Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: Nariko_koi    08/05/2022    2 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nota d'apertura: anche questo capitolo arriva con un certo anticipo, banalmente perché ho già scritto il resto della storia fino all'epilogo, pertanto sento il bisogno di togliermi il pensiero della pubblicazione. Detto ciò vi auguro una buona lettura, noi ci rivediamo alla fine del capitolo per le note.
 

Capitolo X
Crateri sanguinanti
 
Al mattino Kiku ha la gola secca. Quando apre gli occhi non si alza subito, resta per qualche secondo ad osservare il muro, il cuscino accanto al suo profuma di dopobarba. Ha sognato una casa in collina. Non ricorda molto di ciò che ha visto, sa solo che nel sogno aspettava che qualcosa o qualcuno giungesse da lui.
Si mette a sedere sul materasso, la schiena e il collo scricchiolano. Mentre si passa una mano sui capelli folti e pungenti, nota che Yao gli ha lasciato un cambio di vestiti accuratamente piegati sulla sedia della scrivania. Così si scosta le coperte dal grembo e dondola verso il bagno, a metà strada si allunga per prendere un paio di mutande. Il lavandino sputacchia un getto di acqua torbida, che dopo qualche secondo ritorna limpida. Le setole dello spazzolino gli fanno arricciare le spalle quando toccano il punto della gengiva che una settimana prima ospitava ancora un molare. Dopo aver sputato il dentifricio si passa un pollice sul muso, e solo allora si accorge del ragazzo che lo fissa al di là dello specchio. Vede la scia violacea sotto l’occhio destro, la fronte scoperta, le labbra asciutte, il viso scavato. Vorrebbe chiedere a quell’immagine: tu che cosa sei?
Forse a ventisette anni si è troppo vecchi per certe domande.
I pantaloni sono troppo lunghi, lo obbligano a svoltare l’orlo, così come le maniche della camicia. Non c’è la cintura e mancano anche le bretelle, quindi il rischio di restare in mutande può essere scongiurato solo infilando le dita trai passanti della cintura e tirando verso l’alto. Alle scarpe sono state sfilate le stringhe e la suola gli salta sul tallone a ogni passo. Solleva il gilet verde oliva per rigirarselo tra le mani, e senza rifletterci troppo decide di assecondare l’impulso che lo porta ad affondare il naso nella lana, ad inspirare l’odore di incenso e carta imprigionato in mezzo alle trame. In quel momento sa di starsi arrendendo, di non volersi più nascondere alla vergogna. In quei giorni di erranza tra le macerie ha capito una cosa che suo padre non ha mai osato dirgli, e che forse si è sempre nascosta dietro alle parole di sua madre: deludere se stessi è inevitabile. Tuttavia, si ritrova a riflettere, uno può sempre scegliere quali pezzi staccare da sé e quali mantenere.
Da fuori arriva la voce di Yao. Kiku accosta il viso alla finestra sul cortile, quel tanto che basta per vedere la sua figura slanciata mentre china il capo per salutare la signora Meng. Poi Yao si volta e poggiandosi sulla stampella si cala su una panchina di pietra che dà le spalle alla finestra. Da quella angolazione Kiku riesce a vedere che ha tirato fuori una busta dalla giacca, lo osserva mentre strappa il bordo con un coltellino. Tira fuori il contenuto con un gesto secco e si puntella con i gomiti sulle cosce. C’è un momento di stallo durante il quale Yao resta immobile a leggere, poi qualcosa in lui sembra deformarsi, le braccia si muovono con spasmi nervosi mentre straccia il foglio. Kiku lo osserva mentre si passa una mano sul muso in un gesto aggressivo, si pianta un pugno sulla fronte. Le spalle gli tremano.
Kiku si passa una mano dietro al collo. Qualche volta chi riceve una cattiva notizia vuole restare solo, o almeno questo è quello che ha avuto modo di osservare nel breve arco della sua vita. Guardare la schiena di Yao vibrare come un tamburo, tuttavia, gli conferma che lui deve essere stato da solo per molto, troppo tempo. Così prima di uscire afferra un cappello di lana che ha trovato abbandonato in fondo all’armadio, poi abbandona la stanza e scende le scale, l’ingresso è vuoto. La porta sul retro è aperta, da lì Kiku può vedere il blocco del dorso di Yao sulla panchina. È lì, sulla parte di sé che non può vedere, che Yao condensa tutta la sua vita, è lì che Kiku può leggere le cronache degli anni che li hanno separati.
