Di nuovo.

Il fruscio degli alberi spogli carezzati dal vento, gli animali notturni che riprendono da dove avevano lasciato la notte precedente, il frinire delle cicale e, abbastanza vicino da coprire tutto il resto, l'eco lontana della mancanza, ma della presenza di Armin non resta che il silenzio di chi si è arreso: Mikasa non ha aperto, non si è affacciata sull'uscio a salutare e, di fronte a una guerra che consuma chi per primo l'ha indotta, non si può far altro che alzare mani e bandiera bianca e mettersi in salvo.

Vorrebbe urlare, chiedere aiuto — prendetevi il mio dolore, vi prego, o fatemelo sopportare da morta — ma resta in silenzio e scivola sul pavimento freddo.

È stata un'arma, nei ranghi del Corpo di Ricerca, letale e precisa e ha sulla coscienza le anime di esseri umani intrappolati nel corpo dei giganti, e guaritrice di corpi e psiche, all'occorrenza, sciorinando parole di conforto di fronte alle perdite subite dai propri compagni, ma per se stessa, Mikasa, ha tenuto solo l'abilità di ferire: guarda le sue ferite mentre s'imputridiscono e non le pulisce mai, come se trovasse un pretesto per avvicinarsi alla morte patendo le pene atroci di un'infezione mai curata, come se non fosse degna di poggiare i piedi sul terreno che le impedisce di sprofondare negli inferi, e solo il pensiero di superare il proprio lutto assorbe le poche forze che le restano e allora lo mette da parte, lo chiude in angolo di cuore insieme all'ennesima domanda senza risposta che le rimbomba nella cassa toracica al ritmo stanco del cuore: come si fa ad andare avanti quando si è vittima e carnefice del proprio dolore?

 

 

I giorni e le notti successive, Mikasa non ha voglia di vedere la porta vibrare sotto i pugni di chi reclama la sua presenza, quindi, con quello che le resta dell'attrezzatura della manovra tridimensionale, si stabilisce su un ramo dell'albero che fa ombra alla tomba di Eren e aspetta con pazienza che il sole tramonti per sentirsi libera di muoversi senza il rischio di incontrare i compagni con cui ha combattuto: li vede uno a uno fare la spola dall'interno delle mura a casa sua e andare via sconsolati, le spalle curve e l'espressione rassegnata. L'unico che insiste e si siede accanto allo stipite consumato è Reiner, che del Gigante Corazzato, adesso è soltanto un flebile riverbero: è dimagrito, senza perdere il tono muscolare, e la leggera barba che gli contorna le mascelle gli conferisce un'aria di maturità che sicuramente ritroverebbe anche nell'animo, se soltanto gli parlasse, ma non ce la fa, non ci riesce e, allora, porta le ginocchia al petto e s'abbraccia da sola in cerca di un calore che non la scalda da tempo immemore o dal lasso di istanti che passa senza che si ferisca — come quando il coltello le scivola dalle mani e lei lo afferra per la lama, come quando si scortica le ginocchia strusciando accanto al chiodo arrugginito che tiene insieme una cassapanca vecchia centinaia di anni, come quando si china a baciare il marmo sotto cui giace Eren e si punge con le spine della rosa che lascia sul terreno.

Quando anche Reiner va via, Mikasa si sofferma a guardare con quanto orgoglio lui attraversi lo spazio che lo separa dalle mura, scivola con lo sguardo lungo la linea dritta della schiena, mai curva sotto il peso della delusione, mai tesa per una rabbia che lui ha imparato a controllare da quand'era ancora un ragazzino e che lei fatica a contenere ora che tutti la definiscono una donna.

La donna che vive oltre le mura, la donna che ha ucciso il ragazzo che ancora la fa piangere, la nemica del Wall Sina, è così che la chiamano gli abitanti di Trost, senza avere alcuna percezione del dolore che la frantuma a ogni nuovo giorno vissuto, quando le uniche sfumature che vede sono quelle del bianco e del nero che le riempiono gli occhi e le ore, violate soltanto dai fili rossi di una sciarpa che è anestetico e dolore insieme, violenta macchia di colore che Mikasa assoccia perennemente al sangue con cui si è sporcata le mani — mai all'amore, mai al proprio cuore che non smette di battere nonostante il fatto che di vivo in lei ci sia poco e niente.

