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Autore: Nariko_koi    11/05/2022    2 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo XI
Quel che rimane
 
Una volta è scappato di casa. Tornava da scuola, aveva visto il profilo della machiya di legno bruno di fronte a se. Era rimasto a osservare in silenzio il tetto ricurvo e il basso cancello che fasciava la casa, poi le sue gambe l’avevano condotto verso un albero poco distante dal vicinato. Aveva lanciato lo zaino di cuoio più in alto che poteva e si era arrampicato sul ramo più alto e resistente che aveva trovato. Ricorda di essere rimasto lassù un intero pomeriggio, ad ascoltare i rumori sommessi di quel quartiere tranquillo, finché due vicini non lo avevano trovato. Solo allora si era accorto di essere stato via quasi mezza giornata, e che ci sarebbero state delle conseguenze. I vicini l’avevano scortato a casa, e lì, oltre il cancelletto del giardino, suo padre li aveva ringraziati senza rivolgere a Kiku un solo sguardo, lo aveva fatto entrare e si era richiuso l’uscio alle spalle. Nella sera del giardino Kiku aveva provato a parlare, a dire: mi dispiace, otou-san, ma suo padre gli aveva tirato uno schiaffo. Da quel che ricorda è stata la prima e ultima volta in cui Takeshi ha osato tanto.
Ti abbiamo cercato tutto il pomeriggio, tua madre era preoccupata.
Mi dispiace, otou-san.
Sai che non sta bene, come puoi farle una cosa del genere? Non hai nessun rispetto per chi ti ha messo al mondo? Smetti di piangere.
Mi dispiace, otou-san.
Basta piangere, ho detto. Torna dentro.
Quello che Takeshi non sapeva è che Kiku aveva cercato di scappare dal silenzio. Da quando sua madre si era ammalata, la casa aveva assunto una dimensione di immobilità, come se gli spazi dentro alle porte di carta si fossero lentamente svuotati dalla vita. Quel giorno Kiku aveva sentito il bisogno di fuggire, di non assistere a quel lento decadimento almeno per un pomeriggio. Ripensando a quell’episodio, Kiku ebbe finalmente chiaro cos’era quell’essenza che aveva colto appena entrato nella dimora dei Wang, che tanto mancava nella casa di suo padre. Era un soffio di vita, una forza che spingeva i residenti ad agire, a provare emozioni. Ma dal momento in cui Kiku aveva visto il corpo di Nilufar piombare sull’erba e Yao scattare verso di lei come una lepre, quel soffio sembrava essersi estinto.
Da quasi due settimane Yao si era chiuso nel suo ufficio. Passava il tempo a macchiarsi le dita d’inchiostro curvo sulla tesi, più di una volta ha saltato dei pasti. A tavola si mangiava in silenzio, di tanto in tanto i Wang si sforzavano di innescare una conversazione che però si smorzava quasi subito. In quei giorni di stallo a Kiku tornava in mente la scarica elettrica che lo aveva invaso al fiume, e si chiedeva se l’avesse provata davvero, tanto quella sensazione gli risultava distante, lontana.
In quei giorni gli capitò di assistere a una conversazione tra Yao e suo padre. Si stava recando in sala da pranzo e all’interno Wang Long e Yao erano già seduti. Quando si accorse che Long stava parlando Kiku preferì aspettare che finisse accostato alla porta, temendo di interrompere qualcosa di irripetibile.
«Tu hai studiato il Zhuang-zi1, xiǎo-Yao.»
Kiku non udì risposta, immaginò che Yao si fosse limitato ad annuire.
«E ti ricordi cosa disse Hui-zi a Zhuang-zi? È l’episodio della morte della moglie.»
Dopo qualche secondo di silenzio Yao parlò, la voce arrochita dal mutismo delle ultime ore. «Che non piangiate la morte di colei che fu vostra compagna di vita e allevò i vostri figli è già abbastanza grave, ma che cantiate battendo sulla scodella è davvero troppo.»
