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Autore: theGan    13/04/2022    5 recensioni
Tre storie sulla solitudine del crescere e sugli amici trovati e persi: l’infanzia di Tsubasa, Ishizaki e Wakabayashi.
 
1) RIGUARDO AI DELFINI E ALLE ORCHE ASSASSINE:
 
Tsubasa non si sente solo, proprio per niente: ha mamma, papà e il calcio. Ma a Nankatsu il suo mondo si allarga.
 
2) MUFFA SUL SOFFITO:
 
Ishizaki si fa un nuovo amico, per caso diventa la sua nemesi, ma la rivalità tra Ishizaki e Wakabayashi ha sempre girato a senso unico.
 
3) PRESSIONE SARA’ APPLICATA DOVE NECESSARIO:
 
Genzo è consapevole delle aspettative che gravano su di lui e non ha intenzione di deludere nessuno. Anche se il costo è crescere troppo in fretta.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Genzo Wakabayashi/Benji, Ryo Ishizaki/Bruce Arper, Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Tsubasa Ozora/Holly
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa

* presenza di narratore inattendibile.


 

 

MUFFA SUL SOFFITTO.

 

 

Ryo Ishizaki è un bambino grande. Non è spaventato e non ha assolutamente fame. Neanche un pochetto.

Chi se ne frega se la sua pancia brontola e sente la testa tutta strana. Mamma questa mattina era troppo impegnata, così gli ha detto di prepararsi da solo il cestino del pranzo e Ishizaki non se ne è assolutamente dimenticato, perché lui è un bambino grande.

Il suo stomaco fa un rumore simile a quello di una gallina strozzata e Ishizaki si guarda attorno e spera che nessuno degli altri bambini l’abbia notato. Non lo hanno fatto, sono tutti troppo occupati a mangiare quello che le loro mamme gli hanno preparato e l’odore è così delizioso che Ishizaki è costretto a scappare.

Cerca un posto appartato nel cortile, si nasconde dietro un albero e lui non avrà fame, ma forse l’erba non ha un sapore così cattivo…

- Che sei? Una pecora?

La voce arriva all’improvviso dall’alto dell’albero e Ishizaki cade a terra di sedere. C’è un bambino tra i rami: è quello con la faccia paffuta che ha iniziato scuola tardi, non ricorda minimamente come si chiami.  

- E tu cosa sei? Una scimmia?

- No, ma tu ci somigli proprio.

Ishizaki afferra il tronco dell’albero con entrambe le mani e scuote forte. Non si muove di un millimetro. Stupido albero. Gli tira un calcio. Ora è il piede a fargli male. Il bambino ride. Stupido bambino-scimmia.

- Ehi, vuoi salire?

- Perché? Mi vuoi gettare di sotto?

Il bambino fa un verso che non è né un sì né un no, indica un ramo vicino e si stringe nelle spalle. Ishizaki lo interpreta come la sfida che chiaramente è. Stupido bambino, si vede proprio che non lo conosce: Ishizaki è un campione ad arrampicarsi sugli alberi. Ci impiega un minuto per prendere posto su un ramo accanto al bambino, non quello che gli ha indicato, nossignore, uno un po’ più in alto, un po’ più sopra di lui.

Ishizaki è molto fiero di sé, la sua pancia non concorda e ora che la distrazione è finita riprende a masticargli le interiora.

- Al volo!

Il bambino gli tira qualcosa in faccia e Ishizaki quasi perde l’equilibrio. Sfortunatamente per il bambino-scimmia, Ishizaki ha dei riflessi SUPER e afferra l’oggetto non identificato prima che lo colpisca. Lo sta per rilanciare quando si accorge che è un panino. Ne mangia metà e poi realizza che forse non dovrebbe accettare regali dalla sua nemesi.

Metà panino è pur sempre una munizione da lancio, ma: uno, ha ancora fame, due il panino è delizioso, tre sua madre gli ha insegnato meglio di così. Quindi, e solo perché sta pensando a sua mamma, dice:

- Grazie.

Il bambino si stringe nelle spalle e torna a guardare verso il centro del cortile, ma dalla sua posizione strategicamente superiore Ishizaki nota che è arrossito. Uh. Forse non è così malaccio.

- Vuoi qualcos’altro da mangiare?

DECISAMENTE non così malaccio! Annuisce e il bambino gli passa un altro panino e, dopo che Ishizaki l’ha praticamente aspirato, una banana.

- NON sono una scimmia io!

- Come vuoi.

Ma anche il bambino ha una banana in mano e Ishizaki decide di sospendere il giudizio sulla qualità dell’insulto. Mangiano in silenzio, il bambino tira fuori un biscotto, lo spezza a metà e glielo offre e ora, con la faccia puntellata di briciole e uno stomaco pienamente soddisfatto, Ishizaki si domanda se non ha finito per mangiare buona parte del pranzo del bambino.

- Grazie.

Dice semplicemente, perché Ishizaki è un bambino grande ed è in grado di riconoscere un gesto virile di solidarietà maschile. Il bambino si stringe ancora nelle spalle, ma non arrossisce più il che è un peccato.

