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Autore: Adeia Di Elferas    12/04/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca aveva ragionato molto sulla sua situazione e su quella di tutta la sua famiglia. Aveva carpito dalle suore presso cui si trovava che i francesi non solo avevano occupato il Mugello, come deterrente per le truppe borgiane, ma che molti dei loro uomini erano andati oltre, entrando proprio in Firenze, nella zona che da Sesto andava fin alla Porta San Gallo. Si diceva, perfino, che alcune colonne avessero raggiunto Faenza, per intercettare, se necessario, i soldati del Valentino prima che invadessero il territorio di pertinenza fiorentina.

A forzare quella manovra, sembrava, erano state la resa di Anghiari, che si era venduta facilmente a Giampaolo Baglioni e la ribellione di Borgo San Sepolcro. L'accelerata data dai condottieri al soldo del Valentino aveva portato a una reazione similare da parte soprattutto del comandante francese Imbault Rivoire, che aveva pensato fosse meglio allargare il raggio di potenziale difesa per Firenze, arrivando perfino a un'azione d'attacco, riportando sotto la bandiera della Repubblica Cortona.

A tutte quelle informazioni, captate con difficoltà, ma imparate subito a memoria, la Riario si stava aggrappando fin dal suo arrivo in quel convento sconosciuto. Chiusa nella sua cella – da dove le era stato chiesto dalla Superiora di uscire solo per motivi urgenti, per non destare la curiosità delle consorelle – la ragazza non aveva altro da fare, in fondo, se non rimuginare e massaggiarsi il ventre, che iniziava ad avere una forma rivelatrice, per quanto non fosse ancora propriamente prominente.

Sapeva che quel giorno Alberto De Marzi sarebbe passato ad assicurarsi che fosse tutto in regola e a prendere da lei eventuali ordini. Aveva già una piccola lista di cosa che voleva farsi portare, soprattutto preparati e pozioni che, nella confusione della partenza improvvisa, aveva scordato alla villa. In più voleva che l'uomo scrivesse una lettera a Ottaviano e Cesare, per raccomandare loro di fare alcune cose, la più importante delle quali era cercare un contatto con Raffaele Sansoni Riario.

Era stata sua madre, il giorno in cui si erano salutate prima di separarsi, a insinuarle quell'idea. Le aveva fatto presente che il re di Francia doveva essere a Milano, o forse a Pavia, e che il loro cugino romano doveva essere con lui. Il servilismo che di certo un uomo come Raffaele doveva aver mostrato fino a quel momento e Luigi XII poteva tornare loro utile, calcolando la delicatezza del quadro generale.

Bianca, dopo aver lasciato la villa ed essere rimasta in convento, rivalutate quelle parole alla luce delle ultime notizie, non poteva che darle ragione.

Avrebbe scritto lei stessa ai fratelli, ma credeva, conoscendo Ottaviano soprattutto, che sarebbe stato più incisivo un messaggio di Alberto De Marzi. Il fratello maggiore non aveva mai avuto né rispetto né fiducia in lei, considerandola sempre o una mezza nemica o un essere inferiore in quanto femmina. Il fiorentino, invece, sembrava aver avuto subito su di lui un certo ascendente.

Mentre la Tigre era malata, tanto per dirne una, la Riario aveva intercettato per caso una lettera scritta proprio da Ottaviano ad Antonio. Aveva fatto in tempo a leggerne qualche riga e aveva capito che tra i due c'era uno scambio che doveva essere abbastanza assiduo. Non riusciva a immaginarne il motivo esatto, ma aveva tutta l'intenzione di sfruttare quel ponte per provare a fare pressione sul fratello in modo che contattasse Raffaele e usufruisse dei vantaggi della loro parentela, portando la loro famiglia, per intero, in un porto meno pericoloso di quello in cui si stavano lentamente incagliando.

Quando il De Marzi arrivò, la giovane si fece vedere lieta di vederlo, ma mantenne abbastanza le distanze. Rispose con gentilezza alle sue domande, lo ringraziò una volta di più per aver fatto in modo che potesse arrivare in quel convento senza correre pericoli e poi gli fece un brevissimo elenco della cose che aveva dimenticato alla villa.