«Esatto. E ti ricordi cosa disse Zhuang-zi? – nella cucina tornò il silenzio, forse Yao si era stancato di quella conversazione. – Háizi. Per favore, rispondi.»
 «Zhuang-zi disse: niente affatto. Al momento della sua morte fui, naturalmente, turbato per un istante, ma poi, riflettendo sul significato di “inizio”, scoprii che in origine lei non possedeva vita. Non solo non possedeva vita, ma nemmeno forma. Non solo non possedeva forma, ma nemmeno soffio. Qualcosa di sfuggente e inafferrabile si trasforma in soffio, il soffio in forma, la forma in vita, ed ecco ora che la vita si trasforma in morte. Tutto ciò è simile al succedersi delle quattro stagioni dell’anno. In questo momento, mia moglie è tranquillamente sdraiata nella Grande Sala della Casa dei Canti. Perciò, se io mi lamentassi, i miei singhiozzi stonerebbero: vorrebbe dire che non porto il Tempo del Destino. Per questa ragione me ne astengo».
Da come recitava era evidente che Yao avesse imparato quelle righe a memoria, al punto da non tradire nemmeno una pausa.
«Senti, xiǎohuǒzi… non credere che non sappia come ti senti. Ma nelle parole del maestro c’è un fondo di verità: la morte fa parte del Dao2, è il corso naturale degli eventi. E per quanto sia giusto onorare i defunti, io temo che tu stia trascurando i vivi, adesso.»
 
Una mattina si accorse che quella stessa settimana sarebbe tornato a Kyoto. Ancora pochi giorni e si sarebbe separato dai Wang, da Yao, forse per sempre. Camminando avanti e indietro per la stanza si domandava se l’estate successiva suo padre l’avrebbe lasciato tornare lì, o se Yao si sarebbe proposto di venire a Kyoto per lui, se la loro corrispondenza sarebbe stata costante. Si coprì la faccia con le mani, alzando i ciuffi scuri dalla fronte, davanti all’evidenza del fatto che ormai Yao occupava ogni angolo della sua mente. Quel giorno, quando il sole non era ancora sorto e il cielo conservava ancora i riflessi verdognoli dell’aurora, Kiku uscì dalla stanza degli ospiti e bussò alla porta di Yao. Lo trovò steso scomposto sul letto, con lo sguardo lontano e i capelli sparsi sul cuscino, sul collo e sul petto. Sembrava si fosse svegliato già da tempo. Kiku si chiuse alle spalle la porta, disse: «Avevo voglia di andare al fiume. Dato che sei sveglio…»
«Ti accompagno, sì.»
Così si vestirono e gettarono due teli dento ai cestelli delle biciclette. Percorsero la strada in silenzio, attorno a loro la natura si ridestava. Arrivati alla spiaggetta addossarono le biciclette a un albero, stesero le stuoie sui sassi e si spogliarono. L’acqua era gelida, osservando bene attraverso i riflessi si potevano intravedere le virgole rosse dei pesci guizzare sui sassolini. Kiku aveva ancora qualche difficoltà a nuotare in autonomia, e per tenere il mento sopra la superficie doveva scalciare come un cavallo. Yao invece muoveva gambe e braccia quel poco che bastava per mantenersi a galla, ma gli stava vicino come per tenersi pronto ad afferrarlo in caso di necessità.
Quando tornarono a riva Kiku si permise di lasciare indugiare lo sguardo sulla peluria lucida d’acqua sugli avambracci solidi di Yao e sulla muscolatura asciutta delle spalle, decorate da ghirigori di capelli scuri. Gli si sedette accanto e restarono ad osservare il cielo che si scaldava, le ombre delle montagne iniziavano a prendere colore. A un certo punto Yao interrompe il silenzio con un semplice “grazie”.
«Per cosa?»
«Per quello che stai facendo adesso. Mi dispiace non essere stato presente ultimamente.»
«Non dirlo nemmeno.»