- Io sono Ryo Ishizaki.

- Genzo Wakabayashi.

Ishizaki è un bambino grande, ma non molto ferrato sulle cose del mondo e quel cognome per lui è solo uno dei tanti. Ishizaki non si è fatto molti amici all’asilo e forse non sarebbe male se Wakabayashi diventasse il primo.

- Ehi, vuoi giocare a una cosa?

Wakabayashi pare interessato.

- Dipende.

Scendono dall’albero e Ishizaki corre a recuperare dalla cartella il regalo che gli ha portato lo zio per il suo compleanno. Lo mostra a Wakabayashi che aggrotta le sopracciglia e dice:

- Quella è la palla più brutta che abbia mai visto.

Ishizaki decide di non offendersi perché: uno, ieri ci ha giocato nel fango e si è dimenticato di pulirla (la sua cartella è un macello, speriamo che mamma non se ne accorga), due è chiaro che Wakabayashi dice una cosa e ne intende un’altra perché i suoi occhi stanno tipo brillando e ciò rende la bugia parecchio ovvia.

- Non è brutta! Questo è un pallone da calcio!

Ishizaki è un bambino grande e ciò lo rende così generoso da spiegare all’altro cosa sia il calcio. Wakabayashi ha le sopracciglia così aggrottate che per un attimo teme che gli inghiottano il naso. È abbastanza adorabile in effetti. Ishizaki non ha fratelli, ma deve essere così che si sente un fratello maggiore. Ishizaki pontifica sulla fantasticosità del calcio e Wakabayashi se ne sta zitto ad ascoltarlo in religioso silenzio.

Decidono di provare a giocare. Wakabayashi è una schiappa, ma Ishizaki è un bambino grande, così si limita a sospirare e mostrare di nuovo il trucco che gli ha insegnato lo zio e rimangono a provare fino a quando Wakabayashi non riesce a palleggiare in modo decente.

L’insegnante suona la campanella e li fa rientrare. Sono sudati marci. Wakabayashi si volta e gli sorride. Gli manca uno dei denti davanti e per un attimo è davvero come avere acquisito un fratello minore.

Il giorno dopo Ishizaki riporta il pallone, ma si ricorda di prendere anche il pranzo. Wakabayashi ha portato porzione doppia e così finiscono lo stesso per condividere. La stessa cosa succede il giorno dopo e quello dopo ancora.

A Ishizaki piacciono i cestini del pranzo di Wakabayashi perché c’è sempre un mucchio di carne, ma a volte si sente un po’ a disagio: il massimo che può offrire in cambio sono riso bollito e ravanelli al vapore. Dopo una settimana, la sensazione di fastidio cresce fino ad esplodergli in bocca e Wakabayashi lo guarda come se gli fosse spuntata un’altra testa.

- A me piacciono il riso e i ravanelli al vapore.

La cosa finisce lì. Solo che Ishizaki inizia a stare più attento a quello che prende dal pranzo dell’altro anche se Wakabayashi mette il broncio e gli abbaia dietro di prendere la carne, stupida scimmia.

Wakabayashi diventa ingiustamente bravo a giocare a calcio. Dice che è perché Ishizaki è bravo a spiegare, ma non è vero. La verità è che Wakabayashi è bravo in tutto. Gli insegnanti dicono che è un genio e che è pure qualcosa tipo “bilaterale?”, che significa sapere un’altra lingua che non sia il giapponese. Almeno Wakabayashi è più basso di lui.

- È stupido giocare sempre allo stesso modo.

Il pallone rimbalza sui piedi di Wakabayashi come se avesse un magnete nascosto nelle sue scarpe, il suono gli dà ai nervi.

- Che vuoi dire?

- Nel calcio vince la squadra che segna di più, giusto?- Aspetta fino a quando Wakabayashi non annuisce, non sembra molto convinto. – Quindi dovremmo giocare a chi segna più goal!

- Ma non abbiamo una porta.

- E secondo te quei due alberi che ci stanno a fare?

Wakabayashi lo guarda come se fosse un genio, Ishizaki gonfia il petto e si pavoneggia un pochetto.

Giocano. La distanza tra i due alberi è abbastanza grande che segnare non è difficile, così si allontanano di più e si sfidano a fare cose più difficili come tirare di sinistro o provare a farlo girati di schiena. Sono entrambi molto bravi e giocare insieme è divertente.

È mentre bevono l’aranciata che Wakabayashi ha portato per entrambi che Ishizaki ha una nuova epifania.

- Ci manca un portiere!

- Un cosa?

- Un portiere! – Ishizaki spiega. – Il tipo che sta fermo in mezzo ai pali e prova a bloccare i palloni che i giocatori gli tirano contro.

- Sembra una cosa abbastanza noiosa.

- No che non lo è! È un ruolo tipo importantissimo!

- Bene, allora fallo tu.

- Col cavolo! Io ho già avuto l’idea quindi il portiere lo fai tu.

