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Autore: Glenda    13/04/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seguire Noam Dolbruk era come stare al passo col vento.

Gli era venuta in mente quella metafora una mattina mentre un turbine di polvere gli aveva annodato i piedi sulla cima del belvedere e si era chiesto come si potesse stupirsi di un paesaggio visto quasi ogni giorno.

Forse la differenza stava proprio in quel sollevarsi di foglie introno alle loro gambe, e al modo in cui il vento le muoveva, e si era rivisto per un attimo quando, bambino, si fermava su simili pensieri.

Noam Dolbruk era leggero come il vento, e altrettanto mutevole, imprevedibile, pericoloso.

Non si poteva semplicemente seguirlo nella sua vita quotidiana: per stargli dietro si doveva provare a seguire i suoi pensieri, ed il vento quell'uomo lo aveva nella testa.

Non sapevi mai cosa avrebbe fatto di nuovo ed imprevisto quel giorno, quale scandalo avrebbe sollevato una sua dichiarazione buttata là come un sasso sull'acqua, con chi si sarebbe seduto a cena quella sera, in quale ricevimento diplomatico avrebbe fatto da intrattenitore o in quale locale fumoso e anonimo lo avrebbe recuperato mentre ballava o beveva in compagnia di sconosciuti che ignoravano la sua faccia.

E poi il suo tempo, che sembrava aver rubato ore a dio, così pieno di cose, di cose, di cose e di idee, di idee, di idee…

Qualcuno voleva uccidere un individuo così?

Niente di più normale.

Un individuo così poteva essere ucciso senza lasciare una traccia in tutto ciò che aveva toccato?

Decisamente no.

Aveva cominciato col domandarsi chi potesse volerlo togliere di mezzo, e col tempo quel pensiero aveva cominciato ad affascinarlo, fino a chiedersi che faccia potesse avere il nemico ideale di uno come Noam Dolbruk. Era un'altra creatura di volatile inconsistenza? O un essere presente, compatto, radicato alla terra?

Ci voleva tutta la sua conquistata fermezza per dirsi che non esistono amici o nemici ideali, e tutto avviene per giri di potere e interesse che sono bel lontani dagli archetipi di bene e male o di luce ed ombra. Ed un pensiero gli frullava per la testa: che la versione più sensata dei fatti fosse che quella minaccia di morte non fosse mai stata formulata, e si trattasse di una mossa pubblicitaria del partito stesso. Altrimenti si sarebbero impegnati di più, ad esempio, affinché la notizia rimanesse nascosta. Invece era circolata, per quanto le alte sfere puntualmente glissassero o smentissero. Potevano aver progettato tutto: prima candidavano un darbrandese nelle loro fila per raccogliere i voti dei progressisti, poi mettevano in giro la storia della minaccia e si affrettavano a mostrarsi protettivi ricavandone un bel guadagno di immagine, e infine tutto si sarebbe sgonfiato in una bolla di sapone. Realistico.

Ma quando si era con Noam era facile distrarsi dalla realtà.

O ritornare ai pensieri che si avevano da bambini.

O a quelli che si hanno la notte quando metà della nostra coscienza è già presa dal sonno.

Noam Dolbruk era un ponte sul tempo.

Viveva la vita come se lo avesse tutto a disposizione, diventava un vecchio, un adulto o un bambino, in barba ad ogni legge cronologica, a seconda delle persone con cui parlava, e confondeva se stesso e gli altri in un incantesimo senza fine.

Ma da questa padronanza del tempo il suo passato era escluso.

Da quel che si sapeva pubblicamente di lui, la sua gioventù era stata la più ordinaria della terra. Vita difficile in una terra difficile, studi, lavori saltuari e poi l’emigrazione nella capitale. Niente altro, e questo era strano, ancora più strano per il fatto che quell’uomo così trasparente e incline alla conversazione pareva sviare l’argomento ogni volta che gli si chiedeva della sua vita a Mòrask.

