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Autore: Ombrone    29/04/2022    3 recensioni
Questa è diventata la mia storia più vista e più seguita. Grazie a tutti! Farò del mio meglio perché i prossimi capitoli siano all'altezza!
Una storia d’amore di 2000 anni fa.
Il giovane patrizio Marco Valerio Corvino torna a Roma nella sua casa dopo aver prestato servizio sul limes in una lontana provincia, troverà qualcosa che non si aspettava e per capire come affrontarla dovrà scoprire il lato nascosto di se stesso.
Il mio è un tentativo, mi direte voi quanto riuscito, di scrivere una storia d’amore, romantica, ma verosimile per la sua epoca, questo significa che al suo interno troverete situazioni, discorsi, atteggiamenti e comportamenti che potrebbero disturbare ed offendere, e che per gli standard del XXI sono inammissibili (o addirittura illegali). I personaggi stessi potrebbero sembrarvi antipatici o immorali o violenti: mi son sforzato di renderli realistici rispetto all’ambientazione e fargli seguire comportamenti considerati normali, morali o addirittura meritori per il primo secolo dopo cristo, un epoca molto lontana e molta diversa dalla nostra.
Commenti e anche critiche benvenuti e incoraggiati. Stimolano a scrivere e servono a migliorare!
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Storico
Capitoli:
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Ci siamo, questo è il capitolo finale. A questo seguirà nei prossimi giorni solo una "nota" storico e letteraria per spiegare un po' di cose. Buona Lettura!

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Il parto fu veloce e, a detta della levatrice e di Senofonte, semplice e senza particolari difficoltà. Nel mi primo pomeriggio, mi venne presentato un maschio, in salute e senza difetti. Lo riconobbi come figlio, prendendolo in braccio e gli diedi il nome di Gaio, come mio padre e mio fratello, poi lo riconsegnai alla nutrice.
Ordinai che per cena tutta la casa festeggiasse e ci fosse buon vino falerno per tutta la servitù, con dolci e carni arrosto in abbondanza. L’astrologo più noto di Baia venne chiamato perché leggesse gli astri e profetizzasse il futuro del mio primogenito. Lunga vita e successo, predisse.
Ultimo necessario passo, in compagnia di zio Aulo, mio suocero e mio genero, sacrificai personalmente agli Dei di fronte all’altare di casa per ringraziarli del loro favore.
Giunia dimostrò la sua forza e il suo vigore, presentandosi a cena con noi quella sera stessa. Ancora visibilmente stanca, ma risplendente di felicità si sedette con noi, anche se si ritirò presto.

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La vita a Baia, si adeguò velocemente al nuovo arrivo e alle ritrovate energie della padrona di casa, riprendemmo velocemente fare la vita sociale che Giunia amava. 
Ricevemmo ospiti e facemmo visita. Era il tipo d vita in cui mia moglie si trovava più a suo aggio, ma a volte la trovavo estremamente vana, se non balorda. Uno stucchevole via vai frenetico un quotidiano gioco di incontri e inviti. Piacevole per passare il tempo, forse, ma che lasciava ben poco a fine giornata.
Avrei preferito una vita più calma e riflessiva, ma non mi lamentavo. Avevo tutto quello che gli Dei possono concedere a un uomo. Una moglie perfetta, un figlio appena nato, una famiglia che amavo, il rispetto dei miei pari. Ben presto tornammo a passare le notti insieme.
Non mi mancava nulla, di quello che rende felice un uomo. Almeno questo poteva sembrare, almeno questo pensavo io stesso. 

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Una notte, venni svegliato dal familiare verso di una civetta, che stava cacciando in giardino subito fuori dalla nostra finestra. Capita l’origine del rumore, richiusi subito gli occhi, contando di riaddormentarmi cullato dal respiro dal Giunia e invece mi ritrovai ben presto di nuovo con gli occhi aperti apparentemente incapace di prendere sonno.
Rimasi immobile a fissare il soffitto, poi mi alzai lentamente, tentando di non disturbarla. Feci un cenno allo schiavo che vegliava sul nostro sonno, subito accorso vedendomi muovere, perché pure lui badasse a non far rumore e mi versai da solo una coppa di acqua. Era una splendida notte, il caldo del giorno era ormai svanito addolcito dalla brezza marina. Giunia dormiva su un fianco. Il respiro regolare, era girata sul fianco, parzialmente rannicchiata, i capelli le coprivano morbidamente il viso.
Capii subito che le possibilità di riprendere il sonno erano veramente poche, era inutile ridistendermi, la soluzione migliore era piuttosto, muovermi, alcuni passi nel silenzio e nella calma della notte, in giardino, mi avrebbero, forse aiutato. Se non altro non avrei disturbato.
Mi infilai una toga e uscii in punta di piedi. Mi affacciai nella stanza accanto: Gaio sembrava tranquillo, appena visibile nella culla, solo una manina paffuta visibile da dove mi trovavo. La sua balia pisolava lì accanto, la mano ancora distesa a sfiorarlo.
Non entrai per non rischiare di svegliarlo e, tramite lui, svegliare il resto della casa e tutta Baia. MI ritirai e finalmente uscii all’aria aperta.
Avevo fatto bene a infilarmi una seconda tunica: la serata era perfetta, ma lì all’aperto era addirittura fresco; I profumi del giardino si mischiavano a quello frizzante del mare.
Con la coda dell’occhio mi accorsi di un movimento e rividi la civetta che mi aveva svegliato, ero sicuro, per qualche ragione, che fosse lei. Appollaiata su un ramo, in attesa di un qualsiasi suono o movimento che indicasse una possibile preda. 
Ora, disturbata dalla mia presenza, mi osservava fissa. Spiccò improvvisamente il volo, in irreale silenzio, planando, senza un singolo battito d’ali, verso la parte inferiore del giardino.
Mi lasciai guidare da lei e la seguii verso il basso, percorrendo uno dei sentieri, ammirando il cielo e il mare che si apriva di fronte a me e sentii delle voci. 
Non dovevo esserci nessuno in giardino a quell’ora, ma sapevo che quella era solo la versione ufficiale. Avevo ascoltato sempre con interesse le confessioni di Filinna sulla vita segreta e nascosta che si svolge nelle nostre case a nostra insaputa. Un intero mondo ci è celato. Piccoli segreti e grandi misteri che la servitù ci tieni ben nascosti, la loro vita lontana dai nostri sguardi.
In giardino non avrebbe dovuto esserci nessuno, appunto, ma immaginavo che, al termine della giornata di lavoro, al riparo dell’oscurità, qualcuno della servitù fosse ancora in giro, non per cattiveria, non per malizia, ma anche solo per godere un attimo di tutta quella bellezza che pensiamo sia riservata solo a noi.
Seguii il suono di quelle voci, curioso. Volevo osservare, di nascosto anch’io, quella vita nascosta, da cui ero escluso. Poi sentii la risata. Non potevo non riconoscerla. L’avrei riconosciuta ovunque e sempre. Era Filinna.
Che ci faceva a quell’ora, in quella parte del giardino? Non nascondo quello che pensai in un primo momento e neppure l’improvvisa fitta di stupida gelosia che provai. A quell’ora in quel posto era di certo un uomo. Cosa altro poteva essere? 
Inspirai l’aria fresca, espirai. Non era quello che volevo? Non era forse giusto? Non era quello che io stesso l’avevo invitata a fare? Perché non avrebbe dovuto?
Deglutii, mi girai per tornare indietro, ma invece i miei piedi mi portarono avanti e mi avvicinai in silenzio. Riparato da un albero, mi affacciai osservando dall’altro il piccolo spiazzo da cui avevo sentito ridere.
Filinna era su una delle panchine di pietra, di fronte a lei, sedute una vicina all’altra, strette e avvolte nella stessa stola per proteggersi dalla brezza marina, c’erano Sabra e Tullia, l’ancella di mia moglie; la ascoltavano con rapita intenzione, gli occhi fissi su di lei.
Sentivo il suono della voce di Filinna, il tono melodico e pieno che la distingueva, ero troppo lontano per distinguere più di qualche parola, non avevo, comunque, problemi a riconoscere cosa stesse dicendo. Conoscevo quei versi a memoria quanto lei. Il ritmo e la musica inconfondibili.