Wakabayashi sospira, è uno dei suoi sospiri buoni, il che significa che Ishizaki ha vinto. Wakabayashi trascina i piedi fino alla “porta” e prende posizione con aria mesta. Ishizaki recupera il pallone e riprendono a giocare. Wakabayashi non riesce a intercettare un singolo tiro. Fa talmente pena come portiere che Ishizaki si sente un filino in colpo per aver suggerito l’idea.

Giocano così per il resto della settimana, perché Wakabayashi è cocciuto come un mulo ed è incapace di ammettere che ci sia una cosa in cui non sia bravo.

- Ancora!

Wakabayashi gli lancia il pallone. Sono passati solo quindici minuti dall’inizio della ricreazione ed è già coperto di terra, ha persino un paio di foglie incastrate nei capelli visto che continua a cadere di faccia nel prato.

Ishizaki tira, segna. Wakabayashi cade, si alza, prende il pallone e lo rilancia. Di nuovo. È snervante. Wakabayashi dovrebbe rassegnarsi e chiedergli di fare a cambio, ma nooooo, deve essere proprio un idiota testardo su tutti i fronti per essere contento.

Ishizaki ha qualcosa fermo in gola, magari è il pranzo (il suo, non quello di Wakabayashi), il petto è come pesante. Tira il pallone, Wakabayashi lo manca e cade a terra. Si tira su con la faccia tutta sporca e guarda la palla di traverso. Ma perché deve fare così pena a giocare?

Deve dire a Wakabayashi di smetterla e che adesso il portiere lo fa lui, continuare a cadere non è divertente e Ishizaki non ha altra scelta che essere un bambino grande visto che l’altro è un tale asino.

Rimane in silenzio.

Wakabayashi gli lancia il pallone e lui lo calcia. Gli viene tipo da ridere, ma non perché si stia divertendo. È un tipo di risata diverso.

Diverso nel modo in cui il pranzo di Wakabayashi è più ricco e migliore del suo, nel modo in cui i suoi vestiti sono più belli e più caldi, nel modo in cui c’è sempre una macchina che lo porta a scuola mentre a lui tocca il pulmino o andare a piedi, nel modo in cui è sicuro che il pallone da calcio che Wakabayashi ha a casa è più nuovo, pulito e bello di qualunque cosa Ishizaki potrà mai avere.

Quindi non chiede di fare cambio, non ride. Calcia il pallone e sta a guardare Wakabayashi cadere per la milionesima volta sul suo stupido faccione, solo che questa volta l’altro il pallone lo para.

Ovviamente non lo fa come una persona normale: calcola male il salto e il pallone lo colpisce dritto in faccia. Il naso di Wakabayashi inizia a sanguinare e Ishizaki si rifiuta di sentirsi in colpa. Certo che quest’ultimo pallone lo ha calciato davvero forte…

- Parato!

Wakabayashi sorride e insiste per continuare a giocare, ma l’insegnante gli becca mentre stanno andando ai bagni, vede la sua faccia e inizia a strillare. Adesso giocare a calcio in cortile è vietato. Wakabayashi si imbroncia e insiste che sia un’ingiustizia, ma Ishizaki è stranamente grato per l’intervento divino.

Non sa bene quando sia successo, ma giocare a calcio con Wakabayashi ha smesso di essere divertente.

Certo, sono ancora amici, o meglio, è quello che dicono tutti i loro compagni e quindi provano a fare altri giochi all’aperto, niente è come il calcio così si mettono a giocare a carte e ai videogiochi, ma pure quelli diventano noiosi. Ishizaki si è fatto dei nuovi amici e visto che stare insieme a Wakabayashi è abbastanza una palla, inizia ad evitare l’altro bambino del tutto.

Non è che lo stia lasciando proprio, proprio da solo: c’è questa bambina ultimamente che trascina Wakabayashi per un braccio e lo costringe a stare insieme al suo gruppo di invasati durante la ricreazione. Poi spunta pure un tipo dai denti strani e uno dai capelli anche peggio che si attaccano addosso a Wakabayashi tipo zecche. Ishizaki non è per niente geloso di essere stato sostituito. Solo che lui le cose le nota.

Poi un giorno Wakabayashi si piazza sulla sedia accanto alla sua ed attacca a parlare come se non fosse passato tipo un mese.

- Ce l’ho.

- Ho cosa?

Gli occhi di Wakabayashi brillano quando parla, gli sono mancati. I suoi nuovi amici sono divertenti, ma non c’è nessuno esattamente come Wakabayashi.

- Il tempismo giusto. Per fare il portiere devi essere in grado di prevedere i movimenti dell’avversario e poi devi cogliere il momento esatto per essere più veloce, più forte, più preparato. Ce l’ho.

Ora Ishizaki è davvero interessato. Il calcio gli piace ancora da matti e ci gioca sempre a casa quando mamma non c’è per urlargli di non portare il pallone in casa. È orribile che a nessun altro bambino della sua età interessi. Tranne a Wakabayashi. Wakabayashi è l’eccezione a tante cose.

- Non ti credo. – Mente al bambino. – Scommetto che cadi ancora di faccia ogni volta.

- NON È VERO!

- Provalo.

Wakabayashi non cade di faccia, né para qualcosa quel giorno: l’insegnante li becca, pallone in mano, mentre tentano la sortita e li mette in punizione.