“Non credo di poter tornare qui prestissimo...” fece Alberto, prendendo appunto di ciò che la Riario gli aveva appena chiesto di portarle: “C'è un brutto clima, qui attorno, Madonna Bianca... Brutto davvero.”

“Lo so.” fece lei, capendo che l'uomo non immaginava quanto lei fosse edotta circa l'ammassamento di soldati francesi in Firenze e, tanto meno, sulla complicata situazione dell'aretino e del Mugello.

Con un sospiro, guardandola in tralice, forse chiedendosi fino a che punto quella giovane donna somigliasse alla madre, De Marzi ribatté: “Cercherò, comunque, di farvi avere quello che vi serve il prima possibile.”

“E c'è un'altra cosa che avrei bisogno.” aggiunse la Riario, vedendo come il fiorentino stava già raggiungendo la porta della cella per andarsene.

“Ditemi tutto, ma fate in fretta. La Superiora non ha piacere che io resti qui molto, essendo un uomo.” fece notare lui, incrociando le braccia sul petto e poi lanciano un'occhiata al ventre di Bianca, soggiungendo, con una punta di veleno: “Anche se non vedo cosa mai potrebbe accadere di grave, dato che sappiamo tutti che il danno è già stato fatto...”

La figlia della Tigre finse di non sentire e non cogliere affatto l'allusione, per quanto la tentazione di riprenderlo con parole dure fosse forte. Aveva imparato ormai da tempo, anzi, proprio fin da bambina, che spesso era meglio fingersi tardi o troppo indulgenti, per salvaguardare i propri interessi.

Così, con un sorriso affabile, disse: “Ho bisogno che chiediate una cosa a mio fratello Ottaviano da parte mia.”

Alberto si gelò, un'espressione spiazzata in viso: “Vostro fratello..? E, di grazia, come potrei? Voi sapete bene che non ho alcun contatto con Messer Ottaviano.”

“So che gli scrivete, è inutile che neghiate, con me.” ribatté fredda Bianca, chiedendosi come facesse il De Marzi a mentire tanto facilmente: “Non mi interessa perché lo fate: voglio solo che veicoliate per me questo messaggio.”

L'uomo, un po' allarmato, non si ostinò a negare, ma riprese gli appunti di poco prima e si apprestò a segnarsi anche quell'ultima richiesta della Riario. Lei, intanto, lo osservava attentamente, sempre più indecisa: era stata davvero una mossa saggia, mettersi nelle mani di quell'individuo solo perché il piovano l'aveva raccomandato?

Alla fine, ripiegando il foglio e nascondendolo nella tasca del giubbetto, il fiorentino sbuffò: “Si dice che vostra madre sia una Tigre feroce, ma voi siete una gatta astuta...”

Bianca, ancora una volta, si comportò come se quella del De Marzi non fosse stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti e, anzi, sorrise: “Che Dio vi assista, Messer Alberto.”

Appena arrivato alla villa, Alberto andò alla scrivania della sala delle letture. Era indeciso se fare o meno come gli era stato chiesto dalla Riario. Da un lato, capiva l'utilità di ciò che la giovane gli aveva chiesto di riferire a Ottaviano, dall'altro aveva paura che lo stesso Ottaviano pensasse che lui avesse riferito a Bianca della loro corrispondenza.

Aveva la penna a mezz'aria da qualche istante, quando si rese conto di un fatto molto semplice: il Riario non era abbastanza intelligente da fare il ragionamento di cui sopra. Usando le parole giuste, avrebbe trovato il modo di non fargli capire che qualcosa non era andato secondo i loro piani di assoluta segretezza.

Anzi, pensò Alberto, trattenendo una risata, Ottaviano, che era convinto di essere il principe dei gatti, non si era nemmeno accorto che la sorella fosse incinta e neppure aveva immaginato che avesse lasciato la villa proprio per nascondere il suo stato e, al momento opportuno, partorire in santa pace, lontano proprio da lui e dalla sua cattiveria.