«Posso sedermi?»
Yao scosta la mano dagli occhi per guardarlo.
«Ma che ti sei messo in testa?» Si riferisce al cappello.
Si sposta per fargli spazio sulla lastra di pietra. Kiku siede con le mani giunte. «Avevo freddo.»
Yao smette di guardarlo per prendere il pacchetto di sigarette, mentre se ne porta una alle labbra torna a guardare di fronte a sé. «Ricresceranno.»
Kiku contrae la mascella, il modo in cui Yao smaschera ogni sua intenzione lo fa sentire impotente, gli conferma che la sua impenetrabilità, il suo unico strumento di difesa, di fronte a lui è crivellato di brecce. Gli offre una sigaretta, Kiku lascia che gli si avvicini per accenderla. «Sei uscito presto.»
«Dovevo vedere il prete. Siamo stati alla casa sul fiume.»
Yao prende un tiro, poi si fruga in tasca. Gli allunga i frammenti della lettera. Non dice niente, ma Kiku sa che ha capito che si è seduto con lui per questo. «Che cos’è?»
«Un telegramma, l’ho ritirato prima che partissimo.»
Kiku gli lancia un ultimo sguardo, poi inizia a ricomporre i quattro brandelli che Yao gli ha passato. Non presta attenzione alla data in alto, sorvola le formule di apertura e i dettagli come il numero del battaglione e il grado del soggetto, il foglio sembra sparire e lasciare intatte solo tre parole.
Wang Li. Disperso.
«Sai, non è detto che sia… potrebbe solo essersi perso, magari è prigioniero–
Yao sbuffa con un ghigno aspro. «Allora mi conviene sperare che sia finito su una mina – sbircia in direzione di Kiku – Scusa. Senti, lascia stare. Non so perché te l’ho mostrato.»
Invece lo sai, vorrebbe dirgli Kiku. Ha tirato fuori il telegramma per lo stesso motivo per cui i bambini fanno vedere le ginocchia scorticate ai fratelli, perché i cerotti non fanno effetto se te li metti da solo. Comunque, Kiku preferisce non insistere su questo.
«Era sposato?»
Yao si gratta il naso. «Doveva sposarsi a maggio. Ti ricordi Nunu?»
Kiku aggrotta la fronte. «Li Nunu? Stai scherzando?»
Yao sorride. «No, affatto. Hanno smosso un polverone.»
Kiku sorride di rimando, scuote la testa. Poi torna serio e prende un altro tiro dalla sigaretta. «E tuo padre come l’ha presa?»
Yao guarda la ghiaia. «Non ne era entusiasta, ma si è arreso quasi subito. Penso che non volesse sgretolare quei pochi rapporti ancora in piedi.»
Kiku lo guarda in silenzio, ha paura di porre la prossima domanda, ma sa anche che se non approfitterà di questo momento per avvicinarsi a Yao allora non potrà riprovarci. «E Mei?»
Yao serra la mandibola, abbassa lo sguardo. «Si è sposata appena ne ha avuto l’età. Ha scelto lei di farlo.»
«Era quello che voleva?»
«Ovviamente no. Ma non avrebbe mai fatto niente contro il volere della famiglia. Ha avuto due bambini, ora vive coi miei a Chongqing perché due anni fa il vecchio ha avuto un infarto e ci è rimasto secco.»
«Suo marito? – Yao annuisce – Mio dio, mi dispiace.»
«A me no, quel vecchio depravato meritava anche di peggio.»
Questa dichiarazione non lo sorprende, ma Kiku si chiede se Yao non stia indirizzando parte di questo odio anche a se stesso. China il capo. «E tu?»
«Io cosa?»
«Ti sei sposato?»
Yao solleva un sopracciglio nella sua direzione, come se fosse una domanda tanto assurda. «Ci sono andato vicino un paio di volte. E comunque non sono un tipo da matrimonio.»