Ipse peregrina ferrugine clarus et ostro
spicula torquebat Lycio Gortynia cornu;
aureus ex umeris erat arcus et aurea vati
cassida; tum croceam chlamydemque sinusque crepantis
carbaseos fulvo in nodum collegerat auro,
pictus acu tunicas et barbara tegmina crurum.

Adorno di porpora esotica scura, egli
andava scagliando frecce di Gòrtina con arco Licio.
Sulla spalla del vate, d’oro era l’arco, d’oro
l’elmo; la clàmide crocea e le fruscianti pieghe
di càrbaso aveva raccolte con fulvo fermaglio d’oro;
tunica e barbare gambiere eran trapunte con ago.


Il libro undicesimo dell’Eneide: quando, durante la battaglia, la vergine guerriera Camilla insegue il troiano Cloreo volendo conquistarne le armi dorate e cade vittima delle frecce di Arunte

telum ex insidiis cum tandem tempore capto
concitat et superos Arruns sic voce precatur:

Ed ecco infine, colto il momento, in agguato, Arrunte
incocca uno strale e questa preghiera rivolge ai celesti:


Vidi Sabra e Tullia sporgersi in avanti ascoltando i versi della preghiera di Arunte, seguire con la fantasia la freccia scoccata e sussultare visibilmente al colpo mortale, come se fossero loro ad essere trafitte di sorpresa.

Ergo ut missa manu sonitum dedit hasta per auras,
convertere animos acris oculosque tulere
cuncti ad reginam Volsci. Nihil ipsa neque aurae
nec sonitus memor aut venientis ab aethere teli,
hasta sub exsertam donec periata papillam
haesit virgineumque alte bibit acta cruorem.

Come l’asta scagliata diede ronzio per l’aria,
alla regina i Volsci tutti volsero in ansia
la mente e lo sguardo. Ma essa per nulla dell’aereo
ronzio s’avvide, o del colpo diretto dall’alto,
fin che l’asta giungendo s’infisse sotto la nuda
mammella e a fondo entrata, ne bevve il sangue di vergine
.

Rimasero in silenzio, senza commentare, con gli occhi sbarrati ad ascoltare il racconto della morte dell’eroina:

Illa manu moriens telum trahit, ossa sed inter
ferreus ad costas alto stat volnere mucro;
labitur exsanguis, labuntur frigida leto
lumina, purpureus quondam color ora reliquit.

Essa morente vuoi togliere il dardo, ma fra le coste, 
nell’ossa, con squarcio profondo, sta la ferrea punta.
Esangue si spegne; si spengono vitrei nella morte
gli occhi e il roseo colore d’un tempo le lascia il volto.


Seguii con loro la morte dello stesso Arunte ucciso per vendetta su ordine della dea Diana, la fine della battaglia, la notizia della morte di Camilla portata a Turno dalla sua amica e compagnia Acca ed Enea e i Troiani che rimangono vittoriosi sul campo.

continuoque ineant pugnas et proelia temptent,
ni roseus fessos iam gurgite Phoebus Hibero
tinguat equos noctemque die labente reducat.
Considunt castris ante urbem et moenia vallant.

E subito, tentando la sorte, verrebbero all’armi, se Febo 
roseo nel mare Ibero non bagnasse gli stanchi
cavalli e al cadere del giorno non riportasse la notte.
Pongono tende davanti la città e cingono il campo.


Calò il silenzio, quando Filinna finì di recitare. Vidi una mano di Tullia sollevarsi al viso come ad asciugare delle lacrime.
Rimasero tutte e tre immobili in silenzio. Fu Filinna a romperlo, le parole incomprensibili, ma con un tono di voce più lieto a rallegrare le amiche, che si scossero e sorrisero.
Parlarono un attimo, poi si alzarono tutte e tre, Sabra e Tullia si accostarono a Filinna, avvolgendo anche lei nella stola e, così strette da barcollare rischiando di inciampare l’una sull’altra, si avviarono verso la casa, sparendo alla mia vista. Sentii di nuovo, un’ultima volta, le loro risate.

