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Autore: Nariko_koi    17/05/2022    2 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo XII
Sacrifici umani
 
Quando tornano alla locanda la signora Meng è assente. C’è un biglietto sul bancone, all’ingresso, recita: sono uscita per commissioni torno presto. Manca una virgola. Kiku ha svuotato su un tavolo della sala da pranzo il contenuto del sacchetto del bazar, poi è sparito in cucina. Yao lo segue quasi per inerzia, non si aspetta di vederlo frugare tra i rifiuti. Resta un momento con la bocca dischiusa, durante il quale è sicuro che Kiku stia manifestando gli effetti di una commozione celebrale o che le verdure della minestra abbiano innescato in lui una qualche reazione indesiderata. Si prepara a dire qualcosa, ma Kiku tira fuori dal cestino i resti di un servizio da tè di porcellana, lo stesso che è caduto dalle mani della signora Meng la sera prima. Kiku trasporta i frammenti sul tavolo, premurandosi che non ne manchi neanche uno all’appello. Yao si toglie il cappello e gli si siede accanto.
«In due facciamo prima.» dice.
Così impastano la colla in un piattino con una spatola di legno, ci versarono sopra il colorante oro. Yao osserva con attenzione i gesti delle mani di Kiku, le unghie corte e lucide.
«Dove hai imparato a fare questa cosa?»
«Me l’ha insegnato mia madre.»
Yao osserva il naso sottile, le sopracciglia piumose, la forma soffice delle labbra e la mascella squadrata. Ha il viso più adulto, più scavato, ma conserva ancora una minima morbidezza sulle guance bianche. Palla Di Riso. Yao sbuffa una risata pensando a quel soprannome. Kiku si volta a guardarlo, deve averlo sentito ridere. Yao si chiede se somigli a sua madre.
«Perché ridi?»
«Niente, lascia stare. – fa un gesto con la mano – Questa cosa ha un nome?»
«Kintsugi. È una tecnica molto antica – pressa assieme due pezzi di una tazza mentre parla – l’idea di base è che i nostri errori e le nostre imperfezioni costituiscano un punto di forza. Mia madre la pensava così, ecco perché me l’ha insegnato.»
«E tuo padre?»
Kiku arriccia le labbra in un sorriso grave. «Lui preferisce prevenire che curare. Secondo lui se ripari i cocci allora non sei stato sveglio abbastanza da mettere la ceramica al sicuro.»
Yao continua ad osservarlo per qualche secondo, poi abbassa lo sguardo. Mentre sparge la colla su un frammento si domanda se Kiku somigli anche a suo padre, si chiede se quando si sono conosciuti abbia cercato un genitore in lui. Molte persone lo fanno, pensa. Ha avuto modo di conoscere gente che proiettava le figure genitoriali addosso ad altri individui, gente che si lega solo con chi è in grado di allargare le ferite provocate dai genitori. Forse Kiku è uno di questi.
«Non credere che questo basti a sistemare le cose con Meng tài-tai. Non fraintendermi, è una brava persona, ma non credo che riuscirai a convincerla che esistano giapponesi buoni.»
«Non lo faccio per questo. – Kiku sistemò la prima tazzina a testa in giù sul vassoio di metallo – non m’interessa redimermi ai suoi occhi, probabilmente non ci riuscirò mai. Ma vorrei che non dimenticasse la sua umanità.»
Presto alle tazzine si sommano una zuccheriera e una teiera col volto di Laozi modellato sul coperchio. Quando la colla è asciutta Kiku sistema ogni elemento sul vassoio, avendo cura di scegliere le angolazioni migliori. Yao gli dice di aspettarlo, sale in cima alle scale e imbocca la porta della stanza. Frugando nei bagagli riesuma un sacchetto di stoffa colorata. Tornato al piano terra trova Kiku ancora fermo ad osservare il servizio, di tanto in tanto ruota una tazzina su se stessa per assicurarsi che la composizione risulti armonica. Yao allarga la cordicella del sacchetto e tira fuori una carpa di argilla verde con la coda sbeccata. La posa sul vassoio, Kiku si volta a guardarlo con la fronte aggrottata.
«Ma dove l’hai trovato?»
«Tra le tue cose. Quando ti hanno perquisito ho chiesto di accedere ai tuoi effetti personali.»