«Sai, una volta da bambino ho rischiato di annegare. – Yao si guardò intorno, i capelli in parte asciutti e gli svolazzavano sulla fronte. – Proprio qui. Avrò avuto cinque anni credo, i miei erano a Nanchino e i Li ci hanno portati al fiume. Volevo fare uno scherzo a Nilufar e mi sono allontanato. – Yao ridacchiò con lo sguardo lontano – Ma ho rischiato di farmi male. Mi ricordo che Li Feng si è buttato in acqua con tutti i vestiti. Poi la sera Nilufar mi ha messo a letto e mi ha detto: mi hai fatto venire i capelli bianchi, xiǎo-Yao. E allora le ho chiesto se li potevo vedere. Assolutamente no!» concluse ridendo, ma la risata si spense quasi subito e Yao sembra tornare in una dimensione di tristezza.
Dal primo momento in cui li aveva visti insieme, Kiku aveva capito che Nilufar non era una dipendente qualunque. Diverse volte in vita sua aveva visto, prima di allora, come certe famiglie seppellivano i domestici stroncati dalla fatica, con la stessa indifferenza con cui si seppellisce una capra, come i ricchi si premurassero di versare un paio di lacrime prima di buttarsi a capofitto nella ricerca di nuove braccia operose. Quella volta era diverso. Nilufar non aveva trasmesso a Yao la sua faccia, le sue mani, la sua altezza o la sua espressione, non l’aveva portato in grembo e non aveva urlato fino a lacerarsi i polmoni per metterlo al mondo, ma Nilufar era sua madre, e Yao l’aveva persa. E Kiku odiava che Yao avesse in comune con lui anche questo.
Yao gettò una risatina nervosa tra loro, si morse il labro. «Io non ho mai – chiuse gli occhi, s’interruppe per deglutire e schiarirsi la voce – non le ho mai detto quanto fosse importante per me, forse non lo sapevo neanche. Ero talmente tanto preso dalle mie idiozie che non mi sono neanche preso un momento per dirle quello che volevo dire, e adesso io… - la bocca gli rimase aperta a vuoto per un po’ mentre gesticolava con una mano, gli occhi gli si inumidirono – adesso mi sembra che mi sia avanzato tanto di quell’amore e… non so che farmene, non so come incanalarlo.»
Kiku lo osservò mentre stringeva le labbra, ripensò a una cosa che sua madre gli disse una delle ultime volte che la vide. In quei giorni Kiku bussava alla porta della sua stanza per sgusciare all’interno senza attendere risposta, si sedeva accanto al futon in religioso silenzio e la osservava dormire col respiro pesante e fili chilometrici di capelli sparpagliati ovunque sul cuscino e sulla sua fronte lucida. Una di quelle volte sua madre aprì gli occhi su di lui, si spostò per fargli spazio sul futon e gli fece cenno di sdraiarsi accanto a lei. Kiku obbedì e per un po’ rimase a respirare il suo odore mentre lei gli accarezzava i capelli.
Una volta Kiku ha letto che le femmine dei polpi vivono con l’unico scopo di mettere al mondo dei figli, che dopo aver deposto le uova la madre smette mangiare per sorvegliare il nido, diventa debole e grigia e alla fine muore. Col senno di poi, Kiku si chiese se sua madre non avesse vissuto un destino simile, magari per questo gli disse ciò che venne dopo. Kiku-chan, aveva sospirato con gli occhi fissi sul soffitto, nella vita ti capiterà di dover fare delle scelte, e queste scelte richiederanno coraggio. Ora ascolta bene, Kiku-chan, non fare i miei stessi errori. Non lasciarti attraversare dalla vita, fa in modo che ti colpisca in pieno. Hai capito?
Kiku aveva annuito senza comprendere appieno il significato di quelle parole. Ma in quel momento seppe che avrebbe potuto non rivedere Yao per molto tempo, che gli eventi li avrebbero allontanati anni luce l’uno dall’altro se non avesse provato ad opporsi, perciò trovò il coraggio di parlare.
«Dallo a me.»
Yao increspò la fronte, si scacciò le lacrime via dal viso con gesti bruschi. «Come?»
