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Autore: settembre17    09/06/2022    17 recensioni
Si parte dalla liberazione dei soldati, ma si torna anche un po’ indietro e si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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La luce del mattino

 
1° luglio 1789
 
Marcel Laroche aprì gli occhi infastidito da una mosca che ronzava insistente intorno al suo orecchio. Agitò la mano in aria con un movimento indolente cercando di recuperare da qualche parte le forze necessarie a capire dove fosse e che ore fossero.
Non si stupì di non conoscere il letto in cui si trovava e, quando ruotò la testa alla sua destra, oltre la spalla, non si stupì nemmeno di vedere una schiena nuda e riccioli neri sparsi su un cuscino dalla federa ingiallita. Quello che un po’ lo stupì, nel sollevare il busto puntando i gomiti sul materasso sfondato, fu constatare che al di là di quella tizia sdraiata, in effetti, ce n’era un’altra, di tizia.
Si grattò la testa pensieroso e aggrottò le sopracciglia. No, proprio non ricordava.
Erano tutti e tre nudi, constatò ancora intorpidito dal sonno.
“Devo essermi divertito”, pensò sbadigliando.
Poi si alzò e si diresse alla piccola specchiera basculante appoggiata sul comò cercando di non inciampare nei vestiti seminati sul pavimento e soffocando a stento un’imprecazione quando il suo piede nudo calpestò la forcina più appuntita di Francia.
Il sole intanto non era ancora entrato in quel vicolo e quindi la stanza era avvolta nella penombra: Marcel ruotò lo specchio in modo che la poca luce proveniente dalla finestra gli restituisse la sua immagine.
Quello che vide lo impressionò: era molto dimagrito in quella settimana di carcere, la fame e la paura avevano allontanato dal suo volto la bellezza della gioventù e, lui non ne era ancora consapevole, gli avevano dato il fascino dell’età matura, che, come diceva sua madre, tanto dona agli uomini e che raramente si posa con grazia sulle donne.
Si passò una mano sulle guance sfiorando il punto in cui un tempo una piccola fossetta faceva capolino insieme al suo sorriso e poi fece scorrere le dita fino ad accarezzare le basette e la barba bionda che, dopo una settimana senza rasatura, rendevano il suo aspetto vagamente selvatico.
Aveva anche le occhiaie, gli occhi gonfi per il troppo bere, e cerchiati di rosso per il troppo sesso.
Si grattò distrattamente una natica e poi iniziò a raccogliere i suoi vestiti e a vestirsi.
Mentre la camicia scivolava sul suo torace, il tessuto leggero copriva un tatuaggio nascosto a lato del cuore, poco al di sotto dell’ascella. Aveva una storia quel disegno.
 
Gli avevano detto che c’era un tizio che faceva tatuaggi sul retro di un bordello vicino ai giardini del Luxembourg. E allora quel dannato giorno, circa un anno prima, Marcel gli si era parato davanti con lo sguardo più disperato che un essere umano possa dipingersi sul volto, con gli occhi pieni di una furente follia. Aveva fatto cadere sul tavolaccio un sacchetto di monete e poi rivolto a quel tizio, con una durezza che la sua voce mai aveva avuto prima, aveva trascinato fuori dai denti quattro parole:
“Dove fa più male?”
“Sulle costole” aveva buttato lì con assoluta indifferenza l’altro.
Marcel si era lasciato cadere su una sedia impagliata e si era alzato la camicia, poi, fissando il vuoto davanti a sé aveva detto:
“Due cuori. Vicini ma non uniti. Legati con una catena. Una goccia di sangue sotto ogni cuore.”
 