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Scesi, raggiungendo lo spazio che avevano occupato. Le siepi lo riparavano dal vento e, se nascondevano la vista del mare, non potevano celare lo splendore del cielo stellato.
Mi chinai allungando la mano a toccare la pietra su cui si era appena seduta Filinna, ancora si sentiva il suo tepore. Mi sedetti al suo posto.
Sentii improvvisamente un enorme vuoto, dentro di me. Così enorme e profondo da diventare quasi un dolore fisico e reale.
Avrei voluto essere lì, vicino a lei, a Filinna, mentre recitava. Avrei voluto avere lei vicino a me adesso. Solo questo, solo lei, avrebbe potuto riempire quel pozzo oscuro che sentivo nel petto.
Capii di essere stato colpito da una freccia ben letale di quella di Arunte. Di più, capii da quanto a lungo mi fossi illuso e avessi mentito a me stesso. Perché non era successo oggi. Era da anni che andavo in giro con un’asta conficcata nel cuore e lo negavo, nascondendolo.
Cupido era un Dio crudele. Che sciocco a non tenerne conto.
Filinna, era quello che bramava il mio cuore.
La desideravo, certo, la desideravo, molto, ma non era solo quello: mi sarebbe bastato averla seduta li accanto me, anche in silenzio, per essere felice e se mi avesse sorriso sarebbe stato un dono degli Dei 
Chiusi gli occhi, coprendomi il volto con le mani.
Che pazzia, per chi aveva tutto, desiderare qualcosa.
Pensai a Giunia, addormentata nel nostro letto. La moglie perfetta, la madre di mio figlio. La desideravo? Sì Era bella? Sì. Era intelligente? Sì. Colta, spiritosa, piacevole, mi dava tutto quello che un uomo poteva volere.
Mi amava così come una moglie deve amare un marito
Era la donna perfetta per l’uomo che avrei dovuto essere, ma non per l’uomo che ero.
Sentivo quello che bruciava in petto e no: non era Giunia. Potevo volerle bene, sarei arrivato ad amarla, come si ama una moglie, ne sarei stato capace, ma la passione che sentivo era un’altra. Avrei voluto Filinna, lì accanto a me.
Tornai ad aprire gli occhi puntandoli al cielo sopra di me, feci due respiri profondi, riempendomi i polmoni di aria fresca e pura.
Sarebbe stato facilissimo soddisfare il mio desiderio, ma era solo apparenza. Sapevo che, in verità era impossibile.
Bastava mi alzassi e tornassi alla villa e mandassi qualcuno a chiamarla.
Filinna sarebbe venuta. Se le avessi detto di sedersi accanto a me si sarebbe seduta, le avessi detto di recitare avrebbe recitato, se l’avessi baciata mi avrebbe ricambiato… se le avessi detto di ridire avrebbe riso. Avrebbe detto sì padrone ed avrebbe ubbidito 
Non avrebbe potuto fare altro, che volesse o che non volesse. 
Non aveva scelta e non la aveva mai avuta… Anzi… non era vero, come dimenticarlo, aveva scelto: era scappata, l’avevamo ritrovata e l’avevamo fatta frustare.
Che avrebbe dovuto fare? Si era abituata. Come aveva detto Sabra, era fortunata: ero giovane, di bell’aspetto ed ero generoso, magari anche gentile, tollerante. Ma se fossi stato vecchio, brutto e volgare non sarebbe realmente cambiato nulla. Filinna aveva colto i lati positivi, accettato i regali e i piccoli vantaggi e cercato un momento di felicità in quello che la sorte le offriva, le imponeva.
La mente mi tornò a una cosa che mi aveva raccontato: il primo bacio che aveva dato. Era lo schiavo, ricordavo, di qualche venditore di papiri… e se ne era andato in provincia, dove proprio non mi tornava alla memoria.
Un garzone aveva avuto più di quello che avevo io, la certezza di aver ricevuto un bacio sincero. 
Se, per pazzia, le avessi confessato i miei sentimenti cosa avrei visto nei suoi occhi? Li avrebbe nascosti come faceva spesso per nascondere sé stessa sotto quelle lunghe ciglia. Mi avrebbe preso per un folle e avrebbe taciuto, per paura, per convenienza. La prima notte che avevamo passato insieme, me lo ricordavo bene, era stata chiara e cosciente della sua posizione, “sono solo una schiava e tutto il mio destino è in mano agli Dei.” E a quello che decidevo io.
Come avrebbe potuto essere diverso? Ero stato ben crudele verso la persona che adesso pretendevo di amare, le mie azioni e i miei desideri le avevano portato malasorte: le punizioni, l’esilio a Nomentum, i maltrattamenti, la disgrazia a suo padre e a tutta la sua famiglia. Le avevo negato persino la gioia di avere un  figlio, che l’amasse e le potesse essere di conforto e aiuto negli anni.
Tutto mentre pensavo di essere gentile, attendo e considerato, quando le mie erano solo parole, sorrisi vuoti e qualche regalo e qualche gingillo. 
Cosa mi potevo aspettare in cambio? Nulla.
E cos’è la passione non ricambiata? Una maledizione per entrambi e spesso diventa crudeltà.
Se volevo bene a lei, come dicevo, l’unica cosa giusta era liberarla da tutto ciò, non imporle la mia pazzia. Non portarle altra sfortuna e altre afflizioni.
Non era un caso, che mi fossi trovato lì in quel momento, la mano degli Dei era chiara. Dovevo, decisi, fare un sacrificio ad Atena l’indomani, per ringraziarla della sua guida. Perché malgrado fosse doloroso quanto estrarsi una freccia dalle carni, avevo capito molto. Γνῶϑι σεαυτόν, conosci te stesso. Come diceva mio padre

