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Autore: settembre17    27/05/2022    24 recensioni
Si parte dalla liberazione dei soldati, ma si torna anche un po’ indietro e si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Si parte dalla liberazione dei soldati, poi si torna un po’ indietro e poi si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
La storia e i personaggi sono di Madame Ikeda e della sua meravigliosa fantasia.
Buona lettura e sempre grazie a chi vorrà dedicare il suo tempo a questo nuovo esperimento.


 

Jours de gloire

 
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
 

 

Una birra


30 giugno 1789
“Qui sta succedendo qualcosa di grosso…” disse uno dei dodici soldati della Guardia.
“Alain!” chiamò un altro che cercava di arrampicarsi fino alla bocca di lupo per vedere fuori attraverso le sbarre.
“Che c’è? Lasciami in pace”, Alain fingeva di sonnecchiare seduto in un angolo, le gambe allungate e intrecciate sul pavimento sudicio della cella.
“Ma non sentite anche voi, ragazzi?”
“Sì, si sente gente che urla… tu capisci che cosa dicono Marcel?”
“No, non si sente… accidenti, queste mura sono troppo spesse…”, Marcel schiacciò con frustrazione il palmo delle mani sulle pietre come se potesse spostarle solo con la sua volontà. Poi stese le braccia e, ormai rassegnato al suo destino, lasciò ciondolare in mezzo la testa, con le onde bionde dei capelli che gli coprivano gli occhi.
“Alain…?”, chiese un soldato dallo sguardo smarrito.
“Che vuoi? Ti ho detto di lasciarmi in pace! Anzi state tutti zitti! tutti zitti ho detto!”
Il silenzio calò nella cella in cui i dodici soldati erano rinchiusi: erano accusati di alto tradimento perché avevano osato disobbedire agli ordini di un generale. Non erano nemmeno stati convocati di fronte alla corte marziale: la sentenza era stata emessa senza alcun processo. Sarebbero morti tutti. Tutti. Mancavano poche ore ormai.
Ad Alain l’idea di morire non piaceva per niente; l’idea poi di morire così, senza nemmeno un processo in cui far valere le sue ragioni, era una cosa che lo mandava su tutte le furie. Ma non c’era solo quello a renderlo insofferente e intrattabile: due altri pensieri lo angustiavano ancor più di quello di finire i suoi giorni fucilato nel cortile sudicio di quel carcere.
Il primo era che insieme a lui sarebbero morti anche i suoi compagni. L’avevano seguito in quella follia di disobbedire al generale Bouillé e lui se ne sentiva responsabile: se ci ripensa gli torna in mente il rumore della pioggia sul selciato, le gocce d’acqua che scendono a rivoli dalla visiera del cappello e davanti a lui, sorretto dai sottili garretti di un cavallo che evidentemente chiedeva pietà, quel gigantesco generale che aveva parlato quasi senza muovere i baffi e aveva intimato a loro, a loro!, di prendere le armi per sgombrare la sala dove erano ancora riuniti i rappresentanti del popolo. Ah! Ma che si credeva quello lì? Alain sentiva ribollire ancora il sangue quando ripensava al tono della voce di quel generale. Ed era stato proprio allora, proprio in quel momento, che lui aveva iniziato la sua personale rivoluzione: era rimasto fermo, aveva richiamato i suoi compagni che, spaventati dalla mole e dall’autorità di quel tizio che alla fine era un solo un uomo, un uomo che come tutti la faceva in un pitale per intenderci, stavano correndo pronti ad obbedirgli e allora lui, Alain, aveva alzato la voce, li aveva fermati, “che cosa state facendo?”, e poi aveva guardato in faccia quel generale, anzi, quell’uomo, e gli aveva detto, un’insubordinazione bella e buona, altroché!, che loro prendevano ordini solo da una persona. E che quella persona non era il generale Bouillé.
E questo lo portava dritto al secondo pensiero, cioè a quella persona, al comandante Oscar. E si pentiva Alain di aver detto davanti a quel bue in alta uniforme e mantello “Noi obbediamo solo al comandante Oscar François de Jarjayes”, se ne pentiva perché con quella frase aveva messo di sicuro nei guai lei. Da subito si era chiesto quali conseguenze il comandante avrebbe subito per la diserzione dei suoi soldati e aveva immaginato tragici scenari, una notte si era persino sognato il padre di lei che la uccideva per lavare l’onta recata al nobile casato dei Jarjayes! “Sono capaci anche di queste follie i nobili…” si era detto svegliandosi di soprassalto appena prima che, nel suo sogno, il generale sparasse a sua figlia. In ogni caso, la certezza che la loro disobbedienza aveva sicuramente aggravato la posizione del comandante Oscar lo tormentava. Magari le avevano tolto i gradi… magari l’avevano esiliata da qualche parte… nelle Indie? Non sapeva nemmeno dove fossero le Indie, lui. Una volta Marcel gli aveva parlato di un posto con un nome... che diavolo di nome era? Martinica? Sì, Martinica… Il comandante Oscar esiliata in Martinica… Che assurdità si vanno a pensare quando si sta per morire!
Ma il comandante rischiava davvero la corte marziale, e di nuovo Alain si incupiva, lei rischiava la carriera e la vita… Si grattò con il pollice in mezzo alla fronte e poi rovesciò il collo all’indietro, appoggiando la testa sulla parete della cella.
E allora con sollievo pensò che con lei c’era André e questo lo rassicurò: André l’avrebbe protetta, l’avrebbe protetta persino da suo padre, André l’avrebbe seguita. Anche nelle Indie, anche in Martinica!, se così doveva essere.
All’improvviso Alain piegò le gambe e si accucciò vicino alla porta, avvicinando l’orecchio alla porta.
“Che succede, Alain?”
“Sssht!”
“Ehi, ma questi sono passi… sì è la guardia, sento sbatacchiare le chiavi che si porta appese alla cintura…”
“Allora è arrivato il momento…”, a Marcel prese un tremore violento e il suo volto divenne terreo. Quante volte aveva detto che non gli importava di morire? Una scossa lungo la schiena gli disse che non era vero per niente.
Sentirono gli stivali fermarsi al di là della loro porta. La guardia girò la chiave e la porta si aprì, come se avesse una forza propria. Poi nel silenzio di quelle quattro mura, quella guardia, che aveva su di sé gli occhi di dodici condannati a morte, disse le parole che, per tutta la sua vita, ricordò come le più belle parole che avesse mai pronunciato.
E disse:
“Siete liberi.”
 