- Ehi, vuoi venire a casa mia domani dopo la scuola?

Ishizaki deve dire di no. Sarebbe la cosa giusta da fare.

Però non dice niente e improvvisamente è il giorno dopo e Wakabayashi è convintissimo che passeranno il pomeriggio insieme a giocare. Avrebbe dovuto dire di no subito. Potrebbe farlo ora, ma mamma ha detto che ci sono le vasche da pulire a casa e Ishizaki non vuole fare nemmeno quello. Il prodotto che usa mamma puzza da maledetti e gli lascia sempre le mani che bruciano.

Quando Wakabayashi chiede se è tutto confermato per il pomeriggio, si limita ad annuire. Avrebbe dovuto pulire le vasche.

Ishizaki non invita mai amici a casa, è troppo cosciente del numero delle piastrelle rotte e del calore soffocante delle vasche che sfugge e prende possesso del microscopico spazio abitabile al secondo piano. Non gli piace l’idea che i suoi amici vedano quanto piccola sia la sua camera o la macchia di muffa che si allarga all’angolo sinistro del soffitto. Fuori dalla sua portata.

Ishizaki sa che la casa di Wakabayashi è diversa dalla sua.

Calcola male il quanto.

C’è una macchina che li aspetta fuori da scuola: è nera, grande, costosa ed è quella da cui scende Wakabayashi ogni mattina. Suo padre deve lavorare per una di quelle grosse compagnie che a mamma piacciono tanto anche se ripete che lui, Ishizaki, non avrà alcuna possibilità di trovarvi impiego da grande. Non è il padre di Wakabayashi l’uomo alla guida, ma un tipo alto, vestito in uniforme che dice:

- Salve signorino, mi auguro che la sua giornata sia andata nel migliore dei modi.

Ishizaki non ha mai sentito un adulto rivolgersi a un bambino in modo tanto formale, il suo stomaco si stringe e inizia fargli male.

Quando raggiungono la loro destinazione, Ishizaki capisce di sapere già quale sarà la casa di Wakabayashi: l’ha vista infinite volte da sopra la collina. Un giorno aveva anche chiesto a mamma se quello fosse un castello e se dentro ci vivesse una principessa. Mamma aveva brontolato che c’era andato abbastanza vicino.

Wakabayashi lo trascina per un braccio, una signora anziana vestita come le cameriere delle serie televisive, chiede se il “signorino” ha finalmente deciso di invitare un amico a casa. Wakabayashi annuisce con entusiasmo e non sembra per niente il tipo scorbutico che è a scuola.

Si siedono in una specie di veranda e la signora gli porta qualcosa da bere che Ishizaki fatica a mandare giù. Wakabayashi sta parlando, ma le parole arrivano come da molto, molto lontano. È tutto così grande in questa casa, come se fosse progettato per rimanere sempre fuori dalla sua portata.

- Ti va di giocare?

Le mani di Wakabayashi sono sudate, Ishizaki non lo aveva notato. Fa cenno di sì e Wakabayashi esita un attimo prima di sorridergli. È infuriante.

Tornano in quel giardino assurdamente gigante. Ishizaki non ce l’ha il cortile, che è una cosa stupida da non avere quando uno vive in una città come Nankatsu che è tipo il nulla avvolto da centinaia e centinaia di ettari di risaie. Il giardino di Wakabayashi è stupido come le piante che qualche idiota ha pensato di tagliare come fossero degli animali: i cigni non sono neanche fatti così.

Wakabayashi fa segno di seguirlo, probabilmente gli sta facendo fare il giro della casa per darsi delle arie, ma con lui certe cose non attaccano.  

Si fermano. C’è una vera porta da calcio in giardino. Ishizaki la fissa: è bianca come quelle delle riviste e brilla così tanto da bruciare.

- Ti piace?

Più tardi Ishizaki giurerà che Wakabayashi stava cercando di sfotterlo. Lo poteva leggere dalla voce che quasi gli tremava e nel modo in cui i suoi occhi avevano brillato un attimo prima di iniziare a parlare.

Ancora più tardi, Ishizaki giurerà di non ricordare niente di quel giorno.

Circa dieci anni dopo, quando lui e Wakabayashi avranno siglato una sorta di tregua, Ishizaki si limiterà ad ammettere che entrambi erano stati una coppia di stronzetti a quell’età.

Quello che effettivamente succede è questo: Ishizaki si gira e tira un cazzotto in faccia a Wakabayashi.

Il bambino è così sorpreso che per un attimo Ishizaki pensa di doversi scusare. Poi la faccia dell’altro si trasforma in qualcosa di orrendo e cattivo e Wakabayashi gli rifila un sinistro micidiale nello stomaco. A quel punto è guerra.

È il giardiniere a separarli alla fine.

Ishizaki ha un labbro rotto, un occhio nero e sta gridando qualcosa di orribile, che giurerà di non ricordare.

Quello che succede è che i genitori di Wakabayashi lo tolgono da scuola.