Un frusciare di lenzuola lo mise in allarme: Marcel accelerò la vestizione per poter sgattaiolare via più in fretta possibile senza essere costretto a smancerie o, peggio ancora, a nuovi incontri ravvicinati. Ne aveva avuto a sufficienza e ora doveva tornare in caserma.
Mentre quelle due annunciavano il prossimo risveglio con mugolii e stiracchiamenti davvero poco eleganti, Marcel infilò la porta e se la richiuse velocemente alle spalle. Pagò la notte, “Tutto compreso, eh” disse all’oste, e poi uscì con la camicia aperta e la giacca in mano. Doveva correre se voleva arrivare in tempo in caserma, pensò.
Svoltò l’angolo e si fermò nel vicolo stretto sul retro della taverna a svuotare la vescica contro il muro. E mentre era lì, assorto a godersi quel prosaico piacere, riconobbe in quel muro tutti i muri della sua infanzia e quelli della sua giovinezza, in quelle crepe lo sfondo di una gioventù passata in mezzo a quelle strade di Saint-Germain. Sentì il dolore afferrarlo alla gola e gli venne da vomitare. Allora decise di correre, di correre via.
E Marcel corse, attraversando strade che conosceva fin da bambino, perché lui in quel quartiere c’era cresciuto e ora, sì, correva perché era in ritardo, ma correva perché non voleva camminare in quelle strade, non voleva fermarsi in quei vicoli, non voleva guardare il bucato steso alle finestre, non voleva incontrare persone conosciute a cui rendere conto di troppe cose, non voleva incontrare nessuno, nessuno e specialmente, all’improvviso l’immagine di un uomo vecchio e stanco con un braccio alzato in mezzo alla folla lo assalì, sì, specialmente era quel vecchio che lui non voleva incontrare. E correre, ancora, correre via perché laggiù a destra, c’era lo scorcio di una strada, sbarrata e chiusa in fondo al pozzo nero che era diventato il suo cuore, una strada in cui non doveva passare perché lì faceva troppo male. Faceva ancora, faceva sempre troppo male pensare a Joséphine.
E così Marcel correva, correva senza pensare a baci e promesse, a lacrime e sorrisi, “Joss…”, correva e la sua gioventù sosteneva la sua corsa, le gambe lunghe scavalcavano pozzanghere e rifiuti lasciati a marcire in mezzo alle strade, “Joss…” il sudore imperlava la sua fronte che il vento liberava dal ciuffo biondo dei capelli, gli occhi luccicavano al sole e le guance si coloravano nello sforzo di non perdere il passo, di non rallentare, “Joss…”, finché non si fosse parato davanti a lui il cancello spalancato della caserma dei soldati della Guardia Metropolitana.
 
“Laroche!”
Marcel sentì quella voce alle spalle e si irrigidì, poi in fretta e furia chiuse la camicia, infilò la giacca e si voltò verso il suo comandante.
“Comandante!” fece il saluto militare meglio che poteva, ma il sudore che gli appiccicava i capelli sulle tempie e sul collo e il fiatone che ancora gli faceva sobbalzare il petto non contribuivano a fare di lui il perfetto soldato che il comandante di sicuro si aspettava.
Il comandante però lo sorprese e gli sorrise:
“Vai a sistemarti nella tua camerata, Laroche, la rivista sarà tra mezz’ora”.
“Agli ordini, Comandante!”, si voltò dopo aver battuto i tacchi e aver fatto nuovamente il saluto, ma lei lo fermò:
“Laroche…”
“Comandante...?”
“Nei giorni scorsi ho avuto modo di conoscere tuo padre. È stato qui ogni giorno, era molto spaventato per la tua sorte. Immagino la gioia che hai provato nel rivederlo…”
“Mio padre…”, fece un sorriso ironico, “…e ditemi, comandante, vi ha portato del denaro mio padre?”, il bel volto di Marcel si contrasse in una smorfia di disgusto.
Lei fece un’espressione sorpresa. In effetti…
“Oh, comandante, non stupitevi. Mio padre è così. Sistema tutto col denaro, lui”, e nel dire quelle parole Marcel divenne pietra. Poi aggiunse:
“In ogni caso no, non l’ho rivisto, comandante. E ora scusatemi, vado a prepararmi per la rivista”.
Oscar lo vide volare via, come il vento quando è arrabbiato e i suoi soffi portano solo cattivi pensieri.
 
Mentre ancora lo guardava sentì risuonare sul selciato un rumore conosciuto. Chiuse gli occhi e accompagnò con la mente, uno dopo l’altro, i passi alle sue spalle, la cadenza di quell’incedere che era il suono che da poco aveva scoperto di amare da tutta una vita. Poi sentì anche la sua voce:
“Comandante…”, e si gustò quel timbro di voce sempre ad occhi chiusi, giusto un istante.
Poi, con il solito piglio, si girò e dall’alto del suo cavallo lo guardò e rispose al suo saluto:
“Soldato Grandier…”
Lui proseguì oltre, verso la fucileria.
“André…” disse lei allora.
Lui si fermò e si guardò attorno: controllava che non ci fosse nessuno, che nessuno avesse sentito. Visto che erano soli, allora fece qualche passo verso di lei:
“Che cosa c’è, Oscar?”
“Fa caldissimo, vero?”
André vorrei dirti… vorrei portarti… c’è un posto, André, un posto che ti vorrei mostrare…
 
“Siamo in luglio… e queste divise proprio non aiutano…”
Stai bene? Mi sembri così pallida in questi giorni… Ti prendi cura di te?
 