Nel tramonto estivo di quel 30 giugno, dodici soldati malconci ma fieri e commossi uscirono dalla prigione dell’Abbazia in mezzo a una folla di gente che li applaudiva, li salutava, li acclamava.
Undici di loro, increduli, ricambiavano quei saluti stringendo mani e voltandosi di continuo indietro per vedere allontanarsi quella maledetta porta. E proprio mentre con gli occhi vagava da un volto all’altro, con le mani toccava altre mani protese verso di lui, mentre, ormai fuori controllo per l’euforia, lanciava baci ad ogni volto di ragazza, fu allora che Marcel Laroche, spostandosi il ciuffo biondo dalla fronte sudata intravide in mezzo a tutte quelle persone il volto incavato e segnato di un uomo di mezz’età che lo guardava con gli occhi lucidi e timidamente gli sorrideva. Marcel ricambiò quello sguardo solo per un istante, giusto il tempo di trasformare il suo sorriso in una smorfia di disprezzo. Poi, senza nemmeno alzare la mano in segno di saluto, diede le spalle a suo padre.
Uno di quei dodici soldati, invece, era sgusciato via in fretta dagli abbracci della folla e camminava a passi lunghi e decisi verso la fine del viale d’accesso alla fortezza, dove aveva visto da subito, appena varcata la soglia del carcere, le sagome delle due persone a cui voleva più bene. Un uomo e una donna a cavallo. André e Oscar.
Alain sentì che tutto andava a posto e sentì nascere il sorriso sul suo volto e qualcosa di umido tra le ciglia.
Allungò la mano verso di lei e lei la strinse: le dita di una donna nella stretta decisa di un uomo.
E lei, come al solito, non volle alcun merito e disse:
“Non devi ringraziare me, devi ringraziare il popolo”.
Ma lui lo sapeva che senza quella donna meravigliosa il popolo non si sarebbe riunito intorno a quella prigione per chiedere che fossero liberati.
 