Kiku si morde il labbro e distoglie lo sguardo. È evidente che voglia chiedergli se ha trovato dell’altro, ma Yao preferisce non incalzarlo. Kiku sorride. «Magari le porterà un po’ di coraggio. – dice, poi si volta verso Yao. – Mi aiuti a fare una cosa?»
Yao annuisce, poco dopo recuperano l’uniforme di Kiku dal cassetto in cui è stata seppellita. Kiku si premura di controllare le tasche alla ricerca di qualsiasi cosa possa essergli rimasto addosso in quei giorni di erranza, ma non trova nulla. Si spostano in cortile e Yao recupera un vecchio cilindro di metallo che dev’essere stato una cisterna per l’acqua. Intanto Kiku raccoglie fogliame e rami secchi dalle aiuole abbandonate, in poco tempo il bidone è pieno a metà. Yao lo osserva mentre piega l’uniforme e la sistema con cura dentro al bidone, poi Yao gli porge la scatola di fiammiferi che ha trovato in un cassetto della cucina. Kiku ne tira fuori uno e lo strofina sulla carta vetrata, poi, quando la fiammella esplode, lo getta dento al bidone e fa un passo indietro. C’è del fumo scuro, Yao teme che la signor Meng vedendolo possa allarmarsi. Restano a osservare il rogo per un tempo che Yao non riesce a quantificare, poi senza voltarsi dice a Kiku: «Va’ a lavarti, se resta dell’acqua io mi lavo dopo cena.»
«Sicuro? E se poi non ne rimane?»
«Tu va’.»
In realtà Yao preferisce non lasciarlo da solo con una fiamma libera. Durante la giornata gli è parso che Kiku abbia messo da parte gli struggimenti della sera prima, ma è consapevole che ogni secondo che passa lontano dal suo sguardo rappresenta un rischio.
 
Kiku deve indossare di nuovo gli abiti di quella mattina, perché Yao non ha altri vestiti da dargli. Quando il fumo cessa di fuoriuscire dal bidone Yao decide di accendere la radio nel piccolo salotto, e smette di armeggiare con la rotella solo quando riconosce un pezzo trasmesso da un’emittente di Chongqing. Il presentatore annuncia una cantante cinese che sta per porgere un omaggio a Vera Lynn1, nel salotto si diffondono le prime note di We’ll meet again2. Yao canticchia aggrappandosi alla stampella, si ferma quando vede Kiku immobile in un angolo.
«Ma dai, non conosci questa canzone?»
Lui sorride. «Di questi tempi non trasmettiamo molta musica dall’estero.»
«L’avrai sentita almeno una volta! Dai, vieni qui.»
Prima che Kiku possa allontanarsi Yao gli afferra una mano. Ammette a se stesso di non avere idea di cosa sta facendo e che sta per rendersi ridicolo, ma sa anche che mentre rimugina sui suoi pensieri due soldati armati potrebbero abbattere la porta a calci da un momento all’altro e sparargli addosso finché non sarà più riconoscibile, quindi tanto vale farsi trovare mentre balla. Mette da parte la stampella, Kiku ha la rigidità di un muro, cerca di divincolarsi.
«Sei matto? Io non so ballare!»
«Ascolta la musica.»
Kiku scuote la testa, ma non riesce a trattenere un sorriso. Agli angoli della bocca gli compaiono due fossette. Yao sposta il peso da un piede a un altro a ritmo, canta: «So will you, please, say hello to the folks that I know?»
Kiku gli pesta i piedi, gli chiede scusa e a un certo punto scoppia in una risata imbarazzata. Sembra che dica: guarda che mi fai fare. Sono completamente scoordinati, Kiku deve tenere gli occhi puntati sui loro piedi per capire dove stanno andando.
«Perché devo fare io la donna?»
«Perché sei più basso.»
«Che razza di motivo è?»
«Sta’ zitto e ascolta la canzone.»
Keep smiling through,
Just like you always do…
«…‘till the blue skies drive the dark clouds far away. Non guardare per terra, guarda me.»
Così Kiku alza gli occhi con le labbra ancora arricciate nell’ombra di un sorriso. Guardando il proprio riflesso in quegli occhi Yao viene investito da un’onda di tristezza. Si chiede per quale motivo abbia deciso di trascinarlo in questa stupida farsa, perché gli abbia preso la mano. In quel momento sa che tra di loro sta passando qualcosa, come quella volta sotto la pioggia a Nanchino. Vorrebbe dirgli di restare così ancora un po’, dirgli: non andartene di nuovo. Se te ne vai mi uccidi.