A quel punto il De Marzi aveva le idee abbastanza chiare, così, sistemandosi per bene sulla sedia, cominciò a scrivere. Dopo i primi convenevoli, arrivò a spiegare come ormai sia la Tigre, che tutti gli altri – tranne frate Lauro, ma gli sembrava un presenza più che secondaria, alla villa – fossero andati dove deciso, soggiungendo: 'e sono restato più lezieri è stato possibile a guardare le mure di questa casa in la quale starò fino che per forza ne sia cacciato bene che creda non debia bisognare perché de ogni altro se parla exepto che del patrone che fu de quella.'.

Riprese un momento l'ultima missiva di Ottaviano e la rilesse, per capire quali fossero le domande più pressanti che il Riario aveva inviato direttamente da Piacenza, città in cui si era spostato nel momento in cui i soldi che aveva con sé non erano più stati sufficienti per restare a Venezia.

'De la Excel.tia de Madonna non so che dire a V. S. perché poi che soa Ex.tia parti de qui non ho avuto nova di quella.' scrisse, per liquidare il più in fretta possibile le assillanti richieste del Riario riguardo la madre e la sua improvvisa decisione di lasciare la villa di Castello, e passò a rispondere all'altra, ansiosa domanda, riguardante Bianca: 'El piovano ne darà nova ad V. S. el quale ne sa el secreto et a lui e soa Ex.tia me referro de haver electo la migliore parte a la S. di M.na Biancha ho facto la imbasciata di V. S. la quale se aricomanda a V. S. e prega quella voglia haverla per aricomandata in la venuta del cardinale in Italia sigondo cognosce V. S. che importa la eta soa e lo honore de la casa et anchora la fede che ha in V. S, trovasi in uno monesterio molto secreta et con molta comodità soa la quale non habandonerò per fino che me resterà la vita si che stia V. S. se bono animo de quella.'.

Alberto sperò che l'accenno al Cardinale Raffaele Sansoni Riario venisse colto, se non da Ottaviano, almeno da Cesare, che di certo avrebbe letto a sua volta quel messaggio.

Dopo qualche altra frase di ordine abbastanza generale, il fiorentino firmò e mise la data, il 4 luglio 1502.

 

Gian Giacomo da Trivulzio non sapeva se stava facendo bene a presentarsi a quell'incontro, voluto molto fortemente da Gian Piero Landriani. Era, in fondo, a Milano già da qualche giorno, eppure non aveva avuto ancora modo di discutere come avrebbe voluto con gente per lui molto più interessante, come il re di Francia, o anche alcuni Vescovi che lo seguivano, alcuni comandanti...

Inoltre, mentre attraversava veloce delle vie secondarie, maledicendo il clima milanese che, in quella notte di inizio luglio faceva sembrare l'aria densa come acqua e impastava il corpo di sudore e sonnolenza, si trovò a chiedersi cosa avrebbero detto di lui, se qualcuno avesse scoperto di quell'appuntamento.

Già, lo sapeva, lo tacciavano di essere troppo filosforzesco, di non aver calcato la mano come avrebbe potuto, durante la conquista del Ducato, e di aver tramato anche troppo per far ridare al suo grande amico, Troilo De Rossi, quasi tutti i territori della vecchia Contea di San Secondo. Saperlo a colloquio con il Landriani, noto a tutti per aver militato presso la Tigre di Forlì, avrebbe di certo acuito i sospetti che alcuni francesi già nutrivano nei suoi confronti.

Quando arrivò a destinazione, Gian Piero lo fece accomodare subito, offrendogli del vino e chiedendogli subito come stesse. Il Trivulzio rispose con poche e scarne parole e poi cercò di ignorare le domande riguardanti Francesco Gonzaga ed Ercole Este.

Il modo in cui il Landriani disse: “So che il Marchese di Mantova sta per raggiungere Vigevano, per incontrare là il re... Invece il Duca di Ferrara pare lo preferisca vedere a Pavia...” non sfuggì a Gian Giacomo, che, però, fece spallucce, fingendosi poco interessato.