Quando anche gli altri soldati raggiunsero il comandante Oscar erano ormai inebriati dalle violente emozioni di quella giornata e siccome in quella euforia il pensiero di separarsi era impensabile, perché si sentivano un corpo solo reduce dal rischio più grande che un corpo può correre, Marcel, con la camicia tutta aperta sul petto giovane e glabro su cui dondolavano le maniche della giacca che si era annodato al collo, urlò:
“Ragazzi, qui ci vuole una birra! Conosco il posto giusto! Comandante! Non dite di no! E anche tu André!”, aveva un sorriso così bello, gli incisivi superiori grandi e un poco più lunghi di quelli laterali, e uno sguardo così acceso, che non gli si poteva resistere.
André guardandolo sorrise.
“Non dite di no, comandante Oscar!”
Lei si accorse di quel sorriso.
“Una birra comandante! Un brindisi alla vostra salute!”
Una birra, solo una birra.
“Offriamo noi comandante, eh!”
Lei non poté far altro che acconsentire e così si avviarono tutti alla taverna più vicina. Invasero la stanza angusta e ancora vuota di clienti con la loro chiassosa allegria e poi presero posto, alcuni ai tavoli, alcuni al banco.
Cantavano, si davano manate sulle spalle, ridevano, brindavano con tale energia che nel giro di poco i boccali già traboccavano e la schiuma raggiungeva le pietre del pavimento.
Marcel, al bancone, con lo sguardo un po’ spiritato e il gomito appoggiato alla spalla del compagno seduto sullo sgabello vicino, gesticolava mimando nell’aria gli eventi delle ultime ore. L’altro accennava con metà faccia nascosta nel boccale, mentre la voce forse troppo stridula di Marcel si impennava in descrizioni entusiastiche delle ragazze che era riuscito ad abbracciare.
 
Solo al tavolo del comandante la conversazione languiva: Oscar si fingeva interessata all’esuberante vivacità dei suoi soldati e li osservava con eccessivo interesse, notò Alain. Gli sembrò che stesse fissando gli altri perché faticava ad osservare… André. Ma non era arrabbiata con lui, no… ad Alain sembrò piuttosto che lei fosse… a disagio? Anche quel gesto che faceva di sistemarsi in continuazione il polsino… non gliel’aveva mai visto fare quel gesto…  Decise di rompere il ghiaccio:
“Allora, André, che cosa hai combinato in questi giorni? Te la sei cavata anche senza di me?”
André si sforzò di sorridere, pensò alla sera in cui era stato così vicino alla morte da sentirla soffiare sul suo collo, alla sera in cui senza vergogna e senza timore aveva confessato al generale quanto amava Oscar, alla sera in cui lei era riuscita solo a dire “André, io…” e poi pensò ai giorni successivi, sempre in servizio, alle rare volte in cui era riuscito a parlare con lei e quasi solo a proposito di Bernard e del suo piano, a quell’unico brevissimo momento da soli lungo la Senna a Saint-Denis, e rispose:
“Certo che me la sono cavata. Ti ho preparato la branda e pulito il fucile, tanto sapevo che saresti tornato…”
Lei fece un piccolo sorriso.
Alain si grattò il mento con aria perplessa: “Ti credevo in licenza in questi giorni. Non sei tornato… da tua nonna?”
Lei si irrigidì e si sistemò il polsino, da tua nonna
“No, sai com’è, eravamo in pochi in caserma senza di voi e così ho rimandato il congedo. Vedrò la nonna un’altra volta.”
Lei abbassò lo sguardo.
Calò di nuovo il silenzio a quel tavolo, mentre intorno sembrava scatenarsi una giostra di felicità. Ormai tutti cantavano senza intonazione e senza ritegno mentre le ragazze si facevano scegliere senza pudore.
 
Alain pensò che un tempo lì in mezzo ci sarebbe stato anche lui. Invece ora stava bene lì. La birra era anche incredibilmente buona in quel posto, non sapeva di piscio allungato come nelle taverne che frequentava lui. Il sapore della birra, la compagnia degli amici, la libertà: che cos’altro può volere un uomo?
Così osservò sé stesso e gli altri, stupendosi di quanto gli piacesse ultimamente, per la precisione da quando aveva buttato l’ultima zolla di terra sulle tombe di sua madre e di sua sorella Diane, di quanto gli piacesse parlare poco e raccogliere dettagli e particolari della vita che gli si muoveva intorno.
André, per esempio, beveva a sorsi lunghi e lenti, teneva il boccale con la mano destra, lo abbracciava con le dita ignorando il manico e poi portava il bicchiere alle labbra socchiudendo l’unico occhio, senza strizzarlo, però, come faceva altre volte. Il Comandante poi non aveva bevuto neanche metà boccale, se lo rigirava tra le mani da tanto di quel tempo che di sicuro quella birra era diventata imbevibile… gli occhi erano stanchi e forse era un po’ pallida, ma si vedeva che era soddisfatta, che la tensione la stava abbandonando per lasciare posto alla spossatezza di chi ha finalmente il cuore in pace. Gli altri soldati, invece, ormai senza freni, tuffavano la faccia nel boccale e i loro volti risalivano gocciolanti di schiuma e di birra; il tragitto era sempre lo stesso: un volo dall’alto al basso, le labbra che precipitano sul boccale inclinato quanto basta, i gomiti larghi sul tavolo.
Lui e André no, pensò Alain, loro preferivano un percorso diverso e il boccale veniva sollevato su, fino alle labbra, dove si fermava per qualche istante. E poi di nuovo giù, lentamente, sul piano del tavolo.
Per un momento si sentì invecchiato, Alain.
Se avesse conosciuto André dieci anni prima avrebbero bevuto come Dio comanda: con la testa rovesciata all’indietro, e poi un sonoro tonfo sul tavolo, magari facendo a gara a chi finiva per primo, magari giocandosi a testa o croce il bicchiere successivo, magari adocchiando qualche ragazza allegra e generosa…
Alain scosse la testa con un sorriso amaro: non c’era più tempo per quella leggerezza. Il sorriso spensierato di Diane lo colpì a tradimento e lo costrinse a una smorfia involontaria che André colse in silenzio.
“Si è fatto tardi. Torno a casa”, disse lei sforzandosi di usare il suo tono risoluto.
Alain si alzò e le tese ancora una volta la mano: sapeva che in quel gesto lei avrebbe saputo leggere tutta la sua gratitudine e la promessa di una fedeltà che mai sarebbe venuta meno. Lei gli strinse la mano con un mezzo sorriso, guardò Alain brevemente negli occhi e poi lasciò scivolare lo sguardo giù, verso le loro mani, che erano unite proprio all’altezza del volto assorto di André. Non riuscì a impedirsi di ruotare leggermente il collo perché i suoi occhi potessero abbracciarlo per un istante solo e quando si accorse che lui non la stava guardando ma che fissava il fondo del suo boccale, si risolse ad andare. Si strappò via dall’unico occhio di André che per una volta non guardava lei, si strappò via dalla riconoscenza di Alain, dai saluti scomposti ma pieni di affetto degli altri soldati, si strappò via da quella taverna e lanciò il suo cavallo nel vento.
 