But I know we’ll meet again
Some sunny day.
La radio manda l’ultima nota e la porta d’ingresso si apre, si staccano in un unico gesto brusco. La signora Meng è entrata nella stanza a capo chino e non li ha visti ballare. Yao si precipita ad aiutarla con le buste della spesa, sente l’urgenza di riempire il vuoto lasciato dalle mani di Kiku sulle sue. La signora Meng si soffia un ciuffo di capelli via dalla fronte, quando si accorge del servizio in bella mostra sul tavolino del salotto resta immobile a fissarlo. Yao sparisce in cucina, lasciandola sola con Kiku. Nonostante sia curioso di sapere cosa si stanno dicendo, sente il bisogno di rifugiarsi lontano da quella stanza. Frugando nelle buste della spesa tira fuori un sacco di riso, un mazzo di porri, dòufu e verdure di stagione. In un altro sacco è presente un ulteriore involucro di carta che protegge un’anguilla.
«Che sta facendo, lǎozǒng? Lasci fare a me.» La signora Meng entra in cucina sbracciandosi, ma Yao la ferma.
«Si sieda pure tài-tai. Avevo voglia di cucinare.»
 
Poco dopo la cucina è invasa dall’odore delle verdure bollite e del riso appena lavato, a Yao basta chiudere gli occhi per ritrovarsi catapultato nella cucina di Nilufar. Attraverso l’ombra delle palpebre può vedere Li Feng attraversare la stanza con in mano le anatre da mettere sul braciere, Nunu che sistema le casse di verdure, la signora Li che rosicchia il suo rametto di liquirizia in un angolo. Viene riportato alla realtà dalla tendina della cucina che si sposta e dalla voce di Kiku alle sue spalle.
«Non ho mai visto questa ricetta.»
Dopo un attimo di sorpresa Yao sorride e torna a guardare la lastra di legno con cui sta spremendo il dòufu. «Ovvio che no. Questo è il fantastico Riso Anti-Spreco Alla Nilufar. È una ricetta per pochi eletti.»
Dietro di lui Kiku sbuffa una risatina, poi si sbraccia e gli si posiziona accanto. Gli chiede cosa fare e Yao lo mette a pulire l’anguilla. Da come la tocca è ovvio che non ha mai pulito un pesce in vita sua.
«Guarda che non può mangiarti, è morta.»
«Spiritoso.»
«Dai, lascia stare.»
«Assolutamente no. Guidami tu.»
Yao gli spiega cosa tagliare e come, con una certa fatica Kiku rimuove le viscere e le lische, toglie la testa e la coda, e prima che possa buttare gli scarti Yao lo ferma come se stesse per ammazzare qualcuno. «Questi servono per il brodo.» spiega. Kiku torna a occuparsi dell’anguilla, Yao si chiede se lasciargli in mano un coltello sia stata una buona idea. «Vuoi che continui io?» gli chiede.
Dal breve sguardo che Kiku gli lancia è chiaro che ha capito a cosa si riferisce. «Non devi preoccuparti per me.»
Yao si acciglia, di azzarda a dire: «Oggi sembri più sereno. Mi sbaglio?»
Kiku mantiene lo sguardo sui cubetti bianchi che sta ricavando, sono tutti disuguali e storti, ma l’estetica non è importante. «Ho ripensato a quello che mi hai detto ieri. – spiega, a ritmo misurato – avevi ragione, Yao. Uccidermi non le avrebbe riportate in vita. Quindi se voglio rimediare a questa catastrofe, nel mio piccolo, devo trovare un modo migliore per farlo.»
Yao lo guarda, poi torna a fissare i cubetti di dòufu sotto alle proprie mani. Ne afferra una manciata per sistemarli in una ciotola piena a metà di farina di riso. Quella dichiarazione lo rassicura, ma ha coscienza del fatto che l’equilibrio di Kiku è ancora fragile. Deve sperare che trovi uno scopo, un motivo per resistere.
«Quante persone hai ucciso?» gli chiede Kiku, dal nulla, come se gli stesse domandando l’ora.
Dopo una pausa Yao risponde: «Troppe.»
Kiku getta una manciata di anguilla in un’altra ciotola di farina di riso, sposta il tagliere nel lavandino. I suoi movimenti sembrano sicuri e controllati, ma Yao avverte una nota incrinata nella sua voce. «Come ci convivi?»