«Beh, è strano. Ho sempre pensato che volessi dei figli, non so perché.»
Yao scrolla la sigaretta con l’indice, sospiri di cenere danzano nell’aria. «Non sarei un buon padre.»
Kiku sa che è una scusa. Dal primo momento in cui gli ha rivolto lo sguardo, da dietro la finestra della stanza degli ospiti immersa nella sera, ha percepito due cose di Yao di cui ha avuto conferma giorno per giorno. La prima è che Yao è nato per insegnare, nel senso più spartano del termine. Yao è naturalmente portato per trasmettere se stesso agli altri, per offrire un sostegno, una guida. La seconda è che Yao sa amare.
«Tutto qui?»
Yao sbuffa un fiotto grigio, si gratta la fronte, poi alza una mano come a dire: d’accordo, ecco come stanno le cose. «Senti, alcuni sono convinti che far nascere un bambino sia il migliore dei doni, e che passare il cognome a un altro essere vivente elevi i loro spiriti, eccetera eccetera. Beh, per me sono stronzate. Dopo quello che ho visto sono convinto che dare alla luce un bambino in un mondo come questo sia pura crudeltà, e nient’altro. – scuote la testa – Insomma. Non sono stato in grado neanche di proteggere mia sorella, figurati un figlio tutto mio.»
«Non avresti potuto fare niente.»
«Invece sì, Kiku. Avrei potuto, ma non ho fatto nulla. La compagnia sulla quale mio padre ha investito è fallita, rischiavamo di finire a chiedere l’elemosina. Ci servivano quei soldi.»
Kiku abbassa lo sguardo sulle proprie dita, ha le cuticole gonfie e scorticate. Non può giudicarlo. Non lui, che nei momenti della sua vita in cui avrebbe potuto portare rispetto al suo cuore ha preferito restare fermo in un angolo e non toccare niente. La domanda di Yao lo fa sussultare.
«E tu sei sposato?»
«No – si affretta a rispondere, avverte un lieve tepore alle guance – No, voglio dire… mio padre voleva presentarmi una ragazza qualora fossi tornato dal fronte, ma a parte questo…»
La frase muore nel silenzio. Yao ascolta con la sigaretta tra le labbra e gli occhi sulla ghiaia, annuisce. «E sei stato con altri uomini? Dopo che… beh, hai capito.»
Kiku si schiarisce la voce, gli esce un soffio spezzato. «No.»
«Sei un pessimo bugiardo.»
Kiku chiude gli occhi e respira, accetta di essere stato sbugiardato da Yao per l’ennesima volta. «È successo solo una volta. Non c’è stato niente.»
«Guarda che non ti devi giustificare.»
«Certo, lo so.»
Era successo a San Francisco, con un collega universitario, e davvero non c’era stato niente, solo il desiderio di sentirsi di nuovo sottomessi, di replicare il senso di vertigine di tanti anni prima. Solo adesso Kiku è in grado di ammettere a se stesso che quella volta ha cercato di cucire la faccia di Yao su un altro uomo. Ma Alfred non era Yao, e per quanto potesse apprezzare la sua compagnia non lo sarebbe mai stato. Alfred era un ragazzone semplice, a cui piacevano le cose semplici, che conversava di cose semplici e con la testa piena di poche cose semplici. Alfred non gli avrebbe mai aperto il suo cuore, non si sarebbe mischiato a lui, non avrebbe mai cercato un riflesso che potesse completarlo, perché Alfred era già completo.
Keeku, pronunciava il suo nome arrotondando le vocali, e che cosa significa?
Vuol dire “crisantemo”, Alfred-san.
Che razza di nome è “crisantemo”? È il fiore dei morti!
Il significato dei fiori è diverso in Giappone, Alfred-san.
E scommetto che vi vestite di bianco ai funerali, come no.
«Toglimi una curiosità – Yao ha gettato la sigaretta, allunga un piede per schiacciare il mozzicone sotto al tacco – com’è che sei al fronte solo da due mesi?»
Kiku si morde il labro. «Perché fino a gennaio sono stato a San Francisco. Frequentavo l’università lì e sono tornato per il compleanno di mio padre.»
«Fammi indovinare. Ingegneria?»