“Già… pare che stia arrivando un altro temporale…” disse lei osservando intenta il cielo per non dover abbassare gli occhi sul volto di lui.
Resta qui ancora un po’, André, anche se non so che cosa dirti… resta qui con me
 
Lui la guardava, in attesa. Di certo non l’aveva fermato per parlare del tempo.
Che cosa vuoi che faccia, Oscar? Non ti capisco… parlami o congedami, ti prego…
 
“André… tu che cosa sai di Marcel Laroche?”
È meglio concentrarsi su altro, vedi? Possiamo stare vicini, possiamo parlare, sei qui davanti a me, e sei bellissimo, André, e possiamo parlare di Marcel, possiamo trovare un terreno su cui muoverci insieme senza essere costretti a interrogarci sul nostro essere insieme, sì, parliamo di Marcel, André, parliamone finché il dovere non ci chiamerà, stai qui con me, stai qui a parlare con me…
 
“… un tipo in gamba, forse un po’ inquieto… perché?”
Vuoi parlare di Marcel? Davvero? E va bene, parliamo di Marcel…
 
“Sai perché si è arruolato?”
Certo che lo sapeva, ma non aveva proprio voglia di discuterne con lei. Non con lei, non in quel momento.
“No, Oscar, non so nulla. Perché?”
“Ho conosciuto suo padre nei giorni scorsi… è venuto spesso per avere notizie… Tu sai che lavoro fa?”
“Fa il pellaio, a Saint-Germain, la Villier frères è sua”
“La Villier frères…?”
Un concitato battere d’ali di un gruppo di colombi li interruppe ed entrambi guardarono verso il punto da cui quel rumore era partito, seguirono l’alzarsi in volo dei colombi e poi i loro sguardi scesero di nuovo e si incontrarono lì, a metà strada tra il cielo e il muso mansueto di César.
 
Se io non fossi a cavallo, André, non resisterei e ti prenderei la mano
Se tu non fossi a cavallo, Oscar, non resisterei e allungherei la mia mano verso la tua guancia
 
Poi entrambi videro entrare nella piazza d’armi il colonnello d’Agoult a cavallo.
 


23 giugno 1789 notte, 24 giugno mattina
 
Quando il messo della regina se ne andò, André vide il generale rivolto verso sua figlia e verso di lui, vicini alla balaustra dello scalone. E siccome lei ancora taceva, André fece un respiro e si staccò da lei, da lei che non si muoveva e continuava a tenere lo sguardo fisso al pavimento dell’atrio, anche se ormai lì non c’era più nessuno da vedere o da ascoltare.
Poi, come mossa da una forza esterna, lei ruotò leggermente la testa fino a incrociare l’unico occhio di André, ma gli occhi le si riempivano di pianto e si sentì incapace di dire qualunque cosa, così abbassò subito lo sguardo, come se stesse rinunciando ad affrontare le conseguenze di tutto quello che aveva appena vissuto.
Lui la guardava con tenerezza e con comprensione non aspettandosi nulla più di quel silenzio. Poi, sapendo che lei in quel momento non sarebbe stata in grado di trovarsi sola di fronte a lui e così per liberarla dalla sua presenza davvero troppo ingombrante, si avvicinò a sua nonna, che ancora era accucciata a terra, fuori dallo studio in cui tutto si era consumato, e la fece alzare delicatamente abbracciandola e sostenendola finché fu in piedi. Ma la nonna lo sorprese perché, una volta dritta sulle sue gambe, non lasciò la presa e tenne le sue dita arpionate al braccio di André e poi con le labbra strette sussurrò:
“Portami nella mia stanza, André”.
“Andiamo, nonna”.
Passarono alle spalle di Oscar, ancora appoggiata alla balaustra, e la nonna nel passarle vicino tirò un po’ su con il naso: avrebbe voluto stringerle una mano, darle una carezza sulla testa, come quando era una bambina che mangiava i biscotti al tavolo della cucina con i piedi che penzolavano dalla sedia senza arrivare al pavimento, ma non era il caso, no, davvero, non era il caso.
Invece la superò e scese le scale senza mai lasciare André che la sosteneva.
Superò il generale senza guardarlo, solo stringendo un po’ più forte il braccio di André, e poi, una volta in cucina, gli disse: “Accompagnami in camera mia, André, ho bisogno di una mano stasera”.
 