Il dòufu finisce in padella con uno sfrigolio, subito dopo Yao aggiunge il pesce. «Aspettando il momento per raddrizzare i torti. Prima o poi arriva sempre.»
Kiku si lava le mani, e mentre ancora si sfrega l’asciugamano sulle dita dice: «Sai, credo anche… sto iniziando a pensare che forse era giusto che tu entrassi in quel momento. Che non sia stato un caso, capisci?»
Yao annuisce, rimesta il dòufu sul fuoco. Kiku si gratta dietro l’orecchio, sbircia nella sua direzione. «A proposito… grazie. Per avermi fermato.»
Yao lo guarda per un lungo momento, si rende conto che quella potrebbe essere la loro ultima occasione per mettere le cose in chiaro. «Ti ho già deluso una volta. Se avessi sbagliato anche ieri non mi sarei mai perdonato.»
«Questo non è–
 «Non provare a giustificarmi. Se siamo arrivati a questo punto è anche colpa mia.»
Kiku non dice nulla, abbassa lo sguardo sconfitto e sistema l’asciugamano sul manico cilindrico del formo. La cucina si riempie del rumore di pentole sfrigolanti.
A tavola la signora Meng riempie le scodelle di vino di sorgo. «A cosa brindiamo?» chiede Kiku, da quell’angolazione Yao può vedere il suo riflesso nell’acqua vermiglia.
«Alle nuove opportunità.»
 
***

Dopo cena Yao scopre con piacere che l’acqua calda non manca, così si spoglia e s’immerge nella vasca fino al mento, lasciando aperta la porta del bagno. Quando torna nella stanza Kiku si sta togliendo il gilet.
«Ti pulisco la ferita?»
Si volta a guardarlo, Kiku si sta allentando lo scollo della camicia.
«Certo, va bene.»
Yao si siede sul letto, espone la schiena alla luce dell’abatjour. Kiku prepara il kit medico e si posiziona dietro di lui, stando attento a non fare ombra. Le garze gli si sono attaccate alle crosticine del taglio, così quando Kiku gliele toglie di dosso tirano un po’. Per farlo appoggia il palmo morbido sulla sua schiena, Yao sente il suo respiro muovergli i capelli corti sulla nuca. Domani si sveglierà e non saprà cosa fare della sua vita. Non l’ha mai saputo, in realtà, ma stavolta sente che la decisione è imminente, e che non può permettersi di sprecare tempo.
«Avresti potuto uccidermi.»
Kiku resta col batuffolo di cotone a mezz’aria, Yao sente che ha smesso di respirare. «Sì.»
«Perché non l’hai fatto? Eri alle spalle di un soldato nemico, potevi piantarmi una pallottola nel cranio.»
«Non ne ho avuto il coraggio.» taglia corto, e piazza il cotone umido sulla sua spalla. Yao stringe i denti in una smorfia, vorrebbe dirgli: il coraggio di aprirmi la schiena l’hai trovato. Ma decide di non insistere, sarebbe come pestare un uomo già morto. Dopo diversi secondi di silenzio, Kiku parla di nuovo. «Ti fa male?»
Yao chiude gli occhi. «Solo la notte.»
Sente le dita di Kiku spostarsi sul taglio, pressare il cotone sulla pelle accartocciata.
«Volevo mettere un taglio tra te e me. Dovevo dimostrare a me stesso che ero un uomo diverso, che non siamo uguali.»
Yao ascolta in silenzio, finalmente ha la conferma di ciò che sospettava da quando l’ha visto. Forse avrebbe preferito sbagliarsi. «E ci sei riuscito?»
Yao non sente più il cotone sulla schiena, forse Kiku ha avuto bisogno di un momento per pensare. «Tu invece? Avresti potuto lasciarmi morire.»
«Sì.»
«Perché li hai fermati?» C’è un’ombra nella sua voce che gli testimonia che non ha solo provato a cambiare discorso, Kiku sta cercando delle risposte.
«Non lo so. Forse non ero pronto a lasciarti andare.»
Cala un silenzio durante il quale Yao rimpiange di non poter guardare Kiku negli occhi. Vorrebbe aprirgli il cranio e leggere cosa sta accadendo al suo interno, e più di tutto vorrebbe che Kiku si muovesse, che non rimanesse inerte in quel modo con le mani sulle sue scapole. Vorrebbe vestirsi e scappare via da quella stanza come un ladro. Invece si volta a guardarlo e chiede: «Tu ne hai di cicatrici?»