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Tornammo a Roma alla fine del caldo estivo.  
Le ultime settimane di permanenza a Baia le avevo vissute in maniera strana, alla luce della nuova consapevolezza dei miei sentimenti. Mi trovavo ampiamente a disagio e quindi per una volta partire per Roma, lasciando la bellezza del golfo di Napoli fu quasi un sollievo.
 A Roma, mi trovai immediatamente preso dagli affari del governo, tanto che persino Giunia si lamentò per la mia assenza e i miei impegni, anche se non altro potei condividere la sua ira con suo padre, che lei riteneva addirittura più colpevole di me. In effetti devo ammettere che non aveva tutto i torti il tempo che mi trovavo a poter dedicare alla famiglia era assai ridotto e ne pativo anch’io.
Fu alla metà di settembre che ricevetti la visita di Gaio Valerio Numantino. Che, come potete facilmente capire dal nome, era un liberto di mio padre.
Era solo un liberto, ma, come vi spiegherò, comunque un liberto di riguardo e quindi organizzai per riceverlo alla fine della salutatio matutina, nel tablinium, in privato con del buon vino e un piccolo rinfresco.
Era stato uno schiavo di fiducia di mio padre, originario della Spagna, dalla zona di Numanzia da cui il suo cognome da libero. Si era occupato per anni della vendita del grano prodotto nelle nostre proprietà e mio padre lo aveva affrancato poco prima della sua morte.
Era stata una mossa fortunata e benedetta dagli Dei. Numantino era una persona molto capace e affidatagli la gestione delle vendite del nostro grano era stato capace di farci arricchire e di arricchirsi ancora di più lui stesso. Era diventato ormai uno dei più importanti mercanti di generi alimentari di Roma, con una flotta di mercantili che spaziava per tutto il mediterraneo ed era uno dei principali finanziatori del grande porto commerciale che l’Imperatore stava facendo costruire alla foce del Tevere.
Malgrado i suoi affari con noi fossero ormai solo una piccola parte dei suoi commerci, manteneva con lealtà i suoi obblighi di fedeltà e gratitudine nei nostri confronti, veniva con costanza a renderci omaggio e in più di una occasione, nel periodo oscuro che era seguito alla caduta in disgrazia di mio padre, aveva dimostrato nei fatti la sua amicizia e supporto.
Aveva sposato una donna intelligente e capace che gli aveva dato due figli maschi. Il primo, Manio, di poco più anziano di me, era nell’esercito ed era primo centurione nella XVI Gallica sul confine del Reno, il secondo invece, Prisco, più giovane di me, lo aiutava negli affari ed era con lui al nostro incontro.
La conversazione tra di noi come era prevedibile cominciò dalle sue congratulazioni per la nascita del mio primogenito, sulla salute di mia moglie e su quella della mia signora madre, la sua amata padrona.
Ricambiai le sue cortesie informandomi da parte mia sulla salute della moglie, del figlio legionario (e di quali imprese avesse compiuto dal nostro ultimo incontro) e su Prisco, se finalmente avesse trovato una sposa, per donargli dei nipoti.
“Sono qui per questo invero, Padrone.” Fu la sorprendente risposta.
Incuriosito da cosa mai potessi c’entrare io con il matrimonio del figlio lo invitai ad andare avanti.
Numantino si mosse un po’ a disagio sullo scranno, con l’età la sua figura si era fatta corpulenta e vedevo le mani grassocce ricche di anelli agitarsi nervosamente.
Anche Prisco, che invece era un giovane uomo dal fisico atletico e con un viso dall’espressione sincera, sembrò innervosirsi, lo vidi sedersi, teso, in punta al suo scranno stringendo le labbra preoccupato.
“Alcune settimane fa mi sono recato a Baia, in compagnia di mio figlio Prisco, qui accanto, volevo andare a trovare il mio vecchio amico Cleone, Padrone e non lo vedevo da molto tempo.” Fece una pausa. “E lì, mio figlio ha avuto modo di conoscere la figlia di Cleone, ed innamorarsene.”
Non rimasi neppure meravigliato, quando aveva iniziato a parlare avevo avuto come una premonizione di cosa avrebbe detto. E ora che era che quelle parole erano state pronunciate, mi sentivo improvvisamente immerso in una strana calma eterea. Così risposi.
“Filinna. Certo, una fanciulla amabile come poche.”
Numantino assentì vigorosamente, mentre Prisco rimaneva teso come un arco.
“Sì, padrone, bella, intelligente, colta e pure onesta… Infatti, padrone un fiore. E il mio figliolo come poteva resistere dall’invaghirsene?” Bevette un sorso e riprese subito a parlare. “Vorrebbe farla sua moglie, sarebbe di sicuro una sposa adatta a lui. Poi, è figlia di un vecchio amico. Io sono qui a parlarvene e chiedervi il permesso… ovviamente lei è una vostra schiava e… so… so che vi era molto cara.” Disse, pudicamente senza approfondire, visto che parlava di quella che voleva come futura nuora, ma era chiarissimo.
“Hai ragione e hai fatto bene.” Mi rivolsi al figlio. “Filinna ti ha dato segni di favore? Ricambia?”
“Filinna è un fanciulla cas..,” si interruppe, stava per dire casta, credo, e si era reso conto all’ultimo momento di quanto sarebbe stato inappropriato, “modesta ed educata.” Si corresse.” Riservata, ma penso di esserle simpatico e di poter essere… adatto a lei, padrone. Se solo voi voleste concedermi…” Lo guardavo, si vedeva che ci teneva, era un bel ragazzo, il viso dai tratti regolari, con capelli folti e occhi intelligenti. Il padre era ricco, e lui, da quello che sapevo, sembrava all’altezza di gestire quello che avrebbe ereditato, se non di accrescerlo. Un ottimo partito. Una scelta perfetta per Filinna. Lo interruppi. 
“Certo, che te lo concedo.” Lo vidi bloccato a metà frase, come ricadere all’improvviso a terra, mentre capiva il mio fatidico assenso, e il suo viso si aprì un sorriso.
“Io vi ringrazio!” Iniziò, la voce piena di quella gioia che solo un uomo innamorato può provare, lo fermai.
“Certo che te lo concedo.” Ripetei, la mia calma era scomparsa e adesso dovevo impegnarmi per nascondere il mio turbamento, mi rivolsi al padre. “Vai pure dal nostro Cleone a chiedere la mano di sua figlia. Penso ne sarà felice. E tu,” tornai a lui, nascondendomi dietro un sorriso, “corteggiala come si deve. Lo sai quanto è colta vero?” Lo vidi assentire. “Dovrai sforzarti se vuoi scriverle versi che lei possa apprezzare.” Risi, seguito dal padre e dal figlio.
Alzai la mia coppa e bevemmo insieme.
“Padrone,” fece Numantino, “ovviamente vi ripagherò pienamente il prezzo della ragazza.”
Scossi la testa, rifiutando.
“Non c’è bisogno. Ci mancherebbe. Sarà affrancata, con gioia da parte mia. Sono contento per te e per Cleone e anche per lei. Sarà il mio regalo per gli sposi. Anzi, contribuirò alla dote, ché Filinna non sia un peso per voi e abbia di suo.”
Vidi che la mia offerta faceva gioire il padre quasi quanto il pensiero di Filinna faceva gioire il figlio.
Feci un cenno a uno schiavo ordinando che portassero il miglior vino per brindare a quella bella notizia.
Sentivo il bisogno di bere, perché io non riuscivo a gioire.