Perché? C'era qualcosa che non doveva essere saputo? E, se si, come mai nessuno aveva provato a scoprirlo? Eppure, non c’era niente di più facile, in una società in cui tutto è in piazza, che raccogliere informazioni su un singolo individuo, per di più popolare.

Forse non erano fatti suoi.

Ma forse si.

Perché se la minaccia era vera (e non aveva ancora abbastanza elementi per escluderlo) allora c’erano cose che magari avrebbe dovuto sapere.

O invece no, perché lo avrebbero fuorviato, gli avrebbero tolto oggettività.

Accidenti.

E a tutto questo si aggiungeva – ogni giorno – la fastidiosa sensazione di trovarsi incastrato in un compito emotivamente complicato (lo odiava) e oltretutto svalutante per la propria professionalità.

Non si poteva proteggere chi non voleva essere protetto… e poi, davvero, da chi doveva proteggerlo? Ovunque si muovesse, qualunque cosa dicesse, sembrava che mai – nessuno - riuscisse a provare dell'odio reale per lui.

Adrian aveva dovuto imparare a distinguere le sensazioni attorno a sé e ai suoi clienti, sapeva sentire la tensione nell'aria, captare le minacce, gli istinti, i sentimenti negativi… e no, intorno a Noam non ne leggeva nessuno. E lui si tuffava nella vita come se nemmeno il rischio d'essere investito da una macchina, o d'ammalarsi o di rompersi una gamba fossero reali: come se il suo tempo fosse eterno.

Era frustrante.

 

***

 

Erano passate sei settimane dall'inizio di quel lavoro, quando la donna col cappello arrivò a ingarbugliare le cose. O forse a dare un briciolo di senso al suo essere lì, almeno per qualche giorno.

L'episodio di per sé fu impagabile: se Adrian avesse cercato ulteriore conferma che il suo cliente provava un perverso piacere ad essere un bersaglio ambulante, quella scena glielo avrebbe assicurato.

Il palazzo del parlamento era un edificio antico, circondato da un giardino diviso in due aree: una era aperta, con un viale che dava accesso all'ala più antica dell'edificio, l'altra era cintata, e dava su quello che un tempo era stato l'ingresso di servizio mentre adesso fungeva da porta principale. Poiché il palazzo, nella sua ala più antica, era oggetto di visite guidate, nell'area del giardino aperta al pubblico si snodava la fila dei visitatori in attesa alla biglietteria. Il contrasto tra quella folla chiassosa e variopinta e le forze dell'ordine che blindavano la cancellata a pochi metri di distanza era affascinante, o almeno così pensava Adrian mentre, nelle vesti di turista, scrutava i movimenti di Noam. Probabilmente il suo sguardo fu il primo a notate il cane dal pelo fulvo che correva trascinandosi dietro un guinzaglio, e stava andando ad infilarsi tra le sbarre della recinzione. Lo inseguiva una ragazza con un grosso cappello, che lo stava richiamando indietro, ma la bestiola non pareva avere nessuna intenzione di obbedire; era evidente che il grappolo di gente in giacca e cravatta che si scambiava convenevoli era più interessante.

Noam vide il cane correre entusiasta per quel tratto di giardino che gli era stato proibito, si staccò dal crocicchio di colleghi e, con una mossa veloce e inaspettata anche per la bestiola stessa, agguantò il guinzaglio al volo, lo tirò verso di sé, afferrò l’animale per la collottola e se lo caricò in braccio.

La gag durò pochi attimi, poi Noam individuò la padrona che si sbracciava oltre il cancello e si diresse verso di lei. Ecco: se adesso qualcuno avesse voluto sparargli, o se la donna fosse stata una terrorista, non ci sarebbe stato il tempo e il modo di fare niente. Queste cose gli facevano venire i nervi! Avrebbe voluto gridargli qualcosa – spaventarlo, magari - ma non poteva “per contratto”: l'anonimato era la condizione tassativa a cui quell'omino bizzarro accettava protezione.