È una domanda stupida, del resto l’ha già visto nudo nella vasca da bagno, perciò Kiku deve aver capito che si tratta di un tentativo maldestro di chiedergli di spogliarsi. Tuttavia, lui lo guarda schiudendo le labbra, e annuisce di poco, abbassando e alzando il mento quel minimo che basta per registrare un movimento. Non è necessario che Yao chieda altro, lui si sta già aprendo il primo bottone sul petto, e poi il secondo, il terzo, fino alla metà dell’ombelico non coperto dai pantaloni. Ha numerosi taglietti rosati sui pettorali, un’escoriazione ancora fresca sul costato, una brutta ustione sull’addome, che sembra essere stata provocata da un ferro incandescente. Yao sfiora con le dita le striature sul petto, le percorre verso il basso fino al reticolo di pelle accartocciata, mentre avverte Kiku tremare.
«Credevo ti avessero solo spaccato un dente.»
«A essere sinceri credo di averlo rimosso. Dicono possa capitare.»
Poi Kiku si alza come se si fosse ricordato di qualcosa, armeggia con la cintura e apre il bottone dei pantaloni. Tirando di poco la stoffa scopre un taglietto bianco sull’inguine che a Yao sembra familiare, schiere di puntini bianchi ai lati del taglio dimostrano che un tempo c’erano dei punti di sutura. Ci posa sopra quattro dita, chiede: «E questa?»
«Appendicite a dodici anni.»
Yao ride, poi torna a osservare i fianchi stretti di Kiku, sotto l’ombra della sua mano aperta emergono i primi peli scuri. Sa che Kiku sta solo aspettando un segnale da parte sua, ma qualcosa lo tiene incatenato. E quel qualcosa può essere la paura che Kiku scappi di nuovo, il terrore di dover affrontare quell’umiliazione una seconda volta. E più di tutto, la paura di comprometterlo ancora.
«Vuoi continuare a guardare, oppure…?»
Yao ride di nuovo, non si aspettava questo sarcasmo da lui. Scuote la testa, torna serio. «Sai è che… le persone a cui ho dato il mio amore… beh, non hanno fatto una bella fine, ecco tutto.»
«Non m’importa. – Yao incontra i suoi occhi, non l’ha mai visto tanto deciso – Non m’importa, io lo voglio lo stesso.»
Yao ha il battito cardiaco nelle orecchie quando lo afferra per un fianco e lo attira a sé. I pantaloni di Kiku finiscono per terra insieme alla biancheria, un attimo dopo le labbra di Yao sono ancorate al suo collo diafano, fluttuano sulla mascella, sul naso, lambiscono il labbro superiore. Kiku è seduto a cavalcioni su di lui, gli poggia le mani sul petto per allontanarlo quel tanto che basta per guardarlo in faccia.
«So di averti ferito.»
«Non parliamone adesso.»
«Lasciami finire. Se non te lo dico ora non ci riuscirò mai. – Yao lo ascolta in silenzio, con entrambe le mani sul suo collo lungo. Kiku ha gli occhi di un penitente in ginocchio. – Per anni ho provato un’immensa vergogna al pensiero di quel che abbiamo condiviso. Adesso vedo che è… Yao, quella è stata l’unica volta in cui sono stato vivo. Mi dispiace averlo capito solo adesso.»
«Ora basta, – Yao gli sussurra sulle labbra – basta, non voglio che ti scusi. Voglio che mi ami.»
Kiku annuisce e socchiude gli occhi, ma quando Yao gli infila una mano sotto al cappello di lana sussulta. «No, ti prego.»
«Ti voglio come sei.»
Così Kiku si lascia sfilare il cappello, Yao passa una mano sui suoi capelli erbosi, si allunga per spegnere l’abatjour. Poco dopo sono nudi entrambi, Kiku si aggrappa alla sua schiena, sfrega un piede contro la sua caviglia. Mentre Yao gli morde la pelle della mascella sa che su quel letto sta avvenendo un sacrificio, che stanno consumando le rispettive carni, che si stanno donando l’uno all’altro come agnelli su un altare, stanno firmando un patto di sangue, si marchieranno a fuoco l’un l’altro, come bestie da macello, per la seconda volta, i loro corpi si uniranno e saranno il ponte dove le loro anime si incontreranno.