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Un mese dopo ricevetti notizie direttamente da Cleone.
Era una serata di tranquilla quiete domestica. Mi trovavo con Giunia, mia madre e zio Aulo nel triclinio. La cena era ormai finita e ci stavamo trattenendo l’uno con l’altro per passare il tempo.
Giunia ci leggeva a voce alta dei versi di Orazio, mentre mia madre filava e io e zio la seguivamo mentre apprezzavamo del buon vino, quando Eryx ci portò alcune lettere appena arrivate.
C’era un messaggio per Giunia, che era immancabilmente un invito a una qualche festa nei giorni seguenti, e due lettere per me, una di Lucio, che mi scriveva dalla Mesia dove aveva avuto un incarico e, appunto, quella di Cleone, che aprii per ultima.
Mi aspettavo francamente una dei soliti piccoli capolavori letterari di Cleone: la notizia del fidanzamento, la descrizione della sua gioia, esagerati ringraziamenti per la mia bontà e generosità, il tutto condito dai riferimenti più dotti che si potessero immaginare. Come minimo, la penna di Cleone avrebbe trasformato Prisco Numantino in un novello Cadmo e Filinna in una semidivina Armonia destinati ad un felice amore eterno, celebrati da tutti gli Dei Olimpici per una volta concordi e festanti.
Invece venni brutalmente smentito fin dall’incipit.
Cleone era talmente sconvolto che la sua stessa scrittura sembrava balbettare. Non solo il suo bello stile era perso, addirittura in tutto il messaggio non vi era neppure un paragone mitologico, ma lo stesso filo logico del discorso si perdeva ed era difficile ricostruirlo. 
Tra sensi del suo dispiacere, tra disperate richieste di perdono per l’offesa recatami e affrante assicurazioni che una giusta severa punizione era stata già inflitta, si traeva in sintesi che Filinna, a quanto pareva, aveva rifiutato la corte di Prisco e non accettava di sposarsi.
La sua angoscia era chiara che potessi prendere come una offesa personale il comportamento della figlia, in fin dei conti aveva rifiutato un pretendente che io avevo approvato. 
Non sapevo veramente cosa pensare e come giudicare la faccenda. Cosa era passato per la mente a Filinna? Cosa aveva visto di così spiacevole in Prisco Numatino, di cui non mi ero accorto? Ero talmente sconcertato che la mia reazione venne notata e mi venne chiesto cosa stesse succedendo. Minimizzai, o meglio era di sé stessa realmente una cosa talmente minima da non essere certo degna di attenzione, dissi che erano solo notizie di Cleone (ottenendo uno sguardo gelido di mia madre) e invece lessi ad alta voce le notizie che dava Lucio.

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Era, doveva essere, una cosa secondaria. Un inconveniente domestico se non piccola rilevanza, Numantino era solo un liberto, ma un liberto da considerare, di certo non importante.
Ma ovviamente io avevo difficoltà a considerarla tale e la mia preoccupazione non era certo quella delle reazioni di Numantino. Il mio cervello si arrovellava nel tentare di capire cosa fosse successo cosa mai potesse passare per la testa di Filinna, cosa mai poteva aver combinato quel ragazzo per essersi fatto rifiutare? Oppure era solo pazzia femminile?
Che fare? Ero tentato di riscrivere a Cleone, ma cosa mi avrebbe potuto rispondermi? Scrivere a Filinna stessa? Pensai persino questo, malgrado sarebbe stato darle una rilevanza assolutamente fuori luogo e oltretutto cosa avrei risolto?
Avrei dovuto pazientare e dare le cose il loro giusto peso e avrei capito e avuto le risposte a tempo debito.
Fallii. 
Quando durante una sessione in Senato la mia mente divagò talmente che sbagliai una delle formule di prassi, facendomi riprendere dal decano che presiedeva la seduta, mi divenne chiaro che dovevo togliermi questa spina.
Trovai una scusa, Gaio che ritornava a Roma e io che gli andavo incontro, e partii per Baia in perfetta solitudine, con solo due schiavi per le necessità fondamentali.