«L’amore che ti resta, lo voglio io. Non m’importa se è quel che rimane, lo voglio lo stesso. Dallo a me.»
Kiku sentì il cuore trottare mentre fissava gli occhi da gatto di Yao. In quel momento entrambi dovettero aver trovato il coraggio che anelavano da settimane, perché Yao si sporse verso di lui, lambì la pelle della sua mascella col pollice, e mentre ancora Kiku osservava le lentiggini dorate sul suo naso chiuse gli occhi e lo baciò. Kiku rimase immobile per qualche secondo, come congelato sul posto, si accorse di stare rivivendo la stessa sensazione di vuoto e adrenalina di quando si era tuffato nel fiume con la mano di Yao nella sua. Poi chiuse gli occhi e assaporò l’odore di carta e inchiostro delle mani di Yao, il retrogusto di tè della sua bocca. Gli mise una mano in mezzo ai capelli umidi, gli carezzò il collo mentre tentava di ancorarsi a lui, di non sprecare quei secondi che gli erano stati concessi. In quel momento Kiku avrebbe rinunciato alla sua vita, avrebbe abbandonato i compagni di scuola, i voti alti, il futon nella sua stanza e la benedizione di suo padre, se fosse stato abbastanza per pagarsi un altro minuto con Yao. E Kiku sapeva anche che Yao aveva atteso quel momento tanto quanto lui.
Kiku tracciò con la punta delle dita il profilo della clavicola di Yao, indugiò sulla sua spalla e percorse la linea che disegnava i muscoli delle braccia fino al polso, infine allargò il palmo sul dorso venoso della sua mano, che gli cingeva lo spazio tra il collo e la mandibola. In lontananza si udì una sorta di frinire, come di ruote di bicicletta, e Yao si staccò da lui. «Non qui.» disse con le palpebre ancora socchiuse. Kiku annuì e si morse il labbro. Rimasero ad osservare le curve delle montagne, accostati l’uno al braccio dell’altro e uniti solo attraverso quella sottile striscia di pelle.
«Torno a casa questo fine settimana.»
«Lo so. Avrei dovuto parlarti prima.»
Quando il sole si fece alto risistemarono le stuoie nei cestelli delle biciclette e si rivestirono. Mentre camminavano in mezzo alle canne di sorgo, spalla contro spalla, Kiku gettava di tanto in tanto un’occhiata nella sua direzione, spiava le ombre lunghe sul suo viso dorato, i muscoli longilinei del collo. A un certo punto Yao si voltò a guardarlo, un’iride scura si tinse di giallo a contatto col sole caldo. Kiku arricciò le labbra in un piccolo sorriso e abbassò il capo, Yao lo stava ancora guardando. Montarono sulle biciclette per un tratto di strada e si arrestarono all’unisono di fronte alle mura della casa dei Wang. Yao sussurrò, quasi temesse che i fusti di bambù potessero sentirli: «Aspettami nella tua stanza stasera. Arrivo a mezzanotte.»
«Non fare tardi.»
Così varcarono l’ingresso del giardino e sistemarono le biciclette contro a un muro, poi entrarono dentro casa per cambiarsi per il pranzo. Prima di dividersi, sulla soglia della stanza degli ospiti, Yao si permise di carezzargli l’angolo della mano con il mignolo. Un attimo dopo aveva già imboccato l’ingresso della sua stanza.
Furono i primi a sedersi a tavola. Mentre Honghui e il signor Arthur si apprestavano a spostare le sedie per accomodarsi, Kiku capì che Yao si era sfilato una scarpa, perché avvertì il piede nudo di lui carezzargli una caviglia. In quei brevi secondi che precedettero l’arrivo dei restanti commensali, Kiku ebbe serie difficoltà a mantenere una faccia impassibile. A testimoniare il suo fallimento fu un intervento di Mei.
«Tutto bene, Kiku-san? – Kiku si voltò con un sopracciglio arcuato, lei aggiunse: – sei rosso come un’aragosta.»
«Soffro il caldo. – rispose lui con un sorriso – grazie per averlo chiesto.»