Mentre Yao affonda in lui stringe la sua mano forte e venosa, lo chiama: «Kiku.»
«Dillo di nuovo. Di’ il mio nome.»
«Kiku. Kiku, Kiku, Kiku. Tu mi rendi umano.»
Poi Kiku gli morde una spalla per non farsi sentire, stringe più forte la sua mano. Poco dopo Yao è steso sopra di lui con una mano sui suoi capelli e la faccia tra il suo collo rovente e il cuscino, gli carezza un fianco liscio con la mano libera. Si sistema meglio sul materasso per baciarlo, Kiku lo guarda con quegli occhi rotondi e infiniti, sorride.
«Che cosa vedi?» Gli chiede Yao.
Il sorriso di Kiku si allarga a mostrare gli incisivi inferiori storti e le fossette sulle guance, gli occhi gli si inumidiscono, tre le sopracciglia compare una rughetta.
«Me.»
 
Yao ha ripescato le foto dalla tasca della divisa, anche quelle erano tra gli effetti personali di Kiku. Erano due ma lui ne ha vista solo una. Nella tasca opposta c’erano le foto di Yao. Nel riquadro bianco che sta osservando sono rinchiusi i volti di tre persone: un uomo in piedi, in divisa, pluridecorato, capelli rasati, occhi all’ingiù; una donna seduta al centro della composizione, avvolta in un kimono, truccata quanto basta per dare un minimo di profondità al viso, un kanzashi3 di tartaruga in mezzo all’acconciatura voluminosa; accanto a lei un bambino non più grande di cinque anni, uniforme scolastica, taglio a scodella.
«Eri così serio.»
Kiku sorride, seduto con la schiena contro il petto di Yao. Prende un tiro di sigaretta. «Devo averlo preso da mio padre.» Yao si allunga verso il comodino per scrollare la sigaretta sul posacenere, osserva l’ombra del sorriso sulle labbra della donna. Kiku si gratta il mento, parla di nuovo. «Una volta mi hai chiesto se loro due si amassero.»
«Sì, mi ricordo. Eri troppo piccolo per capirlo.»
«Forse, ma non è l’unica cosa. – un altro tiro, quando riprende a parlare fa un gesto con la mano come a puntualizzare ciò che dice – Da quando conosco mio padre non l’ho mai visto esprimere affetto. Mai. Non voglio dire che sia una persona cattiva, non lo penso affatto. Anzi, sono certo che a suo modo gli sia importato, di me, di mia madre… ma è come se non lo toccasse nulla. A volte ho paura che me l’abbia trasmesso.»
«Questo non è vero.» Yao si sporge in avanti per guardarlo in faccia, gli prende il mento nella mano in cui stringe la sigaretta, avendo cura di non stringere troppo. «Non è affatto vero.»
Kiku forza un sorriso, poi torna a guardare le foto. Quello che stringe in mano è un mezzo busto di lui e dei suoi fratelli. Lui e Honghui indossano l’uniforme, Li è in abiti civili. Yao aveva ricevuto da poco la divisa, perciò non aveva ancora tagliato i capelli. Mei ha un’acconciatura da adulta, due fermagli con pendenti a forma di farfalle le incorniciano il volto, sulle labbra ha un sorriso forzato. Yao ricorda quando l’ha vista in camera sua, così agghindata, i ricami del lungo abito rosso scintillavano al sole. Yao ha bussato, lei non si è voltata. Così Yao si è seduto con lei, ha poggiato il mento sulla sua testa. Lei non lo ha respinto, ma Yao sapeva che stava accettando quel gesto d’affetto come un sopruso. Avrebbe voluto inginocchiarsi di fronte a lei, prenderle le mani e dirle: andiamo via, tu ed io. Togliti le scarpe e corriamo via da qui, saliamo su un treno, che vadano tutti al diavolo, non ci andare, lì in mezzo. Non ci andare. Invece Yao l’aveva avvolta in quella specie di abbraccio scomodo, le aveva detto: verranno giorni migliori, mèi-mei. Non esattamente quello che vorresti sentirti dire il giorno del tuo matrimonio.
Quasi all’unisono spostano le fotografie appena viste dietro a quelle ancora da vedere, si rendono conto di avere in mano due copie dello stesso ritratto. In entrambi i riquadri Yao si appoggia al muro della porta Jubao con una ciocca di capelli in faccia, Kiku è in piedi accanto a lui, stretto nel suo mezzo abbraccio.