E non è come se Ishizaki avesse aspettato quella stupida macchina nera ogni giorno per una settimana di fila davanti ai cancelli. È chiaro che lo stronzo adesso reputa le scuole pubbliche troppo al di sotto del suo livello. Tipico. Lo riferisce a mamma che per una volta gli dà ragione, lo abbraccia pure il che è strano.

- Quelle persone sono differenti da noi. Non ci si può mischiare.

Ishizaki non pensa più a Wakabayashi. Ha da passare i test d’ingresso per la scuola pubblica di Nankatsu e non ha proprio tempo per altro. E poi lui e Wakabayashi non frequenteranno più nemmeno la stessa scuola. Il fetente andrà alla Shutetsu. Non che Ishizaki abbia chiesto in giro.

Un giorno mamma lo informa che dei tipi assunti dal sindaco stanno pulendo l’acquitrino vicino alla casa del macellaio e ci costruiranno un campetto “per quello sport che gli piace tanto”.

- Quei Wakabayashi si comportano come se la città fosse di loro proprietà.

Il campetto è bellino, non c’è spazio per gli spettatori e il terreno è un po’ sconnesso, ma ci sono due porte vere e sembra proprio uno di quelli dei racconti di suo zio. Il sindaco fa un discorso quando lo aprono al pubblico, ma dopo l’interesse iniziale nessuno ci gioca davvero. Tranne Ishizaki.

Tranne Ishizaki e i bambini della scuola pubblica che è riuscito a trascinare con il ricatto a giocare con lui.

Sa perfettamente che i Wakabayashi hanno costruito un altro campo da calcio in città, uno più bello con le gradinate per il pubblico e gli spogliatoi per i giocatori. L’ha letto sul giornale. Si trova dentro al campus dell’istituto privato Shutetsu. Apparentemente un anonimo donatore lo ha regalato alla scuola con la condizione che fossero formalmente istituiti dei club calcistici.

A volte gli capita di vedere Wakabayashi di sfuggita. La città non è grande.

È cresciuto e ora ci sono sempre un sacco di bambini che gli girano attorno, sembrano un branco di iene. È abbastanza ingiusto che Wakabayashi sia più alto di lui adesso, ma se si sente sollevato di non vederlo più da solo, Ishizaki non lo dice.

La squadra di calcio delle elementari Shutetsu inizia a vincere un sacco di partite in giro per la prefettura. Ci sono degli articoli sui giornali locali. Alla fine la Shutetsu si qualifica per il campionato regionale. Wakabayashi è il suo capitano.

Ovviamente.

Ishizaki va a vederli giocare. Non per fare il tifo, nossignore, ma per ridere della leggendaria mancanza di coordinazione di Wakabayashi. Forse quando cadrà di faccia inizierà a piangere. Oh, sarebbe terribilmente imbarazzante e probabilmente i suoi nuovi amichetti non vorranno più avere niente a che fare con lui. Ishizaki ci deve essere. Per più di una ragione.

È strano che lo sorprenda che Wakabayashi non faccia pena.

Wakabayashi è brillante.

Para ogni tiro, abbaia ordini a tutto volume ai i suoi compagni che gli obbediscono alla lettera. La Shutetsu è una macchina da guerra terrificante e fantastica. Un bambino dai capelli ricci segna con una finta che Ishizaki ha provato migliaia di volte senza riuscire. Un altro con dei denti piuttosto notevoli (dove l’ha già visto?), evade gli altri giocatori come birilli.

Sono presuntuosi e si lasciano aperti al contropiede, attaccano come se la difesa fosse una preoccupazione secondaria e il perché è piuttosto chiaro. Ci sono sempre un paio di ragazzi posizionati in area, uno è un dannato gigante che blocca qualsiasi avversario sia abbastanza sfortunato da capitargli a tiro. Ma la vera ragione per cui nessuno pare in grado di segnare è il portiere.  

Wakabayashi è come un muro.

Qualsiasi tentativo contro la sua porta è fermato con militare efficienza. Wakabayashi è dappertutto. Para, urla qualcosa e poi spedisce un pallone dritto sui piedi di un giocatore dai capelli lunghi, come se ci fosse un filo invisibile a guidarne la traiettoria.

Il team avversario viene annientato nel primo tempo.

Il secondo tempo è una formalità più che altro, i giocatori della Shutetsu si passano il pallone tra loro e aspettano lo scadere del tempo. Al fischio dell’arbitro i capitani delle due squadre si stringono la mano. Un trofeo viene portato in campo e Wakabayashi lo solleva alto tra le grida di gioia dei suoi compagni.

Mentre celebrano gli occhi di Wakabayashi si piantano sulle tribune, cerca qualcosa e la sua faccia è di nuovo quella del bambino un po’ impacciato che offre il pranzo a uno sconosciuto per farselo amico. I loro sguardi si incrociano. Wakabayashi si blocca, schiena dritta e sopracciglia sollevate. Poi la sua bocca si allarga in un ghigno e gli fa l’occhiolino e, oh, Ishizaki lo odia proprio.

La Shutetsu non vince solo i Regionali: vince i Nazionali. E poi lo fa di nuovo l’anno successivo.