«Storia dell’arte.»
Yao si volta di scatto, Kiku sorride. «Mio padre non mi avrebbe mai pagato una scuola per artisti, così siamo scesi a patti. Forse per questo ho fatto quel che ho fatto.» Yao aggrotta la fronte in attesa che continui, Kiku distoglie lo sguardo da lui. «Ho un soffio al cuore, in teoria non ero adatto all’arruolamento. Quando sono tornato ho chiesto a mio padre di occuparsene. Sono stato un folle.»
Ovviamente la laurea in storia dell’arte non era la sola cosa a farlo sentire in difetto di fronte a suo padre. L’idea che lui sapesse, che vedesse in lui un figlio storto, deforme in qualche modo, lo perseguitava. Magari se fosse tornato da soldato le cose tra loro sarebbero cambiate, magari tornare a casa in una bara sarebbe stato meglio che sopportare ancora quello sguardo.
«Sei un cretino.»
«Lo so.»
«Dico davvero, sei…»
«Lo so.»
Yao sbuffa, scuote la testa come se stesse pensando: ma perché continuo a incontrare questo deficiente? A Kiku viene da sorridere. D’un tratto ripensa a qualcosa che voleva chiedergli.
«Che mi dici di Honghui?»
Yao sembra adombrarsi. «Che vuoi sapere?»
Kiku alza le spalle. «Non lo so, ha avuto figli?»
«Uh… - Yao guarda lo spazio trai suoi piedi, si schiarisce la voce – aveva due bambine.»
Kiku schiude le labbra. Lo guarda in silenzio per un po’, muove la bocca a vuoto prima di riuscire a dire: «Quando è successo?»
Yao sospira, la fronte poggiata al palmo della mano. «Due anni fa. Era di stanza a Nanchino.»
Kiku guarda le sue spalle curve, l’espressione stanca del volto, le rughe sulla fronte, si rende conto di come è cambiata la sua percezione di Yao nell’arco di un paio di giorni. Credeva di vedere un uomo, una volta un principe solitario, aspro, indurito dal mondo, snaturato nella forma di un bruto, mentre ora di fronte a lui c’è un ammasso di cicatrici, di crateri sanguinanti. Adesso, dietro tutto quel livore, Kiku riesce a scovare un trentenne che sembra avere mille anni, ognuno dei quali costellato di rapporti falliti, di strappi della carne.
Kiku ha abbastanza coraggio per allungare una mano sulla sua, ma Yao lo scansa. Quel gesto secco gli brucia la gola, lo umilia. Da un lato Kiku sa di meritare il suo rancore, sa che non potrà essere perdonato dall’oggi al domani. Dall’altro la rabbia lo scuote dalla pancia fino alle dita. Vorrebbe alzarsi e urlargli addosso: domani potrei morire, razza d’idiota, potremmo morire entrambi proprio in questo momento, potremmo non appartenerci mai più, quindi per l’amor di Dio, perdonami e basta.
«Senti, devo chiederti una cosa.»
Kiku teme la prossima domanda, ma annuisce comunque. «Ti ascolto.»
Yao contrae la mascella, stringe tra loro le mani intrecciate. «Almeno per un momento, c’è stato qualcosa di vero da parte tua?»
«Ogni cosa – Kiku risponde senza staccargli gli occhi di dosso – era tutto vero per me.»
Yao non risponde, si passa una mano sul muso.
«Lo so che non vuoi credermi.»
«Non è questo.»
«Invece sì, Yao. Ma non te ne faccio una colpa.»
Passano una manciata di minuti nell’arco dei quali Kiku sceglie di godersi il silenzio tra loro, la sigaretta gli si spegne tra le dita. Poi Yao si alza in piedi battendosi i palmi sulle ginocchia, borbotta: «Bene. È ora che vada.»
Kiku solleva il capo. «Dove?»
«Al prete serve aiuto per riparare il furgoncino. Non so se ci hai fatto caso, ne teneva uno nel cortile.»
«D’accordo, ma hai detto “che vada”. Io che faccio?»
«Quello che vuoi.»
«Che significa “quello che vuoi”?»
«Che non sei più mio ostaggio. Ti lascio andare.»