Non si voltò a guardare Yao, ma fu sicuro del fatto che stava trattenendo una risata scrosciante.
 
 
***
 
Durante il resto della giornata Kiku aveva contato ogni minuto che lo separava dalla mezzanotte. Aveva trascorso quel tempo sforzandosi di fare qualsiasi cosa potesse tenergli la mente impegnata, aveva costretto Honghui a una partita infinita a go, aveva cacciato il naso dentro a un libro sottratto dallo studio di Yao e si era anche sottoposto a un monologo del signor Arthur sulle innovazioni tecnologiche che i britannici hanno regalato al mondo. Durante tutte queste attività non aveva smesso di pizzicarsi la cartilagine tra pollice e indice per mettere a tacere la morsa che gli stringeva lo stomaco. Fino alla mezzanotte si trovò diviso tra il desiderio sfrenato e il terrore di essere da solo con Yao.
A cena lui non era presente, era stato invitato da un piccolo gruppo di amici a passare una serata insieme. Durante il pasto Kiku spiava i volti di Wang Long e di Lanhua, si chiedeva se uno di loro sapesse, se avessero intuito cosa fosse successo quel giorno sotto al tavolo. D’improvviso lo attraversò un nuovo dubbio. Si chiese da quanto tempo Yao avesse capito di essere omosessuale, se il letto di Kiku sarebbe stato un banco di prova o il suo ultimo approdo. Si accorse che il signor Arthur lo stava guardando, Kiku si chiese cosa sapesse. Dopotutto si conoscevano da anni. Magari Arthur era stato al suo posto, magari a Yao piaceva avere una folla nel letto. Il pensiero di essere l’ultimo arrivato di una collezione di trofei lo scosse come un fulmine.
Tornato nella sua stanza si fece un bagno e si concesse il pregio di tenere la testa sott’acqua per qualche secondo. Magari non sarebbe stato il primo né l’ultimo ad accogliere Yao nella propria stanza, magari avrebbe odiato ogni momento di ciò che stava per accadere, ma non gli importava. Se quella sera non fosse andato fino in fondo, avrebbe passato gli anni avvenire a tormentarsi su ciò che sarebbe potuto accadere, a litigare con se stesso. E se proprio doveva scoprire come ci si ama tra uomini allora doveva farlo con Yao. Si chiese se il mattino dopo si sarebbe svegliato diverso, più maturo, più adulto. O forse non sarebbe cambiato nulla, avrebbe continuato ad essere lo stesso Kiku di sempre.
Quando udì il motore di un’auto avvicinarsi alla casa, la voce di Yao salutare il conducente e il rumore della portiera, una parte di lui sperò che Yao sarebbe andato a dormire dimenticandosi di lui che lo aspettava, un’altra pregava perché si fiondasse correndo nella sua stanza e lo afferrasse per il jinbei. Si sentiva ridicolo a camminare avanti e indietro, a chiedersi se l’abatjour stesse meglio accesa o spenta, a domandarsi se fosse meglio attenderlo da vestito o con addosso solo le coperte del letto.
Si udì un lieve bussare, Kiku disse: avanti, e Yao sgusciò all’interno. Se l’era immaginato spavaldo e sicuro, invece era evidente che non sapesse se tenere le mani in tasca o sui franchi o se incrociare le braccia.
«Hai aspettato molto?»
Ti prego, non farmelo dire.
«Sei in orario.»
Ovviamente non era quello che voleva sapere. Kiku gli si fece vicino e gli prese una mano, lo trascinò a sedere sul letto. Yao si tolse le scarpe, gli carezzò una caviglia col piede lungo come aveva fatto quel giorno sotto al tavolo. Kiku rise e si voltò a guardarlo. Quando furono l’uno di fronte all’altro la sua risata si spense. Yao poggiò la fronte sulla sua, gli chiese se fosse sicuro, sussurrava.