E ancora, ma quest’anno a Wakabayashi non bastava il titolo e il signorino decide di settare un nuovo record per se stesso: in tutto il torneo nessuno riesce a segnare un goal contro di lui.

A volte la Shutetsu si allena nel campetto pubblico dietro la casa del macellaio. Indossano le loro stupide divise bianche e rosa che li fanno sembrare proprio un bel gruppo di sfigati mentre corrono e fanno esercizio. Il loro coach è un tipo assurdo che pare uscito da un film di Hollywood sulle spie perché veste di nero, indossa occhiali da sole e fuma tutto il tempo. Wakabayashi lo tratta come se fosse la seconda venuta di Cristo.

Lo riferisce a mamma mentre scrostano con le spazzole lo sporco più ostico da una delle vasche grandi.

- Si chiama Mikami. – Dice mamma, i gomiti che affondando nello sporco. - È uno di fuori che i Wakabayashi si sono portati in casa. Era un giocatore di calcio professionista una volta o qualcosa di simile.

Ishizaki non impiega molto a notare che questo Mikami non è il coach della squadra (ne hanno un altro), ma quello personale di Wakabayashi. Arrivano insieme e se ne vanno sulla stessa macchina. Sicuro, dispensa istruzioni ad ogni bambino, ma presta un’attenzione tutta particolare agli errori di Wakabayashi e dice sempre qualcosa come “questo lo riproviamo a casa”.

I genitori di Wakabayashi gli hanno pure comprato l’allenatore personale! Come tutto il resto. Non sa nemmeno perché la cosa lo sorprenda.

Ishizaki non è particolarmente atletico: è bassino e confonde ancora la destra dalla sinistra. È sicuro che se i suoi genitori gli avessero comprato un allenatore, un campo da calcio e delle uniformi da fighetta, Ishizaki sarebbe stato un giocatore bravo uguale, forse meglio.

Dopotutto è stato lui a insegnare il calcio a Wakabayashi. E il calcio era una cosa sua! Come diavolo ha osato, Genzo Wakabayashi, un bambino che ha tutto, a rubarglielo! E come ha osato diventare pure tanto bravo che Ishizaki non può più puntargli il dito contro e mettersi a ridere.

Non è giusto.

Se potessero scambiarsi di posto, anche solo per un momento: Ishizaki sarebbe davvero un giocatore migliore? Il pensiero lo tiene sveglio la notte.

Così un giorno, corre giù dalla collina e affronta Wakabayashi mentre si sta allenando con la sua squadra. Non lo fa da solo, dietro di lui ci sono i suoi amici, i suoi veri amici, la squadra che ha messo insieme con le sue sole forze.

Ishizaki marcia dritto da Wakabayashi e, sì dannazione, quell’insopportabile bolla antipatica è davvero più grande di lui ora, maledizione. Wakabayashi ha quella stupida espressione in faccia, quella in cui le sue sopracciglia stanno così aggrottate da sembrare toccargli il naso (sia messo agli atti che mai, Ishizaki, in vita sua abbia pensato che fosse adorabile). Apre la bocca, Ishizaki lo anticipa.

- Questo non è il tuo campetto. Tornatene a quello da fighette della vostra scuola. Questo è nostro.

Wakabayashi sbatte le palpebre, pare confuso e, ah, Ishizaki sente qualcosa di dolce scivolargli in bocca.

- No, non lo è. Questo campo è pubblico: lo possono usare tutti.

E ammettilo una buona volta che la tua famiglia l’ha comprato come tutto il resto.

- Beh, sei d’intralcio al NOSTRO allenamento. E dato che la MIA squadra ha diritto di anzianità sulla tua, ti suggerisco di levare le tende e non farti più rivedere.

Wakabayashi appare interdetto. Il sapore è ancora più dolce e Ishizaki si sente in cima al mondo.

- No.

Questa volta è il suo turno per essere perplesso. Il volto di Wakabayashi è placido e rilassato come se avesse finito di calcolare un infinito numero di variabili in quel suo testone e ogni operazione avesse portato allo stesso risultato.

- No? – Chiede Ishizaki.

- No. Abbiamo usato questo campetto ogni settimana allo stesso orario per più di due mesi. Se aveste avuto necessità di usarlo lo avremmo saputo.

Beh.

- Non ne abbiamo avuto bisogno PRIMA, ma ne abbiamo ORA. Quindi, sciò, via, disperdetevi o qualsiasi sia il termine che piace usare alla gente ricca.

È la cosa sbagliata da dire.

Wakabayashi respira così forte che gli si dilatano le narici, alcuni dei suoi compagni hanno smesso di giocare e hanno iniziato a convergere verso di loro mormorando tra sé. La loro presenza aziona come un bottone nel cervello di Wakabayashi che, contrariamente alla sue aspettative, abbassa i pugni e non gli tira un cazzotto in faccia. Oh, adesso capisce: sta ancora giocando a fare il capitano. A Wakabayashi e alla sua famiglia piace tanto pretendere di essere migliori degli altri.

- No. Puoi usare questo campetto quando non ci siamo. Non m’importa. Ma questo è il nostro orario. Se c’è qualcuno a doversene andare quelli siete voi.