Mentre guarda dal basso l’ombra delle foglie sul volto ambrato di Yao, Kiku la certezza si avergli riservato il peggiore dei giudizi, quando la notte scorsa si è ritrovato a pensare che stesse solo cercando di salvarsi la pelle. Ora, dopo aver ricostruito il mosaico del tempo senza di lui, Kiku si rende conto di quanto sia stato meschino a pensarlo, perché la verità è che a Yao non importa proprio nulla di vivere o morire. Oramai la sua vita è quella dei gechi che strisciano fuori dalle setole della scopa, che si trascinano sulla polvere con la coda mozzata, che vanno avanti senza alcun gancio, senza niente che li leghi alla vita, vanno avanti e basta.
Kiku non aspetta di vedere la sua schiena allontanarsi, si alza in piedi. Sa che sta per umiliarsi, ma non gli importa. È disposto anche a lustrargli gli stivali, pur di ricevere un momento in più sotto al suo sguardo. «Vengo con te. Voglio sapere come stanno le ragazze.»
Yao annuisce e fa per girare i tacchi, ma Kiku lo ferma: «Aspetta, non vorrai farmi uscire così.» dice, infilando un pollice nel passante della cintura e tirando verso l’esterno.
Yao annuisce «Ti prendo la cintura.»
«E le stringhe. Per favore.»
 
Circa un quarto d’ora più tardi Kiku si sta allacciando le scarpe nel salottino della pensione, e quando avverte un mormorio indistinto provenire da una stanza adiacente si alza in piedi per capire se possa essere qualcosa di cui preoccuparsi. Lascia scivolare un’anta quanto basta per accorgersi che nella piccola stanza l’unica presente è la signora Meng, in piedi di fronte a un altarino con due candele. Kiku si sente un ladro a osservarla in quel momento riservato, mentre china il capo di fronte a una foto, ciuffi scomposti le danzano sugli occhi. Poi il legno del pavimento scricchiola sotto al peso di Kiku, e così la signora Meng ha un sussulto che per poco non le fa cadere l’incenso dalle mani. Kiku sussulta a sua volta, e dopo un breve attimo di smarrimento le mostra un inchino immenso.
«Buongiorno, Men tài-tai. Non volevo interromperla, mi scusi.»
La signora Meng resta in silenzio per un po’, poi fa un cenno col capo come a volerlo assecondare. Kiku getta uno sguardo in direzione dell’altare, entro una cornice di legno un uomo sulla trentina sorride in primo piano, il cappello da sergente ben calato sulla fronte.
«È suo marito?» Subito dopo aver fatto quella domanda Kiku si accorge di stare entrando a piedi nudi in un campo minato, senza un bastone e per di più correndo alla cieca.
La signora Meng annuisce. «È morto a Nanchino.»
Per un lungo momento nessuno dei due dice niente, poi Kiku si azzarda a chiedere: «avevate figli?»
La signora Meng scuote la testa, un sorriso triste le compare sulle labbra. «Io sono sterile – una pausa, nell’arco della quale Kiku sa di aver innescato una conversazione che non può sostenere – Sa, lui… molti uomini non ti guardano neanche più se scoprono che non puoi avere figli. Lui era diverso.»
Kiku la ascolta in silenzio, lancia un ultimo sguardo al quadro perfettamente ordinato dell’altare, le candele, le statuine, l’incenso fumante, la foto al centro. «Suo marito è morto per proteggere la persona che amava. È morto col suo volto negli occhi. Io penso che sia il modo più nobile di lasciare questo pianeta, e anche il più dolce.»
La signora Meng resta immobile per qualche secondo, poi il suo sguardo si sposta, le mani le si muovono sui pantaloni in cerca di qualcosa da fare, qualcosa da afferrare. Kiku le viene in soccorso salutandola.