La nonna chiuse la porta alle sue spalle, poi indicò ad André la poltrona vicino al letto:
“Per favore, André, siediti”.
“Nonna, domani devo svegliarmi presto, mi aspettano in caserma. E anche tu hai bisogno di riposare…”
“No. Adesso stai qui perché mi devi ascoltare.”
“Non c’è niente da dire, nonna.”
“Eccome se ci sono cose da dire. Ce ne sono moltissime, André.”
“Nonna, le parole non cambiano le cose.”
“Ascoltami, André, non ti voglio parlare di sentimenti, né di Oscar, né di te. Credi che io non sappia? Che io non veda? Vivo in questa casa da quando il generale era più giovane di te, ne ho viste molte di cose… ma… ma quello che ho visto e che ho sentito stasera…”
“Ma il pericolo è passato ora. Tutto è finito bene. Siamo ancora tutti qui”, cercò di tagliare corto lui.
“No! Niente è finito. Almeno per me”.
Sentì il tono di voce indurito, l’inflessione tipica di chi sta comunicando una decisione definitiva.
“Ti ascolto”.
Allora lei si parò di fronte a lui, i pugni stretti lungo i fianchi.
“Io non credo che potrò mai perdonarlo. Quello che voleva fare stasera a Oscar è al di là della mia comprensione e del mio perdono. L’avrebbe trafitta con la sua spada, l’avrebbe uccisa! E avrebbe ucciso anche te. Come posso restare a servizio di un uomo che potrebbe avervi entrambi sulla coscienza? Come posso prendere ordini da un uomo così?”
“Nonna, il generale è un uomo che ragiona secondo le regole del suo tempo e del suo rango, non fingere di non conoscere quello che noi sappiamo da sempre. I nobili lavano così l’onta del tradimento”.
“Non nel 1789, André, non adesso, non più. Non lo posso più sopportare”.
“Nonna…”
“Senti, non è necessario essere giovani per capire quello che non si può più accettare, non è necessario essere giovani per desiderare un mondo più giusto”. Il mento le tremava. Aveva iniziato la sua rivoluzione.
Le strinse la mano.
“Non voglio parlare di quello che provi per Oscar, e nemmeno di quello che lei prova per te. Sono fatti vostri e siete due persone talmente riservate che mi sembrerebbe di invadere la vostra intimità parlando di questo. Ma non posso perdonare, non posso accettare quella spada levata sulla testa di Oscar o sulla tua”.
“Quindi, che cosa vuoi fare, nonna?”
“Ascoltami: finché Oscar vivrà in questa casa, io starò qui e veglierò su di lei. Tu sei quasi sempre in caserma e credo che quando tu non ci sei a lei faccia bene la mia presenza. Anche se mi limito a fare i biscotti e a borbottare rimproveri perché si trascura troppo.”
“Sì, è così…”
“Lei sta cambiando, l’hai notato?”
“… sì, in alcune cose sì, sta cambiando”.
“Lo sai che non vuole più essere servita? La mattina la trovo già vestita e talvolta quando entro in camera sua il letto è rifatto. Se il generale non c’è, viene a mangiare qualcosa in cucina e si serve da sola. Tra un po’ vorrà anche lavarsi i piatti se va avanti così…”
Lui sorrise di tenerezza e la immaginò con le mani nell’acquaio, vicino a una finestra e a un vaso di margherite.
“Ora ascoltami bene. Se un giorno lei decidesse di non riuscire più a vivere qui, di andarsene, io lascerei questa casa. Non è così anche per te?”
“Lo sai che è così. Ma lei non se ne andrà mai.”
“Io non credo. Dorme sempre più spesso in caserma e quando è a palazzo pare che non veda l’ora di tornare a Parigi… tra qualche tempo qui non tornerà più”, e mentre lo diceva iniziò a rovistare sul fondo dell’armadio e ne trasse una busta ingiallita e un sacchetto di iuta gonfio.
“Tieni”
Lui li aprì: denaro e lettere di credito.
“Nonna, sono tantissimi soldi… Sono i risparmi di tutta una vita, vero?” la accarezzò e le fece un sorriso.
“Compra un appartamento a Parigi, André. Usa questi soldi per comprare un appartamento, un posto in città, vicino a mercati e botteghe. Vicino a una bella chiesa dove io possa andare a pregare tutte le mattine. Una casa per me, ma abbastanza grande perché ci sia spazio e indipendenza anche per… per un giovanotto come te”.
“Nonna, metti via questi soldi e non preoccuparti”, la abbracciò forte, chiudendola contro il suo petto senza farle male perché sentiva la fragilità di quella vecchietta piena di risorse e di carattere.
“No, voglio che tu faccia quello che ti ho detto”.
A lui venne da sorridere al pensiero di quello che stava per dirle.
“Nonna, ho già comprato un appartamento a Parigi”.
Lei rimase sbigottita le mani strette al seno.
“L’ho comprato l’anno scorso quando Oscar era… quando è andata in Normandia. L’ho dato in affitto a due studenti della Sorbona… Ma ora hanno terminato gli studi e torneranno in Borgogna…”
“André…”
Lui le parlò piano, con la voce venata di malinconia:
“… ma un pomeriggio ti porterò a vederlo. È molto bello, sai? C’è tanta, tantissima luce e dà su una piazza magnifica, di fianco a una delle chiese più belle di Parigi. A piano terra abita un anziano avvocato con la figlia nubile ed è lui che si occupa dei miei inquilini e dell’appartamento quando io non posso essere presente, due bravissime persone, nonna, davvero. E sulla strada, proprio vicino al portone c’è un fioraio, nonna, che anche ora che gli affari vanno male, ha sempre un banchino colorato che mette allegria e a volte si vedono ragazzi che vengono a comprare un mazzo di margherite alle loro ragazze che li aspettano su piccoli calessi e…” scosse la testa mentre il sogno che da sempre accarezzava tornava a far sentire la sua disperata dolcezza e trattenne un singhiozzo in un respiro profondo.
La nonna allora gli strinse forte una mano: “Sei un uomo come ce ne sono pochi, André”.
Poi si diedero la buonanotte e le luci a palazzo Jarjayes si spensero.
 