Soltanto quando l'immagine di Reiner diventa un punto sbiadito oltre la breccia che fa da porta ai villaggi che custodisce, e quando il sole è talmente basso da confondersi con l'orizzonte, Mikasa si permette di scendere dal ramo su cui si è nascosta, inginocchiarsi sulla tomba senza nome e baciare il terreno sotto cui Eren dorme il sonno eterno del vinto e del vincitore.

"Sapevo che ti avrei trovata qui, Mikasa" le sussurra una voce che è diventata profonda e decisa, niente a che vedere con il tono tremulo che lei ricorda, eppure l'unica emozione che le esplode dentro è la rabbia, ingenua che non è stata altro a osservare soltanto casa sua e non i dintorni immensi che si estendevano ai suoi piedi.

"È la prima volta che torno qui, lo sai?" le chiede e, quando Mikasa non risponde, Jean si siede di fronte a lei, le spalle rivolte alla lapide e gli occhi fissi in quelli immobili di lei.

Della bocca, lui riesce a scorgere solo il tremore leggero, poi la studia mentre si strofina l'indice sotto al naso e le sorride, in quel modo tutto suo di rendere omaggio a una delle innumerevoli possibilità di sopravvivenza che gli è stata concessa: è sempre stato fortunato, pensa, ad avere la velocità di difesa e di attacco di chi non è ancora pronto a porre fine ai propri giorni e ha pianto perdite che credeva insuperabili, eppure, proprio in memoria di queste, s'è fatto forza e ha ricominciato a respirare a pieni polmoni, a realizzare sogni sigillati in un cassetto insieme alla speranza di superare la soglia dei vent'anni. 

Mikasa solleva le sopracciglia in un gesto muto che gli chiede senza parole cosa ci sia da ridere se sotto la terra su cui sono seduti c'è un cadavere che non meritava di essere sepolto.

"Sei nervosa?" domanda ancora, ma lei continua il suo silenzio e lo prolunga in parole che franano nello stomaco e non acquistano mai suono. "Marco lo faceva sempre, quando era nervoso. Non sei l'unica, Mikasa, a soffrire la morte di una persona a cui ha voluto bene: anch'io ho perso un fratello e mi manca così tanto. Ci sono momenti in cui mi dimentico che lui non è con me e mi volto a cercarlo e un attimo dopo mi sento vuoto come quando ho trovato il suo corpo maciullato, ma provo a vivere anche per lui. E dovresti farlo anche tu."

Quando lei chiude gli occhi dietro alle pelle sottile delle palpebre come fossero un segreto, Jean si accolla un dolore che li accomuna più di quanto lo abbiano mai fatto le urla udite in battaglia e la conta dei morti che hanno fatto al rientro da ogni missione; si avvicina a lei con una lentezza che gli sfianca i muscoli e le accarezza i capelli, avvolgendosi le ciocche attorno alle dita fino a quando non avverte il prurito tipico del sangue che circola a fatica, poi libera le falangi dalla stretta e a palmo aperto continua il leggero tocco che termina a metà della colonna vertebrale della compagna, imprimendo una leggera pressione laddove le punte scure creano ombre sulla stoffa della maglietta, penetrando in un'anima che della salvezza non ricorda nemmeno più il retrogusto amaro — logorata da un senso di colpa che la affonda come è affondata la nave arrivata da Marley e che ora è un relitto in fondo al mare che gli abitanti di Paradis non sapevano di avere, tagliata in brandelli piccolissimi da una disperazione che non fa altro che aumentare e aumentare, fino a schiacciarla e a ridurla poltiglia, così piena dei ricordi che ha del proprio passato da essere sul punto di esplodere senza possibilità di tornare integra. Lo capisce da solo, tuttavia, è lei stessa a dare conferma a tutte le ipotesi che gli hanno affollato la mente quando dice con voce spettrale e spenta: "Non sei tu il colpevole della morte di Marco. Io sì, invece: io ho ucciso Eren."



 

Angolo Autrice:

 

Questa storia nasce grazie alle iniziative “30 (+1) Days OTP Challenge” indetta da Mako Efp sulla sua pagina Facebook.

 

Prompt scelto: 

01) primo incontro (in questo capitolo è inteso come primo incontro dopo tanto tempo);

10) toccare i capelli dell'altro.

 

Al momento, questa storia, è in fase di scrittura e non so ancora di quanti capitoli sarà composta, ma spero che questa intro vi sia piaciuta.

 

A presto.

   
 
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