 
Per strada nota che Yao deambula con meno fatica rispetto a due giorni prima. Si fermano presso un piccolo bazar, uno di quei negozi che vendono di tutto, con la vetrina bucherellata. Tra un foro di proiettile e l’altro si estende un reticolo bianco di vetro scheggiato. Di fronte all’ingresso un ometto anziano, canuto, spazza via la polvere dal marciapiede, come se questo bastasse a rendere il negozio più accogliente. Quando li vede arrivare apre loro la porta con una mano macchiata. Al bancone una signora della stessa età del vecchio strizza gli occhi dietro alle lenti di due occhiali che le allargano la parte superiore del viso fino a farla sembrare un lemure, una di quelle scimmiette con le orbite che occupano quasi tutta la faccia. La signora sorride in risposta ai loro saluti, e quando Yao le chiede degli attrezzi da meccanico lei mostra un orecchio dal lobo flaccido, per far intendere che l’udito ormai lascia a desiderare. Così Yao ripete più forte e aggiunge alla richiesta un pacchetto di sigarette, poi, quando la signora si allontana si rivolge a Kiku da sopra la spalla. «Ti serve qualcosa?»
Kiku accenna a un sorriso, boccheggia a vuoto. «Non ho niente con cui pagare.»
«Prendi quello che ti serve. In qualche modo pareggeremo i conti.»
Kiku pondera la prossima mossa con attenzione, poi, appena la signora ritorna e sparge gli attrezzi sul bancone, si sporge per dirle: «Mi scusi, nǎi-nai, ho una richiesta un po’ insolita – la vecchia inclina il capo per mostrare l’orecchio e Kiku si sforza di alzare il volume – avrebbe della colla forte e del colorante oro? Oh, e anche due pennelli piccoli.»
La signora si gratta il mento rugoso, poi solleva un indice come a chiedere a Kiku di pazientare e si allontana una seconda volta. Yao solleva un sopracciglio. «Che ci devi fare?»
«Te lo mostro più tardi.»
Intanto il signore che li ha accolti all’ingresso è entrato per prendere posto dietro al bancone, la signora ritorna con tutto ciò che Kiku ha chiesto. Mentre Yao allunga le banconote al vecchio, lei finisce di imbustare la spesa, e prima che possano salutarli asserisce, in direzione di Kiku: «Hai un accento davvero strano, xiǎohuozi. Sei di queste parti?»
A quella domanda il corpo di Kiku viene avvolto dal gelo. Prima ancora che possa dire qualsiasi cosa Yao interviene in suo soccorso.
«È mio cugino, è di Xi’an. È venuto a prendermi dopo che mi hanno congedato.»
La nonnina guarda prima Yao, poi lui, poi di nuovo Yao, poi di nuovo lui. «Oh, capisco. E tu non sei stato arruolato?»
«Ho un soffio al cuore.»
La signora solleva le sopracciglia e annuisce, un minuto dopo hanno già il negozio alle spalle.
 
Quando scorgono il profilo squadrato della chiesa non sono neanche le otto del mattino. Aggirano il perimetro dell’edificio e si dirigono in cortile, e lì, in mezzo alla ghiaia, il busto del prete emerge da un fosso nel terreno. Quando li sente arrivare si porta una mano a tetto sugli occhi e stropiccia il naso, accanto a lui compare la testa ramata dell’altro europeo che ha visto il giorno prima. Dietro di loro, ai bordi del fosso che stanno scavando, due fagotti bianchi sono tenuti insieme da una corda. Yao posa la cassetta degli attrezzi a terra, fa per prendere il terzo badile, abbandonato contro un muro della chiesa, ma Kiku lo precede. Poco dopo i fagotti vengono calati dentro al fosso, e il prete, vestito solo con una maglia bianca e pantaloni da lavoro, recita dei versi con i grani bruni del rosario attorcigliati alle dita.
«Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del Suo nome. Se dovessi camminare per una valle oscura non temerei alcun male, perché Tu sei con me. Il Tuo bastone e il Tuo vincastro mi danno sicurezza. – Mentre il prete ancora parla l’altro ragazzo fa un cenno a Kiku con la testa, ed entrambi affondano le pale nella montagna di terra alle loro spalle per gettarla sui fagotti. Anche il prete afferra un badile, e non smette di parlare neanche per lo sforzo delle braccia. – Davanti a me Tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici. Cospargi di olio il mio capo, il mio calice trabocca. – in poco tempo il fosso si riempie, il prete batte il dorso della pala sulla terra umida – Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore, per lunghissimi anni.»