Maledisse i suoi capricci tra i denti, e si avvicinò di alcuni passi, per tenere sotto controllo la situazione.

La ragazza col cappello era giovane, trent’anni, forse meno. Adrian la osservò e si trovò a pensare contemporaneamente due cose: che non era pericolosa e che non era la padrona del cane. Quando tese la mano verso il guinzaglio che Noam le porgeva, lo fece con affettazione, quasi con studio, non come un gesto abituale, e questo dettaglio spinse Adrian a chiedersi cosa ci facesse una donna nei giardini del palazzo del parlamento con un animale che non era suo.

“La ringrazio davvero tanto!” cinguettò lei “Non so cosa gli è preso, ha dato uno strattone e non sono riuscita a tenerlo… !”

Non stava dicendo la verità: anche il modo in cui si esprimeva sembrava un copione studiato a casa. Ma ovviamente Noam non era attento a quel genere di particolari: era troppo preso nel suo hobbY di piacere alla gente.

“O forse voleva fare amicizia con me!” disse.

“Le piacciono i cani?”

“Gli animali mi piacciono tutti.”

La donna sorrise con grazia: il suo sorriso era appena un po' storto, ma quel piccolo difetto lo rendeva accattivante e lei ne era consapevole. Si passò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, fingendo un imbarazzo che non provava, e intercettò lo sguardo del suo interlocutore alla ricerca di un cenno di complicità.

“Sta flirtando.” pensò Adrian. Perché? Indubbiamente Noam era un uomo di fascino e di certo si trovava in situazioni simili molto spesso, ma un siparietto del genere era troppo assurdo per non essere una messa in scena. E poi lei aveva qualcosa che non lo convinceva: c'era troppa cura in ogni dettaglio della sua figura, dall'abito che indossava al modo in cui aveva truccato il viso, allo smalto sulle unghie e persino al modo in cui muoveva le mani… non era il tipo di persona che era uscita per portare un cane a passeggio: era il tipo di persona che era uscita per un appuntamento importante curandosi però che questo non si notasse troppo.

Avrebbe voluto continuare a studiarla ancora un po’, ma Noam tornò sui suoi passi e lui non poteva perdere tempo: un attimo dopo l'ingresso dei parlamentari, sarebbe entrato da una porta secondaria per trovare un nuovo punto di osservazione sul suo cliente.

Mantenere quel ruolo defilato era la cosa più faticosa che gli fosse mai capitata durante un lavoro: doveva essere sempre di corsa, sempre pronto a cambiare personaggio, e nonostante la sua abilità, c'erano sempre dei punti morti, in cui, per forza di cose, doveva perdere Noam di vista. Non avrebbe dovuto rammaricarsene, era stato lui a volere così, ma situazioni come quella appena verificatasi gli facevano pensare che, se fosse accaduto qualcosa proprio mentre non si trovava pronto ad intervenire, lo avrebbe vissuto come un grosso smacco.

 

***

 

La sera di quella giornata, rivide di nuovo la ragazza col cappello.

Era seduta qualche sedile più indietro, sul treno con cui, nei panni del giovane Yiv, tornava a casa alla stessa ora di Noam.

Ma era ben diversa dalla donna che aveva osservato al mattino; portava un paio di Jeans, una t-shirt anonima, una borsa di pelle sdrucita, e sembrava attenta a tutto ciò che LE accadeva intorno: a un paio d'occhi così vigili non sarebbe sfuggito il volo d'un moscerino, figuriamoci un cane!

Eppure era senz'altro lei, ed anche in quella veste aveva curato ogni minimo dettaglio del proprio aspetto, in un'apparenza di finta trascuratezza. La trovava bella: senza il cappello, sulla sua tesa spiccavano delle ciocche di colori innaturali, una viola, una rossa, una blu, disposte qua e là, tra i suoi capelli, in un ordine solo apparentemente casuale; il suo sguardo era arguto, la fronte testa, accigliata, e c'era qualcosa di provocatorio nel modo in cui scrutava la gente.