“Un altro giro?” chiese André con la voce bassa.
“Come vuoi, amico.” Alain voltò la sedia e si sedette a cavalcioni.
La cameriera arrivò con due boccali schiumanti e li appoggiò sul tavolo in modo frettoloso, poi si girò con una teatrale piroetta ed ancheggiando raggiunse a metà scala Marcel Laroche, che la stava aspettando con lo sguardo di chi ha deciso di finire il gioco iniziato anche se quel gioco ormai lo disgusta.
 
Alain fece durare a lungo la sua birra nella speranza che André si decidesse a parlare, ma quello continuava a tacere. Allora si sforzò di ascoltare il silenzio di André; e in quel silenzio lui sentì davvero, e sentì che per la prima volta nella sua vita poteva dire di avere un amico.
E quell’amico gli stava dicendo: Stai qui con me, Alain. Beviamoci una birra senza dire niente. Non c’è niente da dire. Del tuo dolore, del mio… non c’è niente da dire. Ma avere un amico rende tutto più sopportabile, vero? Non ti chiederò che cosa hai provato in quella prigione, non ti chiederò se hai pensato a Diane quando credevi che saresti morto anche tu. Eppure queste sono le uniche domande che contano. Ma adesso beviamoci solo questa birra, Alain. Una birra insieme. Non ti chiederò se hai paura di quello che accadrà in questo paese perché, Dio!, è una domanda così stupida! Certo che abbiamo paura… Ma adesso beviamoci solo una birra, amico mio. È più di quanto sperassimo di poter fare fino a ieri.
Alain sorrise tra sé e facendo roteare il fondo del boccale sul tavolo in un silenzio commosso gli rispose: Sì, è così. Beviamoci questa birra, amico mio. Fino a qualche ora fa credevo che avrei visto il plotone d’esecuzione; invece, ho visto la tua donna che stendeva una mano verso di me… un angelo salvatore, la tua donna. E tu sei così triste, amico mio… è successo qualcosa, in questi ultimi giorni, vero? No, non te lo chiederò. Credi che non abbia notato il vostro silenzio? Ho imparato a riconoscere i vostri silenzi: alcuni sono belli, ve li invidio. Quello di stasera, invece, era così… pesante, amico. Che cosa vi sta succedendo? No, non te lo chiederò. Ma lo vedo che ogni volta che socchiudi l’occhio per bere la tua pupilla si sposta verso la porta… tu speri che lei torni? O vuoi fissare nella memoria l’immagine di lei che se ne va? No, non te lo chiederò. Ma una cosa, una sola, stasera te la voglio dire, amico mio.
 
“Lei ti ama, André”, disse Alain appoggiando il boccale sul tavolo.
Gettò lì la frase senza aspettarsi una risposta.
Ma André rispose. E disse:
“Certo che mi ama”.
Alain non l’aveva mai visto così serio, così sicuro, così rassegnato.
Poi André gettò qualche moneta sul tavolo e uscì.
   
 
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