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Autore: Nariko_koi    23/05/2022    2 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nota d’apertura: vi anticipo che si tratta del capitolo più breve di tutta la storia, per questo motivo ho deciso di pubblicarlo insieme all’epilogo. Questo, e anche perché credo sia sensato leggerli uno dietro l’altro per una questione strutturale. Detto ciò, buona lettura!
 
 
Capitolo XIII
L’unica traccia
 
Al mattino la casa dormiva ancora. La prima cosa che vide appena aprì gli occhi fu la nuca folta di Kiku sul cuscino. Si sporse in avanti per baciargli il collo, per inspirare l’odore della sua pelle che la notte prima era ovunque. Kiku non disse nulla. Aveva gli occhi aperti in un’espressione distante, fissava la finestra di fronte a loro. Yao si chiese cosa stesse accadendo dentro di lui, che sembrava tanto indifferente. Gli sussurrò all’orecchio che andava a lavarsi, Kiku si limitò a guardarlo con un piccolo sorriso forzato e annuire. Yao non si alzò subito. Si permise di stringerlo a sé e posargli un bacio sulla spalla rotonda, poi si allontanò.
Mentre riempiva la vasca sentiva il bisogno di lavarsi via l’odore che la scorsa notte lo aveva eccitato. Era l’odore di due uomini sperduti che si cercano l’uno nell’altro, che si nascondono nello spazio trai loro corpi. Ora quell’odore, insieme allo sguardo distante di Kiku, lo ripugnava, lo riportava a una dimensione di freddo, di squallore.
Rientrato in camera da letto vide Kiku seduto rigido, tutto vestito, con le mani sulle ginocchia. In quella posa legnosa sembrava schiavo delle sue origini, che lo tenevano stretto come dentro a un involucro, lo isolavano da se stesso.
«Che c’è?»
«Niente, non c’è niente.»
Ma Yao sapeva che mentiva. Gli bastava guardare come teneva bassi gli occhi, come cercava di scomparire. Era chiaro che si pentiva di ciò che avevano fatto, che stesse sprofondando nella vergogna, nella ripugnanza di se stesso. Mentre si rivestiva Yao aveva l’impulso di abbracciarlo, di riportarlo da lui, ma quell’impulso frustrato si tramutò in malessere. E che cosa si aspettava? Kiku non sarebbe mai rimasto lì per lui, non avrebbe mai rinunciato alla sua vita, non avrebbe mai inflitto una coltellata simile a suo padre. Dio, non sarebbe neanche riuscito a guardarlo in faccia, suo padre, così come non riusciva a guardare in faccia Yao. Si sarebbero rifugiati in identità finte, costruite apposta per illudersi di essere normali, e semmai si fossero incontrati avrebbero consumato cinque minuti di trasgressione lontano dal resto della folla. Forse anche quello era un sogno irrealistico, forse si sarebbero persi e basta, come rette incidenti che si incontrano in un punto dolente e poi continuano ognuna per la propria strada.
A tavola non si parlarono, seguirono in silenzio i discorsi del resto dei Wang. A un certo punto Yao si azzardò a prendergli la mano da sotto il tavolo. Kiku si lasciò carezzare, strinse quella di Yao a sua volta per un breve momento, poi si riprese la sua. L’istinto di stringerlo che lo aveva preso alla gola un’ora prima si trasformò nella voglia di afferrarlo per il collo, di fargli del male, di dirgli: guardami. Si sentiva umiliato come un bambino in ginocchio sui ceci, come se lo avessero costretto a salire su una sedia al centro di una stanza affollata, indossando una benda con scritto “idiota”. In quel momento gli sembrava che tutti sapessero, i loro sguardi all’apparenza indifferenti gli bucavano la pelle come proiettili.
Quella stessa mattina Kiku venne a sapere che la nave che lo avrebbe traghettato in Giappone sarebbe partita in anticipo di qualche ora, e che sarebbe stato meglio salire sul treno per Shanghai prima del giorno seguente. Yao si offrì di accompagnarlo in stazione. Non si dissero nulla durante il tragitto in macchina, e neppure quando scesero dall’auto. Kiku si era messo addosso lo stesso yukata di quando si erano incontrati la prima volta, quasi volesse tornare indietro nel tempo, cancellare ciò che è accaduto nel mezzo. Yao sapeva che quell’abito voleva essere un simbolo di disciplina, di giustezza, qualcosa che richiamasse l’aura di incorruttibilità che lo circondava il primo giorno, al tavolo della colazione.
Yao insistette per pagare il biglietto, Kiku disse che non era necessario. Gli chiese se avesse soldi a sufficienza per quei due giorni di viaggio, Kiku lo rassicurò. Poi gli disse che aveva fatto sviluppare le fotografie di Nanchino, tirò fuori due copie identiche dalla tracolla di cuoio. Yao aveva una ciocca di capelli davanti alla bocca.
«Sono venuto male.» disse.
«Non dire stupidaggini.»
Yao lo aiutò a sistemare le valige nella cuccetta, controllò che il letto dello scompartimento fosse pulito. Kiku tentava di rassicurarlo con tono distaccato, ma Yao sapeva che i suoi modi celavano la muta preoccupazione che Yao potesse fare qualcosa di indecoroso, che potesse distruggere quella parvenza di normalità che Kiku si era tanto impegnato a costruire. Si guardarono i piedi, Kiku con le mani intrecciate e Yao con le mani nelle tasche, il capostazione fischiò il primo avvertimento. Yao si grattò il naso.
«Allora io vado.»
«Grazie di tutto, Yao-san
Annuì e scese dal treno. Appena oltrepassò l’ultimo gradino avvertì un pugno colpirlo tra sterno e ombelico, gli mancava l’aria. Deglutì a vuoto, sforzandosi di non voltarsi verso il finestrino della cuccetta di Kiku. Se fossero stati i protagonisti di uno dei film di Mei, Yao sarebbe tornato indietro correndo, avrebbe preso Kiku per le spalle e lo avrebbe pregato di rimanere con lui, nella sua casa, nella sua vita. Se te ne vai mi uccidi.
Mentre il capostazione chiudeva le porte del treno e la ciminiera fischiava, Yao comprese per la prima volta in sei lunghe settimane quanto lo aveva amato, così come aveva compreso quanto aveva amato Nilufar solo nel momento in cui l’aveva vista toccare terra, in fondo alla collina.