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Il viaggio non fu tremendo come avevo temuto e anzi venni accolto al mio arrivo a Baia da un bel sole che riusciva a far sentire il suo tepore persino in quella giornata invernale.
Arrivato a casa, non feci neppure in tempo a togliermi il mantello che mi trovai di fronte un Cleone affranto e soprattutto visibilmente preoccupato per il mio arrivo non annunciato.
I suoi saluti per quanto tentassero di essere cordiali non celavano la sua apprensione e, come mio solito, mi concessi di essere diretto e sincero nei suoi confronti.
“Sono qui per Filinna, Cleone.” Dissi e mi dispiacque vederlo impallidire.
“Padrone, vi prego, perdonatemi per quest’altro pensiero che la mia famiglia vi provoca.” Mi sedetti, con un sospiro, mentre mi sfilavano i calzari e lui continuò. “Abbiate misericordia, vi prego, non punitela per l’offesa che vi ha recato. L’ho già punita io, vi assicuro. È stata già battuta come si deve.”
“Non ho dubbi Cleone, non ho dubbi che tu abbia fatto quello che deve fare un genitore e ti assicuro non voglio aggiungere altre punizioni. Non sono neppure arrabbiato, amico mio. Voglio solo capire cosa è successo. Capisci? Perché? Cosa mai ha fatto rifiutare a Filinna una offerta simile? Cosa mai aveva il figlio di Numantino che non andava?”
“Non lo so padrone, non lo so. Era un gran bel ragazzo: perfetto.”
“E allora? Cosa mai le è passato per la testa?” 
“Si è rifiutata padrone. Scusatela e scusate me perché è colpa mia. Colpa mia, che sono stato così pazzo da crescerla come l’ho cresciuta, Padrone. Filinna non ha colpe, sono io che le ho insegnato come sognare di volare, ma non le ho potuto dare le ali per poterlo fare. Chi potrebbe? Ma non è colpa sua padrone. È colpa mia se è una creatura infelice e senza pace. Non voleva sposarsi… ho fatto di tutto per convincerla, con le buone e anche con le cattive, ma niente…. Alla fine, quel povero ragazzo si è arreso. Mi ha chiesto di lasciarla stare ed è partito.”
“Ma ti ha detto perché?” Lo vidi scuotere la sua di testa e non rispondermi. “Mandami tua figlia, Cleone. Famici parlare.”

