Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Exentia_dream2    17/04/2022    0 recensioni
In un universo in cui chi perde la propria anima gemella non vede più i colori, Mikasa decide di chiudersi in se stessa e tagliare i ponti con gli ex compagni della Squadra di Ricognizione. Un ritorno annunciato, però, cambierà il corso della sua vita.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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È stato molto tempo fa, e ora non so più nulla di lei che una volta era tutto. 

 

II.

 

Ha qualcosa nel petto che si agita come un animale braccato — e fugge, si nasconde, corre, corre, senza alcuna meta — ogni notte, quando il nero è più nero e i suoi occhi non si sforzano di vedere i colori che ha dimenticato. Serrati dietro la pelle sottile delle palpebre, si agitano appena e poi restano immobili per lasciarsi avvolgere dal buio che circonda tutto.

La coperta ha perso l'odore che aveva quando l'ha tirata fuori dal baule, i libri che ha recuperato dalla cantina di Grisha giacciono accanto al letto come corpi morti dimenticati da Dio e lei ha smesso di vivere un giorno di qualche anno prima: respira per inerzia, affronta le giornate perché deve (i polmoni recriminano aria, lo stomaco quel po' di cibo che riesce a mandare giù, la gola vuole l'acqua necessaria per non seccare), ma Mikasa non vive più. 

Jean se n'è accorto quando l'ha trovata genuflessa di fronte alla lapide di Eren e lei non ha emesso suono, se non quello dei respiri obbligati; è tornato all'ostello che divide con gli altri e ha detto: lasciatela in pace, il tempo per lei corre in maniera diversa, non ha dimenticato e non lo farà mai. Mikasa è forte solo con le armi, ma dentro è tutta franata: come pretendete di rimarginare le sue ferite se non fate altro che aprirne di nuove?

Armin ha calato il capo, la ragione di parole che hanno il sapore della verità gli è pesata sulle spalle tutta d'un tratto e ha rivisto nella mente i comportamenti tenuti in passato, i dialoghi vergati su fogli che sono stati chiusi chissà dove, i colpi alla porta e le proteste per farsi accogliere in una casa in cui, forse, c'è tutto tranne l'indispensabile, l'unica persona che avrebbe potuto tenere Mikasa ancora un po' sulla superficie di una vita degna d'essere chiamata tale.

"Hai ragione, dovremmo smetterla" dice, poi s'alza e spera di alleggerire la zavorra che gli pesa nel petto e gli occlude i polmoni — non passa, è un dolore che striscia sottopelle come i vermi nel terreno e come li fermi, gli animali che si nutrono di te se tu stesso non sei in grado di muoverti per scacciarli via? — , s'inginocchia e piange lacrime di sconfitta: non c'è pace per chi resta, pensa, e, come mai prima, questa volta vorrebbe non avere la capacità di distinguere il vero dal falso.

Quando rientra, l'ombra di Jean è immobile contro la finestra, con lo sguardo perso in luoghi che lui stesso fatica a ripercorrere; lo chiama e riceve in risposta un sospiro pesante, preludio di un segreto che è sul punto di essere svelato.

"Lo sai" dice Jean, la voce roca di chi ha taciuto per troppo tempo. "Mikasa è come il tempo di quest'isola: non passa, non passa mai."

"Non capisco."

"Mi è entrata dentro dal primo momento in cui l'ho vista e s'è presa sempre più spazio. Forse, è per questo che la capisco… perché Mikasa è per me quello che Eren è stato per lei. Come si cancella, Armin, la voglia di volerla accanto? Di vederle in faccia uno di quei sorrisi che ha sempre dedicato a un altro, di dirle di darmi la possibilità di guarirla, di insegnarle che l'amore s'impara con il tempo e non è solo quello che porti nel cuore da quando sei una bambina…"

"Non lo so" ammette. "Mikasa è un'enigma: ha investito troppa vita in una causa persa in partenza, quello che resta di lei è soltanto polvere. La polvere non torna corpo, Jean."

 

 

"Non parli mai, perché?" le chiede, quando la scena della notte precedente s'imprime nuovamente nella retina di occhi troppo abituati al buio, sedendosi al suo fianco e poggiando le mani sull'erba bagnata di pioggia invernale, senza soppesare il tempo in cui Mikasa rimane zitta: le parole non sempre sono in grado di descrivere un dolore, e allora lui accoglie quel silenzio come fosse la risposta che cerca da sempre e che non trova mai, lo custodisce come il più bello dei segreti e ripensa a quello che gli ha detto Armin quando ha paragonato Mikasa alla polvere. La polvere non è così, dice a se stesso, è qualcosa di cui resta l'assenza soltanto se la si tocca, invece Mikasa resta e basta: non serve passarci un dito per mandarla via e non c'è bisogno di lasciare le finestre aperte per farla entrare.