“È quella di oggi.” sussurrò a Noam, seduto nel sedile accanto.

“Eh? Di che parli?”

Si davano del tu solo in quel breve tragitto: vicini di casa, forse amici, non potevano mantenere le distanze, e questo metteva Adrian vagamente a disagio.

“Della donna del cane. Quella che ti ha avvicinato stamattina.”

Noam fece per girarsi indietro, ma lui lo fermò con un colpo di gomito.

“Discrezione. Non voglio che si accorga che la osserviamo.”

Noam si strinse nelle spalle, e cercò di individuare nella folla la figura a cui Adrian si riferiva.

“Io non la vedo” constatò.

“Forse non la riconosci. È seduta in fondo, sul sedile centrale. Ha una borsa nera, i capelli colorati.”

“Ma va'! Non è lei.”

“Ne sono sicuro. L'ho guardata bene, e su queste cose è difficile che sbagli. Non mi piace che sia qui. Era già abbastanza improbabile ciò che è accaduto col cane.”

“Cosa c'è di improbabile in un cane che scappa?”

“Il fatto che il cane non fosse suo, per esempio.”

Noam rifletté, perplesso.

“Perché credi che non fosse suo?”

“Tu non hai mai avuto cani, vero?”

“No.”

“Mio padre ne ha avuti fino a cinque. Credimi: non era suo.”

Noam si voltò di nuovo a guardare di sottecchi la ragazza del sedile di fondo.

“Ok, ti credo. Comunque non è lei. Non essere sempre così sospettoso, Adrian.”

Provava sempre uno strano fastidio quando lo chiamava per nome. Pronunciava il suo nome spesso, anche quando non era necessario, come se fosse un modo per dare più forza a ciò che diceva, e lui non sapeva spiegarsi perché, ogni volta, gli succedesse di ripetersi nella testa le lettere di quel nome una ad una, come se non fossero diventate un'abitudine. Adrian: dopo i vent'anni quasi più nessuno lo aveva chiamato così. Forse perché aveva pochi amici, forse perché tra gli amici che aveva il dare importanza ai rispettivi nomi era qualcosa di inusuale. Quando Noam lo chiamava per nome, provava la stessa sensazione di piacere e contemporaneamente di violazione che aveva provato quando una volta era stato chiamato così da una sua insegnante.

Scesero alla loro stazione, e la donna rimase a bordo.

Adrian la seguì con gli occhi, ma non ci fu alcuno sguardo di rimando. Eppure era certo di non essersi sbagliato.

“A domani, signor Dolbruk.” lo salutò sulla porta.

Non c'era nessuno nella strada, eccetto loro.

“Dovremmo darci del tu più spesso, Adrian.” disse Noam, a bruciapelo.

Lui avvertì di nuovo quel fastidio: a volte quell'uomo era così ingenuo da non accorgersi di banalità come l'incidente del cane, altre gli sembrava che leggesse le sue incertezze e gliele sbattesse in faccia a posta.

Finse indifferenza.

“Mi creda, non sono una persona formale. Non uso il pronome di cortesia in rispetto al suo ruolo o ai nostri rapporti, ma per convenzione di lavoro: mi hanno insegnato che serve a mantenere il giusto distacco.”

Noam sembrò colpito da quella risposta. Rimase un attimo in silenzio, come se stesse soppesando la sua affermazione.