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Filinna mi fece tanto aspettare che per un attimo temetti che, come anni prima, avesse riprovato a scappare, ma alfine mi raggiunse in giardino dove stavo passeggiando per calmare il mio di nervosismo. 
Cleone la accompagnava e vidi la sua evidente riluttanza quando gli dissi di lasciarci soli. Lanciò un ultimo enigmatico sguardo alla figlia, pieno di preoccupazione, rimprovero e rimorso, poi chinò il capo, si voltò e se ne andò.
Rimanemmo io e lei. Mi sedetti. 
Silenzio.
“FIlinna, hai rifiutato Prisco Numantino.” Dissi, una semplice affermazione.
“Sì, padrone. Rispose poi dopo un attimo di pausa sembrò riscuotersi. “Scusatemi, Padrone. Vi prego di perdonarmi. Non era mia intenzione offendervi, o mettere in dubbio la vostra scelta. Vi prego di perdonarmi se vi ho messo in difficoltà. Ho sbagliato.”
Calò di nuovo il silenzio. 
Era un discorsetto evidentemente preparato, pensato con anticipo, che non diceva niente di quello che avrei voluto sapere.
Filinna era ferma di fronte a me. Mani congiunte sul davanti, capo chino, evitava i miei occhi escluse breve occhiate per studiare le reazioni, per poi, rapidissima tornare a celare le sue emozioni.
Era un atteggiamento che conoscevo bene da parte sua. A volte lo faceva per timidezza, ma in quel caso ci metteva sempre un pizzico di deliziosa malizia, gli occhi che dardeggiavano su è giù, mentre sulle labbra aleggiava un sorriso. A volte, come in questo caso, era solo un modo per nascondersi e questa era sempre stata una cosa che avevo odiato con tutto me stesso e, adesso, dopo aver capito la portata dei miei sentimenti mi era finalmente chiaro il perché. Come si può sopportare che chi ami si nasconda a te?
Glielo dissi.
“Non sai quanto odio quando ti comporti così. Ti sto parlando Filinna e vorrei che tu facessi altrettanto con me.”
Questo bastò a farle alzare gli occhi a fissarmi
“Cosa, Padrone, cosa volete che faccia?”
“Parlarmi, Filinna.” Quasi esplosi. “Non dire solo sì padrone, no padrone. Scusate padrone. Perché lo hai rifiutato? Per quali ragioni?” Non rispose, testarda, tornando a nascondere i suoi pensieri e i suoi occhi. Ispirai, tentando di recuperare il controllo, mi sforzai di calmarmi. “Non sono arrabbiato, FIlinna, lo giuro. Non voglio neppure punirti o chissà cosa. Voglio solo sapere.” 
Raddrizzai la testa, schiena dritta, poggiai le mani sulle gambe, ma ancora non rispose. 
“Perché Filinna? Ti ha trattato male?” Sondai “Qualcosa non andava? Non ti piaceva forse? Vabbene anche questo, ma dimmi! Cosa devo fare con te, Filinna? Non vuoi forse trovare un marito? Io vorrei solo tu stessi bene, per Giove Statore. Cosa mai vuoi dalla vita?”
Mi guardò, negli occhi lessi una disperazione che non capivo, ma continuò a tacere. Fino a quando sarei riuscito a mantenere una calma apparente che non sentivo?
“Lo capisci che era un ottimo partito vero?” La vidi assentire. E continuai. “Era un cittadino romano, Filinna. Avresti sposato un Cittadino Romano, i tuoi figli sarebbero stati Cittadini Romani! Sono anche una famiglia assai ricca. Saresti stata libera, avresti avuto tu schiavi al tuo servizio. Ancelle per pettinarti i capelli e aiutarti in qualsiasi tuo bisogno.” Riiniziò ad evitare il mio sguardo mentre continuavo a incalzare. “Prisco ha tutte le possibilità di entrare nell’ordine dei cavalieri e pure presto. Se è capace, coi soldi del padre, potrebbe persino ambire a una carica pubblica ed entrare in senato. Avrebbe il mio appoggio. Cosa credi? Specie… specie se fosse tuo marito. Guardami in faccia!” Le ordinai brusco e ottenni di essere ubbidito “Filinna, lo capisci? Moglie di un senatore! Torneresti nella mia casa come invitata, per banchettare. Non serviresti il vino, te lo servirebbero. Mangeremo insieme allo stesso tavolo. Guardami! Lo capisci vero?” Di nuovo abbassò lo sguardo spingendomi un altro passo verso l’esasperazione. “Si può ancora recuperare tutto, Filinna. Posso parlare con il padre. Lo farò volentieri per te, e Prisco tornerà, ne sono sicuro. Solo un folle non tornerebbe da te.” A quelle parole lei rialzò gli occhi a guardarmi. “Cosa ha fatto di così grave quell’uomo? Cosa non ti convince? Cosa ha di sbagliato?”
“Non ha fatto nulla di sbagliato.” Rispose finalmente. Aprendo finalmente bocca. Finalmente dicendo qualcosa. “Lui non ha nulla di sbagliato.”
“E allora??” Non riuscii a trattenermi dall’alzare la voce, ma come era possibile trattenersi a qual punto? Mi morsi le labbra per non aggiungere altro e non spaventarla e riuscii ad avere una risposta e una spiegazione… se era possibile considerarla tale.
“Io non voglio lasciar…” Sì interruppe. “Lasciare tutti quelli che amo. Non voglio andare via di qui. Vi prego, padrone, non allontanatemi. Non mandatemi via.” Era vero, lo sconforto nella sua voce era sincero, non avevo dubbi che sentiva quello che stava dicendo. “Vi prego.” Aggiunse di nuovo.
Ci impiegai un attimo per assorbire le sue parole e quasi sorrisi rendendomi conto di quello che avevo detto.
“Ma cosa vai a pensare? Ma che sciocchezza Filinna! Non essere stupida! Ti preoccupi per questo? Ma cosa pensi, che sarebbe un problema liberare tuo padre e la tua famiglia? Se è questa la tua preoccupazione, dimenticala. Non lascerai nessuno. Li libererò insieme a te. Come puoi dubitare che non lo avrei fatto? Senza contare che tuo suocero avrebbe abbastanza ricchezze per riscattare due volte tutti voi e sistemarvi comodamente! Che stupidaggine! Ma come puoi pensarlo?”
Non rispondeva
“Non essere stupida, Filinna, questo si può sistemare. Fammi parlare con il padre di Prisco Numantino.
La sua reazione mi prese di sorpresa.
“Non sono io stupida!” Rispose drizzando schiena e testa. La voce irata e una furia improvvisa negli occhi. “Non sono io stupida!” Ripeté, lasciandomi a bocca aperta. “Siete voi stupido! Siete Senatore, siete uomo, ma sei stupido!! Perché sei così stupido? Come fai a non capire? Se mi sposo, se vado via di qua… come ti rivedo…” Si impappinò. “Come vi rived…” Smise di parlare, la rabbia sparita improvvisamente come del fumo disperso da una folata di vento e subito sostituita dall’apprensione.
“Scusate padrone.” Alzò le mani di fronte a lei come a proteggersi. “Io non volevo… io volevo dire questo padrone. Scusate, non vi arrabbiate, non volevo dirlo.” Fece un passo indietro, si voltò come a scappare via. 
Quando non si fermò nemmeno al mio richiamo, la inseguii e la raggiunsi afferrandola per un braccio e costringendola a voltarsi.
“Cosa hai detto Filinna?”
Lei continuava a chiedere scusa, sull’orlo delle lacrime e quando mi prese a sua volta il braccio con cui la tenevo ferma, mi accorsi che la mia stretta le stava facendo male. La lasciai e le presi le spalle con delicatezza ma con fermezza.
“Cosa hai detto?” ripetei.
“Io non volevo padrone… non volevo insultarvi.”
“Cosa hai detto?”
“Non volevo insultarvi!”
“No, cosa hai detto, perché non vuoi andare via?”
“Non volevo. Padrone. Scusate io non volevo… non volevo osare, non volevo dirlo.”
“Filinna perché?” Non rispondeva riprecipitata nel mutismo. La vedevo aprire e chiudere la bocca senza emettere un suono.
Le lasciai le spalle, le presi il viso con entrambe le mani e la baciai. Quando mi staccai la tenni ferma fissandola negli occhi.
“Perché?... Per favore.”
Finalmente mi guardava, finalmente ci guardavamo. Nei suoi occhi c’era dolore, paura, ma anche una folle speranza. Credo vedesse lo stesso nei miei.
Finalmente ripeté le fatidiche parole.
“Non voglio lasciarti. Se me ne vado come ti rivedo?”
Le lasciai il viso permettendole di chinarlo, di nascondersi di nuovo, ma senza esitazione la abbracciai stringendomela contro. Il suo viso affondato sul mio petto, il mio nei suoi capelli. Sentivo il suo respiro spezzato, respiravo il suo profumo. 
Quando alzai lo sguardo, dopo un tempo infinito, vidi a poca di distanza da noi uno degli schiavi del giardino che ci fissava gli occhi sbarrati dalla meraviglia. Quando i nostri occhi si incrociarono, lasciò cadere l’attrezzo che aveva in mano e scappò via, terrorizzato dall’aver visto qualcosa che non doveva.
Non me ne importava.
“Anch’io non voglio lasciarti, Filinna.” Confessai e la sciolsi dall’abbraccio. Rimanemmo a un passo di distanza l’uno dall’altra, alzai le mani ad accarezzarle una guancia bagnata. Le presi una mano e la portai a sedersi accanto a me su una delle panchine in pietra.
“Dite sul serio?” Chiese a voce bassa.
“Sì, mi è molto chiaro adesso. Filinna. Non è molto che l’ho capito, sono stupido, hai ragione tu. Ma l’ho capito quanto sei importante per me.”
Si girò verso di me: “È vero? Vero veramente?” quando annuii, rispose, con la voce piena di orgoglio. “Io l’ho sempre saputo. Non so neppure da quando, ma sono sempre stata innamorata di voi.”
“Sai,” riuscii a dire, “cose simili dovresti dirle chiamandomi Marco.” La vide deglutire come ad ingoiare delle lacrime, ma questo riuscì a farla sorridere.
“Il giorno più felice della mia vita” continuò “fu quando a Roma mi offristi di leggere le tue poesie di Catullo. Ricordi?”
“Certo che ricordo. Eri venuto ad accendere le lucerne. Ed eri così bella.”
“Ero così felice, che ti ricordavi di me. Che mi avevi parlato. Che mi permettevi di leggere i tuoi volumi. Mi lasciavi i biglietti.”
“Poi ti baciai e poi tu scappasti. E io ti feci del male. Come puoi voler bene a chi ti ha fatto male?”
“Ero stupida anch’io, Marco… avevo paura. Non sapevo cosa fare…. È complicato da spiegare.” Tacque. “Ma poi era bellissimo, il periodo più bello, prima che tu partissi.”
“Avrei voluto capirlo prima. Avrei voluto dirtelo prima.”
“Io non volevo, Marco. Non volevo dirtelo. Io come potevo…? Cosa avresti pensato? Non potevo neppure pensarlo. Io non voglio niente Marco, lo giuro, ma non mi mandare via.”
I nostri sguardi non si erano mai incrociati così sinceri. Le strinsi, forte, la mano.
“È una stupidaggine, lo sai?” Non ribatté e continuai. “Dovresti sposarti, saresti libera. Avresti figli, saresti felice. Qui non hai niente. Cosa posso puoi avere qui? È la cosa migliore per te.” Potevo dirlo, perché era la verità.
“Non voglio, non sarei felice… come potrei? Tu pure non saresti felice. Marco, non voglio niente. Non me lo chiedere ancora.” Si interruppe di nuovo. “Sono stupida forse, ma io non voglio lasciarti.”
“Sono stupido anch’io allora, come hai detto tu.” Non sapevo bene cosa avremmo potuto fare, ci avrei pensato, ma dopo. In quel momento ero felice, felice come non ero mai stato. Adesso avevo tutto quello che un uomo può desiderare.
Rimanemmo seduti, senza parlare, tenendoci la mano. Guardando il mare di inverno profondo e scuro come il vino.