Le prende la mano e blocca il sussulto dei muscoli tra le proprie dita, come una promessa silenziosa di presenza eterna: ci sarò sempre per te, anche se non mi vorrai.

E, quando Mikasa trema, Jean accenna un sorriso tirato e guarda tra i rami, dove un uccello resta fermo a guardarli ad ali chiuse e becco serrato.

"Apri la bocca solo per incolparti di peccati che non sono tuoi, non solo almeno. Conosci altre parole, mh? Ti guardi mai allo specchio e ringrazi te stessa per le vite che hai salvato? Ti fermi mai ad ammirare il mondo che abbiamo contribuito a ricostruire? Sei circondata dai fiori, hai uno spazio immenso in cui perderti e ritrovarti, tuttavia, la tua vita resta ancorata a una tomba e sembra che tu non veda più il bello che hai intorno."

"Esiste una leggenda secondo cui chi perde la propria anima gemella smette di vedere i colori e tutto diventa in bianco e nero. L'unico colore che vedo è quello di questa sciarpa" dice, portando le mani sulla stoffa che le copre il collo. "la sola cosa che ancora mi lega a lui. Hai ragione, Jean: non vedo più la bellezza di quello che mi circonda, perché ho perso Eren."

Lui tace — e cosa potrebbe dire? — , ma in fondo alla gola le parole scalpitano per diventare suono: le ammazza, le riduce in pezzetti piccolissimi per ingoiarle meglio e digerirle rapidamente, giù nello stomaco, dove è giusto che muoiano.

Hai perso te stessa, vorrebbe dirle, Eren è sotto questo terreno, ma tu dove sei? Lui vive nei ricordi di chi è rimasto in vita, ma tu in cosa stai vivendo? E, soprattutto, stai vivendo? Non lo vedi, che somiglia a un morto che cammina? Non te ne accorgi, che se tu soffri per i morti, attorno a te c'è chi soffre per i vivi che si sono arresi? E tu sei una di questi: hai combattuto fino all'ultimo secondo e ora sei soltanto uno spettro che aspetta che arrivi la fine, una carcassa immobile mentre aspetti che il tempo faccia il proprio corso e ti consumi.

Non dice niente, però, ma sfila la giacca dalle braccia e la posa sulle spalle di Mikasa — trema di freddo, di rabbia, di dolore, non lo sa — perché è l'unico modo che ha per ricordarle che le è accanto.

Mikasa spalanca gli occhi: l'unica volta che qualcuno l'ha protetta in quel modo era una bambina che aveva appena visto morire i genitori, che aveva perso tutto, acquisendo la consapevolezza che i buoni non sopravvivono ai cattivi, che i deboli soccombono sempre ai più forti, eppure, Eren le aveva ridato la speranza soltanto avvolgendole una sciarpa attorno al collo per proteggerla dal freddo — e dalla cattiveria del genere umano.

Adesso, però, la sciarpa è piegata ordinatamente sulle ginocchia e l'indumento che la ripara dall'inverno è la giacca di un uomo a cui lei non ha mai rivolto uno sguardo.

È un uomo, Jean, e se ne rende conto solo quando si volta per ringraziarlo: ha un filo leggero di barba, gli occhi pieni di chi, il mondo esterno, lo ha visto davvero, e le mani grandi che sembrano pronte a sostenerla nel caso in cui cadesse.

Scuote il capo, torna a guardare la lapide e il vuoto che ha dentro sembra farsi più grande: non si riempie così, pensa, l'amore toglie tutto e non esistono surrogati che possano aiutarmi a non sentirlo più.

"Perché sei qui?" gli chiede, la voce bassa e il cuore sottoterra. 

"Lo hai sempre salvato, Mikasa, ma chi mai ha salvato te?" le chiede e lei tace tutte le risposte che s'è data negli anni, quando s'è sentita sola ed è stata l'unica ad ascoltare il proprio dolore, modellandolo con incertezza e mani tremule e allora basta, basta piangere: ingoia le lacrime, riempiti di esse e vivi di acqua salata, la stessa che Eren ha desiderato vedere solo per sentirsi ancora prigioniero, la stessa in cui per una sola volta vi siete bagnati entrambi — mai, da bambini, si sono lavati nella stessa acqua, mai Mikasa ha avuto lo stesso odore di Eren: Carla sceglieva per lei un profumo più dolce. "La donna deve avere il profumo di casa" diceva e poi le massaggiava sul collo due gocce di essenza di lavanda.