Quelle allusioni erano un semplice modo per fargli capire quanto il Landriani fosse addentro non solo ai fatti di Milano, ma anche a quelli del resto d'Italia. Non era un mistero, infatti, seppur fosse poco risaputo, che il Trivulzio, assieme proprio all'Este e al Gonzaga, avesse di recente sostenuto e aiutato militarmente il genero di Gian Giacomo, Ludovico Pico, che, assieme al fratello minore aveva deciso di impadronirsi di Mirandola, per poi poter scacciare l'altro fratello, Gianfrancesco, che aveva in animo di restare l'unico Pico al comando della famiglia. Di per sé, non ci sarebbe stato nulla di male, ma di fatto dimostrava non solo la volontà e la possibilità di distrarre uomini e armi per conflitti di interesse personale, ma era anche stata un'azione non concordata né coi francesi, né con il Valentino, ed era incerto, dato che l'assedio ancora non era a termine, quanto ancora avrebbe impegnato in termini di tempo, soldi e armi, i tre signori coinvolti.

“Come mai mi avete chiesto questo incontro?” domandò il Trivulzio, dato che il Landriani perdeva tempo con altri convenevoli.

Questi, posando gli occhi appesantiti dall'età verso il suo interlocutore, che era altrettanto avanti con l'età, disse, senza più giri di parole: “Voi siete milanese, come me. Anche se, come me, avete servito anche altre terre, è Milano la vostra patria.”

Incuriosito da quell'incipit, Gian Giacomo sollevò una mano, per farlo continuare, senza né smentire né confermare.

“Sapete chi sono e sapete cosa mi ha legato e mi lega tutt'ora a Madonna Sforza.” riprese allora Gian Pietro, abbassando lo sguardo, ma continuando a usare una voce ferma e decisa: “Io avevo due figli, ma li ho persi. Non mi resta molto, se non Madonna Sforza e i suoi figli.”

Il Trivulzio si stava facendo via via più attento. Solo qualche mese prima, avrebbe interrotto bruscamente il colloquio, dando del povero vecchio pazzo al Landriani e andandosene. Da quando, però, sapeva che il suo amico Troilo aveva intenzione di sposare Bianca Riario non appena ella fosse rimasta ufficialmente vedova, si trovava a essere molto sensibile a tutto ciò che riguardava Caterina Sforza e i suoi figli.

“Io voglio parlarvi da padre a padre, perché Madonna Sforza, per me, è come una figlia, e so bene quello che voi avete fatto, di recente, pur di aiutare vostra figlia Francesca.” quel secondo accenno alla guerra privata dei Pico agitò un po' Gian Giacomo, che, tuttavia, cercò di non darlo a vedere.

“Parlate più chiaramente.” lo incitò, quindi: “Perché non capisco cosa vogliate da me.”

“Io so quanto siete influente, presso il re di Francia.” mise in chiaro il Landriani: “Ora... I figli di Madonna, i due più grandi, Ottaviano e Cesare, non fanno altro che andare dicendo peste e corna della madre. Saprete anche voi che Madonna non ha una bella situazione in Firenze, perché il cognato le fa la guerra. E adesso... Adesso questa storia del Duca Valentino appena fuori Firenze...”

“Di quello non dovete preoccuparvi.” disse velocemente il Trivulzio: “Il re di Francia non permetterà al figlio del papa di avanzare su Firenze.”

Gian Piero parve rincuorato all'istante da quella rassicurazione, tuttavia continuò: “Qui in Milano, con il re, c'è il Cardinale Sansoni Riario... Io non sono mai riuscito a parlarci. Voi, però... Voi sarete ascoltato! Non può rifiutare un abboccamento con voi. Vorrei, se potete, che gli chiedeste di aiutare Madonna Sforza, perché so che ha poche sostanze e io...”