“Ok.” prese atto “Lo capisco. A me invece, fin da bambino, hanno sempre insegnato che si usa il pronome di cortesia per una forma di rispetto. Così io, che ero un bambino diligente, ho sempre fatto come mi si diceva. Crescendo, però, ho cominciato a pensare che spesso dietro quel presunto rispetto si nasconde la disuguaglianza. Dando del lei a qualcuno si pone deliberatamente l'interlocutore un gradino sopra di noi, anche senza ce ne sia il motivo. L'altro, di rimando, finisce per fare lo stesso. Alcuni se ne compiacciono. Altri proverebbero disagio se questo non avvenisse. Io, per come sono fatto, penso che non ci sia nessun motivo per cui dovrei mettere qualcuno un gradino sopra di me, o perché dovrebbe mettermici… a meno che non lo voglia fare, appunto, per prendere le distanze. Quindi, se veramente gli uomini sono tutti uguali, il pronome di cortesia si riduce ad avere proprio la funzione che gli attribuisce lei, soltanto quella: allontanare le persone. Fosse per me, darei del tu a tutti!”

Sorrise di quel suo sorriso largo e solare.

C'era poco da fare: era invadente e autoreferenziale, ma non riusciva a non piacergli.

“Se trova gradevole darmi del tu, per me non è un problema.” disse “Quanto a me, preferisco giocare i miei ruoli. Dopotutto me lo ha chiesto lei: per essere discreto non posso essere un uomo solo, e quindi non può pretendere di avere sempre davanti quello che accondiscende alle sue preferenze.”

Abbozzò un sorriso, e girò la chiave nella toppa.

“Passi una buona serata.”

 

***

 

Non fu una buona serata. Se non altro per lui.

Erano circa le dieci quando si accorse che Noam non era più in casa. Il rumore della TV accesa lo aveva ingannato, oppure era stato lui ad assopirsi senza rendersene conto, vinto dalla stanchezza degli ultimi giorni? Non era strano che gli saltasse il grillo di uscire improvvisamente, anche a notte fonda, invitato da questo o da quello, ma gli aveva sempre mandato un messaggio di cortesia, e credeva che la convenzione fosse ormai parte dell’accordo. Accidenti a lui. Entrò nell'appartamento senza provare alcun senso di colpa nel violare la privacy del suo cliente, anzi, ne ricavò per un attimo un lieve piacere che stemperò la rabbia: era stufo di corrergli dietro! Se non ne voleva saperne di essere protetto, doveva aveva il coraggio di dirlo ai suoi colleghi e smettere di trascinarlo in situazioni che danneggiavano la sua professionalità; non gli era mai capitato di fallire in un incarico… perché doveva rovinarsi la carriera per uno che preferiva agire di testa propria?

Eppure non riusciva a liberarsi di quella sensazione di ansia: era stato superficiale, non aveva saputo valutare opportunamente l'uomo che aveva di fronte, quindi, se a quello sciroccato fosse successo qualcosa, sarebbe stato un suo errore.

Per un attimo gli tornarono in mente le parole di suo padre: “Ogni responsabilità cercata al di fuori da te è comunque una scusa.”

Doveva capire dove accidenti fosse andato! Conosceva i luoghi che frequentava con i colleghi, e i due o tre locali dove amava passare le serate, ma non si era mai fatto problemi ad andarci con lui al seguito. Al contrario, una sera erano stati persino a bere insieme.

C'erano informazioni su di lui che gli erano state nascoste? Adrian pensò ad una donna: del resto era poco probabile che Noam non ne avesse una, o più d’una! Eppure non gli era parso un argomento di cui facesse mistero.

“Imbecille!” imprecò alla notte.

Entrò nel piccolo studio e cominciò a rovistare tra i cassetti della scrivania e le carte in disordine… e lì trovò qualcosa di inaspettato. Un biglietto. Per lui. “Sono andato alla Casa Stellata. Posto sicuro.” e un emoticon sorridente. Dio, un emoticon. Ma a che cazzo di gioco pensava di giocare?

Ora si trattava di capire dove e soprattutto cosa fosse quella “Casa Stellata”, ma niente che internet non potesse dirgli, ed era chiaro che Dolbruk non aveva deliberatamente intenzione di nasconderlo, altrimenti non avrebbe lasciato quell'indicazione: voleva solo fare qualcosa, o incontrare qualcuno, senza la sua presenza.