A Kiku cade un po’ di cenere sulle coperte, gli sfugge un’imprecazione sottovoce. Yao trova il coraggio di dirgli: «Hai detto che volevi tagliarmi fuori dalla tua vita.»
«È vero.»
«Allora perché…»
«Te l’ho detto prima, Yao – Kiku prende un tiro profondo dalla sigaretta, l’estremità si illumina di rosso – Ho toccato una vetta, con te. Volevo qualcosa che mi ricordasse cosa sono in grado di provare. Volevo fissare un traguardo.»
Yao fissa i loro volti ravvicinati, il sorriso spontaneo sul viso di Kiku. È felice di vedere che somiglia a sua madre.
«Ora tocca a te.» dice Kiku, nella voce Yao avverte il contorno di un sorriso.
«Mi rammenta la mia umanità.» dice soltanto Yao.
Kiku si appoggia a lui, si volta per guardarlo negli occhi. Sembra così felice, così appagato di stare dove si trova. Yao lo capisce, ma sa anche che non potrà durare per sempre. Kiku sta evitando una domanda che entrambi sanno di doversi porre: verso cosa stiamo camminando?
Yao forza un sorriso, prende un ultimo tira dalla sigaretta e la schiaccia sul posacenere. Mentre ancora soffia il fumo mette via le foto con una mano e lascia una carezza sul braccio di Kiku con l’altra. «Coraggio – dice, mentre si allunga per spegnere la luce – è ora di dormire.» Kiku gli sorride, ma Yao ha notato che si è rabbuiato anche lui.
 
Yao non riesce a contare quanto tempo passa a fissare il soffitto. Di tanto in tanto, lì dove la luna macchia di blu quella distesa di intonaco, le ali degli aerei tagliano la notte. Forse avrebbero dovuto vestirsi. In questo modo se ci fosse un attacco aereo non dovrebbero preoccuparsi di spiegare alla signora Meng perché erano nudi nello stesso letto. La verità è che pensare a queste cose non è che una strategia per distrarsi dall’elefante nella stanza. Si volta, sulla sua spalla Kiku dorme indisturbato, Yao osserva le ciglia folte sulle guance e il lento abbassarsi e sollevarsi del torace. Se restassero dove si trovano li troverebbero in meno di una settimana, Kiku subirebbe le peggiori torture e poi verrebbero piazzati entrambi bendati di fronte al plotone d’esecuzione. Se Yao chiedesse aiuto ai comunisti sarebbe quasi impossibile presentare Kiku come cinese, lui verrebbe giustiziato come un criminale e Yao linciato come un traditore. Qualunque strada sembra senza uscita. Mentre lo osserva dormire Yao è sicuro di una cosa: Kiku deve vivere. Altrimenti questi ultimi giorni non avranno alcun senso.
Così si puntella su un gomito per alzarsi a sedere, il corpo accanto al suo ha uno spasmo.
«Yao–
«Va tutto bene – Yao gli carezza la fronte – va tutto bene, Kiku, devo solo usare il bagno. Torna a dormire.»
Kiku lo osserva a fatica da sotto le palpebre pesanti, chiude gli occhi. Yao si scansa le coperte dal grembo, si dirige alla scrivania.
Mǔma, come capisci quando sei nel posto giusto?
Lo capirai.
 
 
 
_____
Note:
  1. Vera Lynn, pseudonimo di Vera Margaret Welch, è stata una cantante britannica, attiva durante la Seconda guerra mondiale.
  2. Questa canzone, uscita nel ’39, è una delle più famose e rappresentative di questo periodo, ed è stata inserita in diverse opere cinematografiche e televisive contemporanee (ad esempio ne Il dottor Stranamore, di Stanley Kubrick), ma è stata anche citata in opere musicali, è il caso di Vera, canzone facente parte dell’album The Wall dei Pink Floyd (Does ananybody remember Vera Lynn?/ Remember how she said that we will meet again some sunny day?).
  3. Il kanzashi è un ornamento giapponese per acconciature femminili, introdotto nel periodo Edo, quando venne abbandonata la pettinatura taregami (che prevedeva che i capelli fossero lasciati crescere a dismisura e tenuti sciolti) e vennero adottate diverse pettinature dette nihongami, che prevedevano di tenere i capelli raccolti.
  
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