L'anziano si guardò attorno, come se la stanza spoglia che li circondava fosse l'effige della sua stessa disperazione. Anche se Gian Giacomo sapeva bene che non era quello, il palazzo del Landriani, restò comunque colpito da quel gesto. Poteva solo immaginare come si sentisse un uomo della sua importanza, senza più figli, senza prospettive...

“Se è solo questo...” fece quindi, provando ad alzarsi.

“Questa è la cosa principale... Madonna Sforza ha paura. L'ho capito da alcune lettere che mi ha scritto qualcuno che le sta molto vicino. Teme per la sua vita... Specie ora, che a Firenze si dice che Astorre Manfredi sia stato ucciso...” il Landriani scosse il capo: “Se hanno assassinato il vecchio signore di Faenza, ditemi voi, chi impedirà loro di fare altrettanto con la vecchia signora di Imola e Forlì?”

Il Trivulzio dissimulò molto bene la sua sorpresa nel venire a sapere di Astorre. Era stato sempre certo di avere notizie fresche da Roma in modo molto più sicuro e veloce di chiunque altro, e invece ora si trovava a scoprire per caso un'informazione cruciale, per aiutare il suo amico Troilo.

“Farò quello che posso.” concluse, cominciando a pensare a chi contattare, per chiedere se le voci sul Manfredi corrispondessero a verità: “Non temete, quando do la mia parola, la mantengo.”

Gian Piero, con un sorriso soddisfatto, allungò una mano, per stringere quella del condottiero e lo ringraziò: “Sapevo che eravate un vero milanese. E a Milano, da che mondo è mondo, è la vipera viscontea a regnare.”

L'altro, un po' in imbarazzo, indeciso se assecondare lo slancio patriottico del Landriani o meno, fece una smorfia che poteva stare per un assenso o per l'esatto contrario, e poi si congedò.

Mentre percorreva a ritroso la strada buia fatta all'andata, Gian Giacomo si mise a ragionare molto in fretta. Per prima cosa, ovviamente, doveva scoprire se Astorre era morto davvero. In ogni caso, poteva cominciare a inculcare nella mente di re Luigi l'idea che la figlia della Leonessa di Romagna, l'unica figlia, anzi, della Leonessa, dovesse andare in sposa come preda di guerra a qualcuno che aveva combattuto contro gli Sforza, a favore della Francia. Gli avrebbe fatto presente che l'unico che avesse le carte in regola per prendersi quella favolosa preda di guerra fosse proprio Troilo... Ancora in cerca di moglie, con uno Stato da consolidare con la benedizione di tanti eredi e, soprattutto, con delle terre da pacificare, delle terre che, guarda caso, proprio gli Sforza avevano strappato, a loro tempo, ai De Rossi. Di certo quella logica di subdola vendetta sarebbe piaciuta al re di Francia...

Certo, visto il tipo che era la Tigre di Forlì, magari avrebbe opposto resistenza, davanti all'idea di far figurare la figlia come un trofeo venduto al miglior offerente, ma il Trivulzio confidava nel buon senso e nel pragmatismo per cui proprio la Sforza era nota a molti.

Quasi tornato al proprio alloggio, asciugandosi il sudore dalla fronte, Gian Giacomo ripensò anche a un'altra cosa, di cui il De Rossi gli aveva parlato. Non lontano da Alessandria, c'era un piccolo appezzamento che veniva chiamato il Bosco. Troilo gli aveva spiegato che era stato donato come regalo di nozze dalla Leonessa alla sorella Bianca Landriani, che aveva sposato lo zio di Carlo Feo, uno dei fratellastri di Bianca Riario. Da anni, ormai, era senza proprietario e, forse, con uno degli abili giri di cui il Trivulzio era capace, avrebbe potuto far sì che il re di Francia gli concedesse di renderlo a Caterina Sforza, come risarcimento per la cessione della figlia al De Rossi... In quel modo, la Tigre avrebbe ottenuto tutto l'ottenibile, e anche Troilo e la sua innamorata sarebbero stati felici, ma Gian Giacomo sarebbe stato visto, specie da re Luigi, come una mente fina e diabolica, capace di incastrare tutti i tasselli, per rendere la caduta degli Sforza ancora più umiliante. Un doppio inganno, insomma, che gli sarebbe fruttato il plauso inconsapevole del re e la gratitudine sincera dell'amico più importante che aveva.