 
***
 
Arthur lo trovò a fumare sul portico, il sole stava calando e le zanzare gli stavano divorando le braccia. Quando lo vide spuntare da dietro un angolo, Yao si chiese come fosse possibile che stesse andando via dopo Kiku. Che razza di bastardata, pensò. Arthur si appoggiò a un muro con le spalle, fissava l’acqua luccicante d’oro del fiume. «È già andato via?» chiese. Yao lo ignorò. Invece inspirò un tiro profondo di fumo, con l’aria stanca dei vecchi che osservano la vita scorrere loro davanti.
«Avevi ragione Arthur. – borbottò con la sigaretta ancora tra le labbra – L’ho trascinato in un baratro, come avevi previsto. Congratulazioni per la tua intuizione.»
Arthur prese un respiro profondo, poi disse, con estrema fermezza, come se stesse dando un ordine da generale: «Yao, mi dispiace.»
Yao abbassò lo sguardo. «Vuoi sapere la cosa buffa? – scrollò la cenere sul piattino – forse non mi ha mai amato.»
«Ma tu hai amato lui. È abbastanza.»
Yao soffiò una risata amara. «Come fa a essere abbastanza?»
Si voltò a guardarlo, Arthur sorrise. «Perché, alla fine di tutto, l’amore che diamo agli altri è l’unica traccia che lasciamo di noi.»
  
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