André si alzò la mattina dopo al primo cinguettare degli uccelli: il cielo era ancora buio e le ultime stelle della notte brillavano nel cielo che ormai aveva perso la sua oscurità. Indossò l’uniforme e poi si diresse alla scuderia dopo essersi affacciato alla porta della nonna che ancora dormiva profondamente.
Si avviò nei corridoi silenziosi del palazzo, intravedendo negli specchi e nelle vetrate la sua sagoma in movimento, il riflesso familiare di una vita spesa tra quelle mura. Per un momento si stupì che quel riflesso non fosse preceduto da una nuvola bionda, magari in un’uniforme rossa. Dio, come avrebbe voluto tornare ad avere dieci anni di meno! Non sentire quella precarietà, quel senso di fine incombere su di loro, su di lei…
Stai ancora dormendo, Oscar?
Gli stivali schiacciavano la ghiaia scricchiolando nel silenzio perfetto del mattino: lui solo si preparava ad iniziare la giornata, lui solo sotto quel cielo francese. Lui. Solo.
Prima di prendere il suo cavallo accarezzò quello di lei sul muso e sussurrò piano al suo orecchio: “Ci vediamo più tardi, bello… portala da me, portala da me presto, César”. Poi le dita scesero sulla criniera e piano si staccarono dal cavallo nel saluto consueto tra loro.
E mentre conduceva a mano il suo cavallo fuori dalla porta e poi sul viale fino al cancello per non far rumore e per non svegliare nessuno, la prima luce del giorno, gentile, lo avvolgeva rendendo la sua figura sottile alla vista, quasi un’ombra che si dissolve nel chiarore. Se si fosse voltato, se avesse guardato un po’ in su verso le finestre che più aveva amato guardare nella sua vita, allora André avrebbe saputo che due occhi azzurri e innamorati lo stavano accompagnando.

 
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Ci tengo a ringraziare Manucom69 che, con un lavoro davvero ammirevole e molto ben documentato, ha steso una fantastica cronologia dell’anime che, in parte ma non sempre, seguirò in questa storia.
Manucom69 l’ha resa disponibile su diverse fonti web, io l’ho trovata qui:
https://ladyoscar.forumfree.it/?t=77832319
 
   
 
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