«Certo che sì.» disse Kiku, e invece avrebbe voluto dirgli che non era sicuro di niente, che l’idea di avere un unico colpo in canna lo invogliava a puntarsi l’arma alla tempia. Allora Yao si sporse in avanti per baciarlo e tirargli la cordicella del jinbei. Un momento dopo Kiku era nudo prima di lui, e così esposto, con le mani squadrate di Yao ovunque sul suo corpo, gli sembrò di stargli dicendo: eccomi, sono qui per te. Yao armeggiò a vuoto con la cintura dei pantaloni, le mani gli tremavano e così Kiku dovette aiutarlo a svestirsi. Poco dopo Yao si calciò i pantaloni via dalle caviglie e fu sopra di lui, la peluria delle sue gambe gli solleticava la pelle, le sue labbra roventi gli si posavano addosso come un marchio per il bestiame.
Poi Yao seppellì il volto nell’incavo del suo collo e Kiku si morse una nocca per non urlare. Yao domandò: «Ti faccio male?», ma Kiku non rispose. Invece cercò di imprimersi nella mente la sensazione della pelle di Yao stesa sulla sua come una coperta, dei muscoli delle sue spalle sotto le unghie. Lottò per tatuarsi addosso il suo odore, e più di tutto il senso di vuoto che lo aveva assalito appena Yao si era fatto strada in lui, che lo schiacciava, che gli spezzava la schiena.  In quel momento Kiku ebbe l’impressione di non aver mai vissuto, di essere rimasto ai margini della vita per tutto quel tempo fino ad allora. Si chiese dove fosse stato Yao in quegli anni di erranza, si chiese se dopo quella notte sarebbe mai riuscito a toccare una vetta simile, a emozionarsi di nuovo, o se tutto ciò che sarebbe venuto dopo sarebbero state sensazioni vuote e superficiali, artefatte, pallide imitazioni di ciò che stava avvenendo in quel momento. Ma poi Kiku chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, Yao gli chiuse la bocca con una mano per paura che qualcuno potesse sentirli. Allora mise da parte tutto quel macchinare, e trasse conforto dalla perfezione di quell’incastro di pelle e anime.
 
 
 
____
Note:
  1. Zhuangzi (in cui zi significa “maestro”, esattamente come in Kong Fuzi, italianizzato Confucio, Mengzi, Mencio, Laozi ecc.) fu un filosofo cinese, vissuto, sembrerebbe, durante il Periodo dei Regni Combattenti (453 a.C – 221 a.C.) autore dell’omonimo trattato. Nonostante la storiografia cinese tradizionale lo racconti come allievo di Laozi (figura, per altro, più fittizia che realistica), le tecnologie moderne hanno permesso di datare il Zhuangzi in epoca antecedente rispetto al Dàodéjīng, dunque i rapporti maestro-allievo sembrerebbero sovvertiti (in realtà bisognerebbe spiegare che probabilmente il Dàodéjīng fu opera di una comunità di intellettuali daoisti piuttosto che di un singolo individuo). Per spiegare il suo pensiero, l’autore utilizza delle storie brevi, simili a parabole, come l’episodio della morte della moglie, in cui viene fuori il concetto di non agire.
  2. Il Dao (scritto anche Tao in codice Wade Jiles) è uno dei principali concetti del pensiero cinese, e tradotto letteralmente significa “la Via”. È un termine particolarmente difficile da spiegare, una sorta di energia inesauribile, fonte della vita. Il carattere ha al suo interno il radicale di “piede”, che esprime un’idea di movimento, come un flusso, che per certi versi rende questo concetto assimilabile all’essere parmenideo. Nel Libro dei mutamenti (Yijing), si legge: una volta yin, una volta yang, ecco il Dao. In generale, le scuole di pensiero cinesi si sono da sempre poste come obbiettivo ultimo il raggiungimento del Dao, o forse sarebbe più corretto parlare di allineamento con la Via, che mentre per i confuciani avviene dopo anni di studio e dura pratica, per i daoisti va perseguito disimparando la complessità delle strutture sociali e regredendo a uno stato di simbiosi con mondo, il così detto non-agire.
  
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