Ludwig e il ragazzino pronunciano in coro un “amen”. Mentre copriva quei poveri resti, Kiku ha avvertito una fitta lì dove la sera prima il tagliacarte gli ha solcato la pelle. Osserva il cumulo di terra con il mento sul dorso delle mani, le mani sul manico della pala. Ripensa a quello che ha detto Yao la sera prima. Se anche fosse andato fino in fondo, se avesse deciso di sventrarsi come un pesce, quei due corpi non si sarebbero ridestati, Lan e sua madre non si sarebbero alzate per rivestirsi e carezzare la testa alle bambine. Quella penitenza non avrebbe portato nessun frutto, sarebbe rimasto un atto autopunitivo senza alcun rimedio concreto. Stringe più forte il manico della pala. Oggi ha deciso di seppellire con loro il resto della sua vergogna, il bagaglio che gli pesava sulle spalle da anni. Si dice che d’ora in avanti sarà fedele solo a se stesso.
Si fermano a bere un bicchiere d’acqua e dopo la breve sosta in cucina, Kiku scopre che il ragazzo si chiama Feliciano e che Ludwig, anni prima, l’aveva assunto come cuoco. In inglese non è proprio sciolto, e ogni tanto Kiku deve ripetersi più volte prima che lui capisca il senso di quello che gli dice. Ha poco più di vent’anni e un’aria ingenua che lo fa sembrare ancora più giovane. Più avanti, mentre stringe un bullone da sotto il furgone, Feliciano racconta che due anni prima un razzo vagante ha colpito un negozio a pochi metri da lui, e che perciò è sordo da un orecchio.
Mentre provano a far partire il veicolo una voce da pulcino li raggiunge alle spalle, Kiku non ha il tempo di voltarsi che un paio di braccia corte e sottili gli circondano le ginocchia. Quando abbassa gli occhi su Meihua lo stomaco gli diventa di piombo. La bambina alza le braccia e saltella sul posto, come a chiedergli di essere presa in braccio. Così Kiku la accontenta, quasi stesse assecondando un istinto naturale che lo porta a stringere un piccolo corpo in quel modo.
Kiku si volta verso la porticina sul cortile, nota che altre paia d’occhi li stanno fissando da dietro gli stipiti. Di queste paia fanno parte anche gli occhi di Mo, che si regge su una stampella della sua misura. Ha lo sguardo da adulta, lo sguardo di chi assiste inerte al dispiegarsi degli eventi. Kiku le sorride, ma non si sorprende del fatto che Mo non ricambi.
«Hai visto, Mo? È tornato Caporale.»
«Non Caporale. Kiku.» la corregge lui, e spera che non suoi come un rimprovero. Ma Meihua gli mostra i dentini bianchi e Kiku sente il petto scaldarsi.
Il sole è già alto sopra le loro teste, così Ludwig ordina una pausa. Feliciano sparisce dietro la porta della cucina per preparare una minestra di verdure. Lui e Yao si puliscono le mani unte con un canovaccio, in poco tempo la scolaresca che li fissava da dietro gli stipiti si raduna attorno ai nuovi venuti a formare un capannello. Poco dopo siedono scomodi attorno al tavolo della cucina, i commensali sono troppi rispetto allo spazio a disposizione ed anche allargare i gomiti per impugnare i cucchiai risulta tedioso. Quando la tavola è al completo Ludwig affetta il pane e lo distribuisce ai presenti, Kiku e Yao s’interrompono con le posate a mezz’aria quando il resto dei commensali si prendono per mano per iniziare a recitare una preghiera. Si guardano disorientati per qualche istante, poi decidono di partecipare al rituale in silenzio.
Al termine del pranzo Kiku torna ad armeggiare col motore del furgone. Mentre osserva la pancia del veicolo Meihua si accovaccia accanto alle sue gambe, di tanto in tanto sbircia sotto il pianale per verificare che Kiku la segua durante i suoi monologhi. Racconta che sogna di vedere Wuhan e tutte le altre capitali, che una volta ha visto una foto dei suoi genitori sotto alla Pagoda della Gru Gialla1, e che muore dalla voglia di assaggiare la yuèbǐng2, che mamma pianificava di prepararne una da un sacco di tempo ma non ha mai trovato le dosi giuste degli ingredienti. Poi gli chiede se è mai stato a Wuhan.