Questo è assolutamente inaccettabile e Ishizaki non arretra di un millimetro, anche lui può essere cocciuto come un asino se vuole.

- E cosa succede se non ce ne andiamo?

- Allora la decidiamo qui, una volta per tutte.

Ah, questo è il momento di fare a pugni, Ishizaki è pronto, lo può battere. Sicuro, Wakabayashi sarà pure più alto e grosso ora, ma si ricorda ancora dell’occhio nero che gli ha fatto quella volta. Il ricordo è improvviso e lo rende triste e la cosa gli dà ai matti. Wakabayashi apre la bocca:

- Con una partita.

Con una COSA?

Wakabayashi sorride e Ishizaki realizza di aver detto l’ultima cosa ad alta voce. Cerca di non arrossire.

- Una partita. – Continua Wakabayashi. – La tua squadra contro la mia: il vincitore decide dove e quando poter giocare e il perdente rinuncia ad alcun diritto su questo campetto, reale o immaginario. Ci stai?

Wakabayashi potrà anche non aver aggiunto “o sei tanto vigliacco da scappare con la coda tra le gambe piuttosto che affrontarmi?”, ma Ishizaki lo sente lo stesso. Accetta la sfida. La squadra di Ishizaki perde.

Ma perde proprio, proprio male. Così male che i giocatori della Shutetsu si mettono a ridere più o meno a metà del primo tempo e non smettono fino alla fine della partita. Wakabayashi non ride.

Wakabayashi lo sta guardando come se fosse la merda sotto le sue preziose scarpette firmate, come un insetto che ha determinato troppo patetico per essere schiacciato. Ishizaki lo odia e spera che il suo odio un giorno lo bruci e gli sciolga gli occhi.

- Prendi la tua squadra di perdenti e vattene.

Ishizaki esegue.

Ma ritorna.

Lo sfida ancora e ancora, fino a quando persino i compagni di squadra di Wakabayashi non lo trovano più così divertente e si fanno cattivi. Quelli di Ishizaki hanno da tempo abbandonato ogni speranza di risolvere la cosa in modo ragionevole e smettono di presentarsi dopo la quinta partita. Qualcuno non viene più nemmeno agli allenamenti.

- Pensavo che il calcio sarebbe stato divertente. – Dice uno di loro, Ishizaki non riesce a dargli torto.

In un raro momento d’introspezione personale Ishizaki si domanda se sia successo per colpa sua.

È strano, ma ad un certo punto tra la quarta e la quinta partita, Ishizaki ha realizzato di non odiare Genzo Wakabayashi. L’ha visto faticare e (essendosi trasformato in una sorta di stalker durante la loro inimicizia) sa più di chiunque quanto duramente si alleni, quanto lavoro metta in ogni cosa che faccia. Sa che Wakabayashi, esattamente come lui, deve sudare e sanguinare per ogni stramaledetta goccia di talento che la natura ha pensato di elargirgli.

Ishizaki inizia a considerare, nella privacy della sua testa, che se gli fossero state presentate le stesse opportunità che un capriccio della fortuna ha offerto a Wakabayashi, non sarebbe diventato un giocatore di calcio in gamba quanto il portiere. Certo, ama il calcio, ma Wakabayashi LO AMA.

Lo ama con una forza così intensa da essere preoccupante. Tossica. Ishizaki non desidera arrivare ad amare qualcosa così tanto da lasciarsene distruggere.

E non è giusto! Perché ora Wakabayashi lo odia e Ishizaki non può certo presentarsi a casa sua come se niente fosse e chiedere:

- Ehi, vuoi giocare?

Sono nemici!

Alla fine Ishizaki si stanca di chiedere ai suoi compagni di squadra di unirsi alla sua campagna: “rimettiamo Wakabayashi al suo posto”. Sono inamovibili da quando hanno perso contro la Shutetsu cinquanta a zero.

A dirla tutta pure lui è stanco di costringerli a partite a senso unico, quindi cambia strategia e inizia a lamentarsi molto pubblicamente e molto rumorosamente di come “quei fighetti della Shutetsu utilizzino il loro status per opprimere il suo team”. Lo fa anche in occasione dell’incontro mensile dei club sportivi della scuola Nankatsu. La saletta del meeting è piena zeppa di ragazzi più vecchi di lui, alcuni sono delle medie, la maggior parte vengono dal liceo. Lo ascoltano e poi il capitano del team di rugby chiede:

- Quindi, fammi capire bene. C’è questo ragazzino ricco che vi ha rubato il campo dove andate ad allenarvi, solo perché viene da quella scuola privata e pensa di farla franca?

Sì. Si, è andata esattamente così.

Sicuro.

Corretto.

Succede qualcosa di inaspettato, il capitano della squadra di rugby dice qualcosa ai ragazzi del tennis e poi il capitano del baseball si intromette nella discussione. Alla fine annuiscono con un’espressione severa e si voltano a fissarlo.

- Ascolta, piccolo. Dicci il giorno e l’ora e veniamo ad aiutarti a sistemare questa cosa. Ok?