È un ricordo lontano, che le piega l'angolo delle labbra all'insù per un attimo.

Un secondo, ma tanto basta: la felicità a volte dura solo un secondo.

Jean si alza, prova a pulire l'alone dell'erba dai pantaloni e guarda verso il cielo. La notte è sempre stata un susseguirsi di ore silenziose e pensieri che fanno troppo rumore, ma adesso del rumore non resta nient'altro che il suono sottilissimo della bocca di Mikasa, che l'ha illuminato un po' di più come fosse la scia di una stella cometa che attraversa il firmamento e se una di queste passasse adesso, allora, Jean chiederebbe di fermare quell'attimo, quell'espressione, tutto, per viverlo ancora: se si domanda quante volte ha sperato che Mikasa sorridesse grazie a lui non saprebbe rispondersi, perché ha perso il conto e le dita di entrambe le mani non sono bastate (forse nemmeno quelle di tutto il Corpo di Ricerca sarebbero bastate e le speranze si sono perse chissà dove mentre la vita andava avanti e una parte di lui rimaneva infossata in esse).

Il silenzio, però, non accenna a levarsi e pesa come macigni franati sulle spalle di entrambi: sono curvi, muti, chiusi ognuno nelle parole che non dicono e chissà se non sono proprio quelle le armi che possono liberarli dai demoni che si portano dentro.

Jean ci ha provato ad aprire la porta per mandarli via e c'è riuscito solo dopo aver stretto loro la mano e ha creduto di poter fare lo stesso con quelli di Mikasa, ha studiato l'approfondimento sui sentieri, si è dato da fare chino sui libri dell'Università di Marley solo per dare a lei il conforto che cerca da tempo: ha trascorso notti intere a leggere, sottolineare, memorizzare i passaggi più difficile di una teoria che di fronte alla pratica sembra essere facilissima, si è fatto ascoltare dagli altri per confermare a se stesso di essere riuscito a imparare tutto, senza dimenticare niente e le immagini che gli passano davanti agli occhi glieli fanno bruciare come se avesse ancora quei milioni di parole davanti — impara a leggere, Jean, impara a scrivere. È partito da zero: una mattina s'è alzato e ha deciso che per crescere davvero avrebbe avuto bisogno di saper sfogliare i libri non solo per guardare le figure ma soprattutto per capirle, perciò ha fatto le valigie e se n'è andato a vivere nella casa di un professore marleyano che ha compreso la causa e il sacrificio del Gigante Fondatore e l'ha accolto a braccia aperte e carico di pazienza. Una dietro l'altra, le lettere che ha imparato, gli affolano la mente in ordine alfabetico e insieme a esse ci sono numeri, suoni, richiami per riportare l'attenzione su nozioni troppo difficili da imparare e, se ripensa a tutto quello, allora, riesce a sentirsi fiero di se stesso e del cammino che ha intrapreso. Quasi gli viene da sorridere e forse accenna una smorfia, ma un singhiozzo di Mikasa lo mette in allarme e lui torna a inginocchiarsi di fronte a lei, a prenderle le mani tra le proprie per dirle in silenzio che non è sola. Vorrebbe dirle parole dolci per evitare di ferirla, ma la verità è una lama che taglia anche se chiusa in un fodero di cuoio rigidissimo e non serve avvolgerla in strati e strati di cotone, lana, seta, no. La verità fa male e basta.

Eren è morto, le dice, e piangere non lo farà tornare: le lacrime che versi servono solo a svuotarti. Devi lasciarlo andare, Mikasa, altrimenti lui resterà imprigionato nei sentieri e non avrà mai pace. Non lo dimenticherai mai, ma il dolore è amore inespresso e, allora, forse, dovresti provare ad amare di nuovo — ama me, per favore. Oppure odiami, io ti amerò lo stesso1.

Mikasa lo sa, che non è vero. Che per quanto intensamente lo si prova a tener stretto, prima o poi, un ricordo sbiadisce.

Le succede, ogni tanto, di fermarsi a pensare e a chiedersi se il neo che Eren aveva dietro l'orecchio ci fosse realmente o no. O come fossero le mani che non gli ha mai stretto — troppo grandi, troppo piccole, giuste? 