Come alleggerito, felice come non mai di aver chiara nella mente la strategia da mettere in atto, il Trivulzio, seppur tormentato dall'afa, quella notte dormì pacifico e beato, pronto, all'indomani, a cominciare a perorare la propria causa davanti al re di Francia.

 

“Secondo te Bianca è al sicuro?” chiese Caterina, restando coperta solo dal lenzuolo, che, in quel giorno così caldo di inizio luglio le sembrava anche troppo pesante.

Fortunati si era appena svegliato, complice proprio l'incubo che aveva destato anche la Sforza, portandola a cercare subito rassicurazioni in lui. Era ancora assonnato e ancora non riusciva a credere di essere finito di nuovo tanto facilmente nella rete della Leonessa.

La sera prima era andato per la prima volta in quella modesta casa, in cui era riuscito a far alloggiare la Tigre e i suoi figli – Galeazzo, Bernardino e Sforzino – assieme ad appena due fidatissimi servi, ossia Creobola e un ragazzo di fatica. Aveva cenato con la la donna che amava, avevano discusso di tutta la situazione, lui aveva provato a farla ragionare, a farle capire che, non appena Firenze avesse riaperto le porte, era necessario che lei tornasse alla villa, specie se teneva a non lasciarla in balìa di Lorenzo. Tutto, ovviamente, era stato inutile. Quando la milanese aveva detto di volersi ritirare per la notte, poi, per lei era stato anche troppo semplice attirare in stanza con sé il piovano e poi convincerlo a restare fino al mattino dopo.

“Perché non mi rispondi?” chiese Caterina, dopo un po': “Credi che abbia sbagliato ad affidarla ad Alberto..? Sei stato tu a presentarmelo come un uomo che meritasse fiducia...”

Riprendendosi un momento sia dal sonno, sia dai ricordi confusi di quella notte, Francesco scosse il capo e rispose: “No, no, credo che sia al sicuro. Non so di preciso dove l'abbia nascosta, ma quasi ogni convento ci è amico, se paghiamo.”

“Mi piacerebbe sapere dove stai trovando tutti questi soldi, per difendere me e la mia famiglia.” si lasciò scappare la donna, guardando verso il soffitto un po' ingrigito.

Quella era una casa piccola, ma a suo modo confortevole. Era evidente che nessuno l'abitava per intero davvero da molto tempo, ma il fatto che un paio di custodi fossero sempre rimasti lì, negli anni, aprendo ogni tanto gli scuri e facendosi vedere dalle case vicine, permetteva alla Leonessa e ai suoi cuccioli di vivere lì in relativa tranquillità, senza dover restare rinchiusi per paura che qualcuno notasse troppi movimenti, per una casa disabitata.

Francesco si rigirò nel letto, cercando di stringere a sé la Sforza, e sospirò: “I Salviati ci sono amici e per loro prestare denaro non è un problema. Anzi, direi che è il loro mestiere principale e più redditizio...”

Un po' la Leonessa se l'era aspettato, di sapere che erano proprio loro a finanziare le azioni del piovano, tuttavia non riuscì a reprimere un breve moto di insofferenza.

Scivolando via dall'abbraccio languido di Fortunati, la donna fu sul punto di chiedergli nel dettaglio che tipo di accordi avesse con Jacopo e Lucrezia, quando il suono delle campane la zittì. Erano giorni e giorni, in realtà, che i rintocchi squassavano i palazzi e gli animi della gente e il piovano le aveva spiegato il motivo già la sera prima.

“Sono ordini di processione...” le aveva spiegato: “Firenze si sente in pericolo e allora si ricorda di pregare.”

“Come fai a sapere che sono proprio processioni e non...” aveva provato a contraddirlo lei, per il semplice gusto di aprire un dibattito su qualcosa.