«Uh, no. Sono stato a Nanchino però.»
«Che fortuna! Conosco un’amica di mamma che una volta c’è stata. Dice che è il paradiso.»
Kiku sgomita fuori dal pianale per incontrare i suoi occhi tutti iride. «Ha ragione – dice – è il posto più bello sulla terra. Dopo Kyoto, ovviamente.»
«Cos’è Kyoto?»
«È la città in cui sono nato, si trova in Giappone.»
Meihua sgrana gli occhioni. «Mi ci porti?»
Kiku apre la bocca, ma deve prendersi un attimo per pensare prima di dire qualsiasi cosa. Si schiarisce la gola. «Se e quando potrò.»
Meihua sembra attraversata da un guizzo di gioia, gli salta addosso in un abbraccio che per poco non gli fa perdere l’equilibrio. Il calore di quella stretta lo afferra alla gola, gli pizzica gli occhi. Vorrebbe staccarsi, vorrebbe dire a Meihua che lui non potrà mai essere ciò di cui lei ha bisogno, che non può giurarle devozione eterna, che fallirà. Invece la stringe, e si chiede se il rituale a cui ha partecipato oggi con Yao non sia in qualche modo paragonabile a una famiglia, un insieme di anime strette attorno allo stesso tavolo che si passano il pane di mano in mano, che alzano i bicchieri per le stesse occasioni e che pregano di fronte allo stesso altare, che seppelliscono gli stessi morti. Kiku si schiarisce la gola e chiede a Meihua di prendergli un bicchiere d’acqua, la saluta con un buffetto sulla testa. Appena la bambina infila la porta della cucina, dall’altra parte del furgone giunge la voce di Yao.
Siede sul muretto basso di un’aiuola, da dove lo spia Kiku può vedere che si cala sulla pietra con una certa fatica. Accanto a lui Mo tiene distesa la gamba fasciata. Oltre l’alone azzurro del rimorchio, Kiku scorge la mano di Yao mentre le passa una foto.
«Abbiamo trovato questa in casa vostra, sono andato a prenderla stamattina. – una pausa, la bambina non parla – Mo, tua madre e tua sorella sono state uccise da un proiettile vagante. Sono morte sul colpo. Non hanno sofferto.»
La ragazzina rimane in silenzio ad osservare la foto, ha la faccia impassibile mentre le lacrime le solcano il viso. Yao le passa un braccio attorno alle spalle, la attira a sé. Kiku torna a guardare la facciata della chiesa, poggia la nuca sul ferro del rimorchio. Nel silenzio del primo pomeriggio si fanno strada le voci delle bambine che giocano a campana nel cortile, e quelle di Ludwig e Feliciano che lavano i piatti e asciugano i piani della cucina. In quel quadro rilassato, Yao mente come un adulto, come mentono i padri.
 
 
 
_____
Note:
  1. Si tratta di un edificio religioso di Wuhan, quella odierna è una ricostruzione del 1985 su modello dei dipinti della Dinastia Qing, ma la costruzione fu eretta per la prima volta nel 223, durante il Periodo dei Tre Regni (Sān Guǒ). Questa prima torre, negli anni, dovette misurarsi contro disastri, guerre e incendi, pertanto subì diverse ricostruzioni nel corso dei secoli, ed oggi al suo interno è possibile ammirare modellini di legno che raccontano il suo percorso.
  2. La torta lunare è un dolce cinese che viene solitamente consumato durante la Festa di Metà Autunno, una ricorrenza dedicata al culto della luna. Si tratta di tortine rotonde o rettangolari, composte da una sfoglia di pasta sottile che avvolge un ripieno di fagioli rossi o di pasta di semi di loto, e può talvolta contenere anche tuorli salati di uova d’anatra. Tradizionalmente, le torte lunari hanno una stampa in caratteri cinesi che simboleggiano la longevità e l’armonia, alle volte decorati con una cornice che rappresenta la luna o la dea lunare Chang’e, ma anche, fiori, tralci di vite o un coniglio (simbolo cinese della luna).
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Nariko_koi