Ishizaki annuisce.

Cammina sulle nuvole quando si presenta due giorni dopo a interrompere gli allenamenti della Shutetsu. Questa volta, però, invece del suo solito team di perdenti ha con sé i ragazzi grandi e questo significa che è chiaramente nel giusto. Ovviamente non sono qui per fare del male a nessuno, tranne magari all’ego di un certo qualcuno.

Wakabayashi accetta la sfida.

Lo fa sempre, ogni dannata volta. Non importa se i termini a questo giro siano chiaramente a suo sfavore. Persino Ishizaki ammette (privatamente) che siano un filino ingiusti.

Non lo dice, ha bisogno di vincere o sarà per sempre condannato a essere un perdente nel diario di Wakabayashi, una nota a margine. Ha insegnato lui il calcio a quella carogna! Si merita almeno di avercelo come amico.

Wakabayashi vince la sfida.

Non solo vince, ma vince in modo così assurdamente sfacciato che ora ci cono un paio di ragazzi delle scuole medie completamente terrorizzati da lui.

Le cose non dovevano andare così.

Wakabayashi lo congeda con un gesto della mano, dice di essere stanco e di avere ancora un sacco da fare a casa. Lascia il campetto e i suoi compagni di squadra lo seguono come pulcini dietro a mamma oca.

Non doveva andare così.

È a quel punto che spunta il bambino nuovo.

Incontrare Tsubasa è simile all’essere travolti da un tornado. Non sa bene come sia successo, ma si stanno inerpicando sulla collina. Ishizaki non fa tempo a riprendere fiato che quel pazzo lancia (tecnicamente: scrive un messaggio su un pallone e lo calcia fortissimo contro la casa di Wakabayashi) la sua sfida al portiere.

Corrono giù, incontrano Wakabayashi che accetta, solo che ha un’aria strana, come se non fosse del tutto presente. Come se fosse spaventato.

La sfida procede nel modo stabilito, Tsubasa taglia i difensori riservisti della Shutetsu come burro e quando si trova a tu per tu con il portiere sgancia un bolide imprendibile che Wakabayashi respinge di pugno.

Le cose diventano davvero strane quando un tipo mezzo ubriaco decide di intervenire in modo irregolare da fuori campo con un assist che permette a Tsubasa di segnare, mentre Wakabayashi sbatte contro il palo di faccia. Per un attimo nel campetto scende un silenzio assoluto, Ishizaki guarda la macchia di sangue che si allarga sulla faccia di Genzo, Tsubasa pigola delle scuse. Un secondo dopo Wakabayashi è in piedi e una faccia coperta di sangue non gli impedisce di afferrare il nuovo arrivato per il bavero della camicia, sollevarlo a cinque centimetri dal suolo e scuoterlo come una maracas.

E lanciare la sua di sfida.

Ovviamente.

Mikami prende il suo protetto per un braccio e lo costringe a farsi vedere il brutto taglio sulla fronte.

Ishizaki raggiunge Tsubasa che osserva il portiere allontanarsi con un’espressione indecifrabile.

- Temevo ti picchiasse.

- Anche io.

Ma il bambino non pare spaventato dall’idea. Anzi. Sembra completamente affascinato mentre liscia le pieghe che Wakabayashi gli ha lasciato sulla maglietta.

Ishizaki capisce una cosa con assoluta certezza: Wakabayashi e Tsubasa sono due assoluti psicopatici.

Ma Ishizaki non ha problemi con la follia e questa volta, forse, se la gioca bene potrebbe anche finire per guadagnarci un amico invece che una nemesi. Questa volta farà le cose nel modo giusto.

- Ehi, senti, come hai detto di chiamarti?

- Oh. Oh! Sono Tsubasa Ozora.

- Ciao Tsubasa. Ehi, vuoi unirti alla mia squadra di calcio? Facciamo abbastanza schifo e un aiuto ci farebbe davvero comodo.

 

 


 

NOTES

 

Ho sempre trovato Ishizaki un personaggio affascinante, così come il suo rapporto con Wakabayashi.

Fin dai primi capitoli del manga è chiaro che si conoscano da molto tempo, una tale animosità è spesso giustificata da un’amicizia finita male: Ishizaki dimostra più volte (sia nel Rising Sun sia quando sono bambini) di saper leggere Wakabayashi meglio degli altri senza farsi ingannare dal suo atteggiamento da “duro”. L’atteggiamento infastidito di Ishizaki quando mostra a Tsubasa la casa di Genzo, mi ha portato a estrapolare che le diverse condizioni sociali siano state un fattore importante.

In qualche modo l’amicizia con Tsubasa ha messo la proverbiale pezza.

 

Nota1: quando Wakabayashi guarda la folla dopo la vittoria, sta cercando i suoi genitori. Non ci sono, ovviamente. Lo amano immensamente, ma sono persone molto occupate: gli hanno comprato un coach per questo genere di cose.

Nota2: la versione originale scritta da me in inglese è disponibile qui

 

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Una recensione è la carica di endorfina necessaria al mio cervello visto che fatica a produrla.

  
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