Lui l'aveva interrotta però subito, spiegando, con un sorriso: “Ho vissuto a Firenze molto più a lungo di quanto per ora non abbia fatto tu: so quello che dico.”

Così quella volta, mentre le campane suonavano come ad annunciare le prime luci dell'alba, la Tigre non fece più domande, limitandosi ad aspettare che finissero.

L'uomo, però, fu più rapido di lei e nel momento stesso in cui si spense l'ultimo rintocco prese la parola: “Ho scoperto di cosa hanno parlato Machiavelli e il Vescovo con il Valentino.”

Per quanto la infastidisse cambiare argomento, nel sentire ciò, la donna lo incitò a continuare. Si fece spiegare per filo e per segno tutti i punti dell'accordo che il figlio del papa aveva proposto a Firenze e, quando fu certa che la Repubblica non avrebbe accettato, si chiese ad alta voce cosa sarebbe accaduto.

“Sembra che domani Soderini lo voglia incontrare di nuovo.” spiegò Francesco, puntellato su un gomito, il viso rivolto alla Sforza, nella penombra del primo mattino: “Ma c'è un'altra cosa... A quanto ho capito, parlando con il Vescovo, a un certo punto il Valentino ha parlato anche di te.”

“E in... In che termini?” la voce si era fatta roca, nella gola della milanese, e le sue mani erano state colte da un breve tremito.

Come se sperasse davvero che bastasse a calmarla, Francesco le strinse le dita nelle sue e, dopo averle dato un rapido bacio, che lei non ricambiò, troppo tesa per provare interesse, in quel momento, verso le sue effusioni, rivelò: “In buona sostanza... Ha detto che se fosse dipeso da lui, non ti avrebbe mai fatta uscire da Castel Sant'Angelo.”

La Leonessa deglutì un paio di volte, poi ordinò: “Apriamo la finestra? Ho bisogno di un po' di luce...”

Il piovano sapeva quanto fosse più prudente lasciare chiusi gli scuri in quella camera, ma provò una pietà tanto profonda per la sua amante, da non riuscire a dirle di no. Mentre si alzava, si chiese come avesse fatto lei a resistere per così tanti mesi in una cella buia, senza poter mai vedere la luce del sole, senza mai sentire il profumo del vento o la freschezza della pioggia...

Trattenendo a stento una lacrima, lasciò che la luce entrasse prorompente nella stanza e poi tornò a letto, accanto a lei.

Si era aspettato qualche commento sprezzante su come ormai non si vergognasse più a farsi vedere girare per la stanza nudo da lei, ma la Sforza era immersa nei suoi pensieri e, forse, nemmeno lo aveva guardato, mentre andava alla finestra e tornava da lei.

“Giurami – fece di punto in bianco Caterina, cercando la mano di Francesco e stringendola con tutta la forza che aveva – giurami che non riuscirà a entrare a Firenze.”

Il piovano rimase un istante immobile. Come poteva lui giurare che Cesare Borja non riuscisse a entrare a Firenze? Era ovvio che non stava a lui fare certe promesse... Sicuramente anche la Sforza se ne rendeva conto, eppure...

“Lo giuro.” soffiò l'uomo e lasciò che la donna lo abbracciasse con urgenza, quasi con rabbia.

Restò con lei ancora un'oretta. Una volta calmatasi, la Tigre lo portò a parlare di Ottaviano e Cesare, del Popolano, del re di Francia. Fortunati la mise a parte delle chiacchiere che aveva sentito, ossia che probabilmente Lorenzo era tornato improvvisamente a pretendere la villa di Castello perché si era convinto che il Cardinale Sansoni Riario, andando in Francia prima e a Milano poi, si stesse disinteressando a loro, non fornendo più alcun aiuto economico.

“Come se negli ultimi anni ci avesse ricoperti d'oro...” aveva commentato sarcastica Caterina.

Conclusi tutti quegli argomenti, che pure avrebbero meritato ciascuno una giornata intera di discussione, Francesco lasciò il letto, si vestì con calma e andò alla porta, promettendo che sarebbe tornato il prima possibile.