“Una donna.” pensò di nuovo. Gli pareva l'ipotesi più sensata, o forse era l'unica che, ai suoi occhi, potesse giustificare il comportamento di Noam almeno un po'.

 

***

 

Invece una donna la incontrò lui.

Bella, con gli occhi attenti, nessun cappello e nessun cane, i capelli corti variopinti e una macchina fotografica professionale, appostata dietro una finestra del piccolo edificio che sorgeva in corrispondenza del punto che il navigatore gli aveva indicato come “Casa Stellata – centro educativo residenziale per minori.”

Le fu alle spalle senza che lei potesse neppure accorgersene.

“E adesso mi dirai chi sei.” le disse, atono, ma con una severità che aveva imparato ad usare quando voleva mettere in soggezione qualcuno.

Lei sussultò, ma fu solo un istante: inaspettatamente si voltò di scatto e cercò di colpirlo. Adrian fu più veloce, le afferrò un polso, girandole il braccio dietro la schiena.

La ragazza lanciò un grido: “Cacciati le mani in culo, razza di cafone!”

“Senti chi parla. Non è forse una cafonata bella e buona spiare attraverso le finestre?”

La lasciò andare, ma standole abbastanza addosso da impedirle un tentativo di fuga.

“Chi accidenti sei?” proruppe lei fissandolo dritto negli occhi.

“La domanda l'ho fatta prima io. E credo di aver diritto a una risposta, oppure ti porto dritta alla centrale di polizia, dato che è da stamattina che stai pedinando qualcuno.”

L'affermazione la colse sul vivo: probabilmente lo scoprire di essere stata notata aveva smontato la sua sicurezza di sé.

“Non ho fatto nulla di male: sto solo lavorando.” estrasse dalla tasca un tesserino e, quasi che quel gesto le avesse fatto ritrovare la grinta, proclamò: “Karìma Mirèl, giornalista, lavoro per Scheletri nell'armadio.

Adrian soffiò fuori l'aria e sentì la tensione sbollire tutta insieme, quasi svuotandolo.

“Una giornalista.” disse “E io chissà che mi pensavo!”

“E tu, invece,” lo aggredì lei, rinvigorita “chi cazzo… ”

Non fece in tempo a finire la frase che la voce di Noam, comparso alle loro spalle come un fantasma, li fece voltare entrambi.

“Ok. Adesso o sparite tutti e due o entrate. E guai a chi fa qualsiasi cosa che potrebbe farvi apparire fuori posto, perché ve la faccio scontare. Pure a te che non so chi sei. Chiaro?”

Girò le spalle e i due lo seguirono dentro la casa: un'ondata di musica e odori li travolse. La stanza era poco più grande di un'aula di scuola, invasa di bambini di forse dieci anni e di adolescenti brufolosi che ballavano goffamente, gridavano, saltavano, e si lanciavano pezzi di cibo. Vecchie luci natalizie a intermittenza facevano le veci di luci psichedeliche, un giovanotto con lunghi capelli biondi e grossi occhiali manovrava un impianto stereo e un manipolo di adulti sembrava star sorvegliando affinché la baldoria non degenerasse.

“Che cos'è?” fece Karìma, d'istinto.

“Un centro educativo, dice la rete.” rispose Adrian.

Noam ignorò volutamente il loro scambio di battute e andò invece incontro ad una ragazzina vestita di bianco, con grossi denti sporgenti e occhi enormi, che lo guardava con aria offesa.

“Non stai andando via, vero? Hai promesso di stare tutta la sera!”

Lui sorrise.

“E ogni promessa è debito.” poi accennò col capo ad Adrian e la ragazza, con un sorriso che parlava da solo “Ma ho degli amici molto gelosi. O molto impiccioni.”

  
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