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Qui finisce questa storia, pur avendoli creati io non so come andrà la vita di Marco e Filinna da qui in poi. 
Di loro, fossero reali, sapremmo abbastanza poco. 
Di una schiava come Filinna al massimo ci potrebbe rimanere il ricordo di una lapide con iscritto il suo nome, dedicata, chissà, da un figlio addolorato o forse proprio da Marco in lacrime.
Su di lui, visto il suo rango potrebbe rimanere di più. Una, o forse più di una, citazione nei fasti consolari. L’elenco delle magistrature ricoperte, delle iscrizioni marmoree in ricordo di qualche statua o fontana da lui donata a qualche città, o forse targhe commemorative in cui viene lodato il suo saggio governo di qualche provincia imperiale, la Macedonia o magari la Bitinia.
Il resto dovrebbe farlo la nostra fantasia e, certo, potrei andare avanti a scrivere. Ma in verità preferisco lasciarli qui, Marco e Filinna, in un momento di felicità e speranza e non andare oltre, perché temo che difficilmente troverei un lieto fine.
La vita non era semplice nel I° secolo dopo Cristo. Era breve e a volte crudele.
Filinna potrebbe morire di una qualsiasi malattia, delle tante che mietevano senza speranza di cura, o durante un parto, sempre un rischio a quei tempi, se lui deciderà di avere un figlio da lei.
Marco, nella sua elevata posizione, non deve badare solo alla sorte e alle malattie o alle guerre, corre addirittura maggiori rischi: potrebbe cadere vittima come già suo padre di intrighi e gelosie. Alla morte di Claudio, dovrà sopravvivere al regno di Nerone, quel Lucio Domizio che, ospite al suo matrimonio, aveva definito un ragazzo timido, ma intelligente e sensibile. Passato anche Nerone potrebbe facilmente scegliere la fazione sbagliata durante il famigerato anno dei 4 imperatori ed essere eliminato in qualche epurazione.
Se pur dovessero sopravvivere in salute, Giunia potrebbe al fine rendersi conto che quella del marito non è solo una infatuazione per una schiava graziosa e come reagirebbe? Non era atipico per un Patrizio romano avere amanti o concubine, specie se di rango inferiore come Filinna. Ma Giunia, se vedesse in Filinna un vera rivale per il cuore del marito, manterrebbe la sua distaccata superiorità o si vendicherebbe con la furia e la malizia che solo una matrona romana sa scatenare? Marco avrebbe la forza di proteggerla e mantenere le sue promesse?
Sono tante, troppe, le cose che potrebbero andare male.
O invece mi potrei sbagliare. Potrebbe andare tutto bene. Potrebbero essere felici.
Ci sono dei versi, in greco, che sembrerebbero scritti da un Marco più vecchio e più saggio e ancora innamorato della sua Filinna:

Πρόκριτός εστι, Φίλιννα, τεὴ ῥυτὶς ἢ ὀπὸς ἥβης, πάσης. ἱμείρω δ’ ἀμφὶς ἔχειν παλάμαις
μᾶλλον ἐγὼ σέο μῆλα καρηβαρέοντα κορύμβοις, ἢ μαζὸν νεαρῆς ὄρθιον ἡλικίης.
σὸν γὰρ ἔτι φθινόπωρον ὑπέρτερον εἴαρος ἄλλης, χεῖμα σὸν ἀλλοτρίου θερμότερον θέρεος.

Amo di più le tue rughe, Filinna, 
che lo splendore della giovinezza.
Mi piace sentire nella mano
il tuo seno, che piega già pesante
le sue punte, più del seno diritto
d’una ragazza. Il tuo autunno è migliore
della sua primavera ed il tuo inverno
è più caldo della sua estate.


Mi piace sognarli così, anni dopo che li abbiamo lasciati. 
Li ha scritti lui, per lei, una vena di poesia ritrovata dopo tanto tempo. E noi siamo lì a guardarli, mentre lui glieli recita.
Invecchiati, ma ancora innamorati e ancora insieme. Seduti su quella stessa panchina, mano nella mano, ad osservare il mare profondo e scuro come il vino.
Felici.

FINE

   
 
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