A volte, non ricorda nemmeno se il verde dei suoi occhi si avvicinasse di più al colore dei boschi o a quello degli smeraldi.

Lo ha perso in vita, lo sta perdendo anche nei ricordi senza realmente rendersene conto.

È perché non vedo più i colori, si dice, ma la verità è che ha rievocato così tante volte il viso di Eren e non è mai stata capace di memorizzarlo davvero, perciò rincorre ogni notte quello che le resta delle proprie memorie di bambina.

Anche la voce con cui la richiamava non è altro che un sussurro indistinto senza suono, senza profondità che si confonde, di tanto in tanto, con il cinguettio di quell'uccello che ogni mattina si posa sulla finestra della cucina e reclama attenzioni, che apre leggermente le ali quando lei si mette nel palmo della mano qualche briciola e gliela lascia beccare. E, a quel pensiero, Mikasa solleva il capo e guarda i rami degli alberi spogli che non fanno da nido a nessun animale: ci sono soltanto lei e Jean di fronte alla tomba di Eren e la solitudine diventa squarcio sotto i piedi e al centro esatto del petto, dove il cuore batte impercettibile contro lo sterno — colpa del freddo, colpa della verità — ma di non sentirsi più sola, Mikasa non ne ha proprio intenzione e, anzi, a tratti l'ombra della compagnia che le sta accanto la infastidisce tanto da farle venire voglia di andare via.

Resta ferma, invece, inchiodata al terreno e vorrebbe strapparsi le gambe pur di non restare lì un secondo di più, ma continua a sentirsi paralizzata e quasi le fanno male i muscoli quando prova a muoversi, come se avesse radici affondate nelle terra: ma quanto in profondità sono arrivate, quelle radici, se riescono a tenerla bloccata lì? Non lo sa — e come potrebbe se sente di non appartenere a niente e a nessuno? — e di coraggio per scavarsi dentro e trovare risposte non ne ha.

Non si riconosce e non la riconosce nemmeno Jean quando la guarda e s'accorge che la Mikasa d'un tempo non c'è più e chissà se s'è seppellita accanto a Eren o nel luogo in cui ha preso la sua testa tra le mani e l'ha baciato per la prima e ultima volta. Vorrebbe non pensarci, eppure, il sangue che è colato quel giorno gli ricorda i motivi che lo hanno spinto ad arruolarsi nel Corpo di Ricerca piuttosto che in quello di Gendarmeria, quelli per cui ha combattuto e ha visto morire troppe persone per sentirsi davvero possessore degli anni che ha: guardare la morte in faccia fa invecchiare, pensa, ed è così che gli appare Mikasa — invecchiata di mille anni, di cento vite — e non gli è mai sembrata più vera come il quel momento.

Ha chiesto agli altri di non aprirle nuove ferite, ma a lei ha soltanto domandato cosa significassero i suoi silenzi, perché si ostinasse a tenere le labbre serrate e a non dire una parole (non parli mai, perché?), ma, con le sue mani strette tra le proprie, Jean capisce che non si può replicare a una domanda a cui non si vuol rispondere, che quesiti inaspettati possono far cadere la voce nello stomaco. Che, forse, l'unico modo che ha per starle accanto è quello di appoggiarsi a lei in silenzio e farle da cuscino allo stesso modo, senza imporre mai tempo — ché il tempo non sempre sana le ferite e spesso le infetta fino a quando l'unica cosa che resta da fare è tagliare, amputare, sopprimere — , allora le riempie lo spazio tra le dita con un frusciare di pelle che ha il suono del niente e la tira con sé per rimettersi in piedi.

"Stai tremando, Mikasa. Ti preparo qualcosa di caldo" dice e, quando lei prova ad allontanarsi, le rivolge uno sguardo che racchiude tanti, troppi sottintesi che somigliano ai cadaveri innocenti di Marley quando venivano calpestati perché la volontà di sopravvivere era più forte di quella di voltarsi per guardare chi fosse rimasto indietro, più forte del rispetto per i morti.

Glielo dice così e forse Mikasa comprende, perché ammorbidisce i muscoli e si lascia portare in casa — lascia che mi prenda cura di te questa notte. Anche domani, anche per sempre.





 

Prompt scelti:

 

06) Tenersi per mano

12) Indossare i vestiti l'uno dell'altro

 

1: il dolore è amore inespresso… Oppure odiami, io ti amerò lo stesso. È una frase (leggermente modificata) estratta da LOVE di Marracash.

Buona Pasqua a tutti.

 
 
   
 
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