“Non ti ho ancora chiesto come si trovano qui i tuoi figli...” fece lui, già alla porta, ma desideroso di prolungare ancora un po' la sua permanenza.

“Bene...” ammise lei, che, a sua volta, si era liberata dalle coperte e cercava con lo sguardo gli abiti da mettere: “Anche se Bernardino sembra sempre di più un leone in gabbia.”

Il piovano la guardò un istante e poi scoppiò a ridere, tornando subito serio: “Chissà da chi ha preso.”

“Ho paura che una volta o l'altra scappi...” continuò Caterina, senza assecondare l'ilarità del suo amante.

Francesco si accigliò e poi valutò: “Se lo facesse... Basterebbe che nessuno lo riconoscesse. L'unico rischio è che, sapendolo tuo figlio, qualcuno gli faccia del male per colpire te.”

“Lo so.” ribatté lei: “E poi mi manca Giovannino...”

“Appena le acque saranno più tranquille, potrai andarlo a trovare.” disse Fortunati: “Ora vado... Ti verrò a trovare presto, promesso.”

L'uomo lanciò un'ultima occhiata al corpo suadente della Tigre, ai suoi occhi verdi, che si stavano già perdendo in chissà quali pensieri, e poi se ne andò. Salutò Galeazzo, Sforzino e Bernardino e poi tornò al suo alloggio.

Oltre ai ricordi, ancora vividi, della notte d'amore passata con Caterina, continuavano a girargli per la mente le parole che si erano scambiati su Ottaviano e Cesare. Ormai era noto che i due, tra Firenze e Piacenza, dove erano appena arrivati, non avessero fatto altro che parlar male della madre, lamentandosi del poco denaro e della condizione in cui si trovavano.

L'unica cosa che il piovano reputò utile fare, per tentare un punto di contatto con loro e un loro ravvedimento, fu prendere carta a inchiostro e scrivere loro una lettera.

Non voleva spaventarli, ma voleva far capire loro quanto fosse importante che la famiglia restasse unita in quel frangente. Così decise di parlare loro anche dell'incontro tra il Vescovo di Volterra e il Valentino.

'O bene ad certificare vostre Sig.ie chel duca si è doluto col Vescovo de Volterra che questa città vi tenga qui con tanto favore reputatione et credito, et abstringendolo S. Rev.ma Sig.ia chiarirlo se lui lo diceva particularmente per amore de M.a vostra matre, li rispose che non teneva conto di Donne, ne la stimava, et che e' fusse el vero non lla harebbe lasciata uscire de Castello Sancto Agnolo.' il piovano fece un lungo sospiro e poi riprese a scrivere: 'Si che vostra Sig.ia pensino in che termine elle sono: ma quello che non mi duole manco è chel si è levato una voce che voi non siate bene daccordo con vostra matre, et manco col Cardinale vostro.'.

Francesco si fermò un momento, ripensando ai toni sprezzanti che la Tigre aveva usato per definire Raffaele Sansoni Riario e temette che anche Ottaviano e Cesare fossero poco inclini a ingraziarsi un uomo che, pur con tutte le sue mancanze, aveva sempre fatto il possibile per aiutarli, anche, a volte, contro il proprio interesse.

'Il che – scrisse dunque – come vi faceva tutti richi et felici vi fa poveri et meschini... Lorenzo per questo si è messo ad rivolere Castello o per amore o per forza, di che bisogna nasca qualche grandissimo scandalo perché Madonna se è resoluta non uscire se non a pezzi et Lorenzo obstinatamente lo rivuole.'.

Francesco rilesse tutto, mise la data dell'8 luglio, e firmò. Non sapeva quando quella lettera sarebbe partita davvero, visto che far uscire missive da Firenze era un'impresa notevole, in quei giorni, ma confidò che il suo abito lo aiutasse nel chiedere e ricevere un favore. Forse era peccato, sfruttare il suo ruolo per scopi che poteva definire personali, ma da quando si era legato anima e corpo a Caterina, non gli importava più molto dei compromessi che raggiungeva con la propria coscienza...

 

   
 
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