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Autore: Bibliotecaria    01/06/2022    0 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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6. Nel cuore del Bosco
 
 
 
 
Diana Dalla Fonte, 16 Luglio 2024
 
 
 
 
Partimmo verso l’ignoto con la promessa di un alleato e la speranza di riunirci al resto del gruppo al più presto.
Sapevamo che gli altri, nel frattempo, avrebbe attuato una prima ricognizione a Defeli sotto la guida di Nami, e avrebbero iniziato a mettere da parte denaro per la causa lavorando e reclutando più gente possibile continuando mantenere il segreto sulla mia morte.
 
Partimmo con il favore delle tenebre e sparimmo per settimane. Tecnicamente non mi sarebbe concesso descrivere il percorso che attuammo, né dare la collocazione della base principale degli Antichi. Ma, forse, è arrivato il momento che quei vigliacchi la smettano di nascondersi nei boschi, oramai è arrivato il momento che reclamino il loro diritto di mostrarsi alla luce del Sole e della Luna senza vergogna o timore di giudizio.
Quindi, fanculo i giuramenti, tanto a questo punto non contano nulla.
Una cosa però la posso dire senza alcun timore: non ho la più pallida idea di come siamo sopravvissuti tutti e nove a questo viaggio. Credo con una certa fermezza che molte bestie siano andate più vicine ad ammazzarmi della maggior parte delle persone.
 
 
A iniziare da quando, dopo appena una settimana di viaggio nel cuore della notte, arrivati poco più a Sud delle Tre Cime, o Cima Vespro, un profondo ululato ci ridestò dal nostro sonno.
Ci svegliammo di colpo coi nervi a fior di pelle.
Vanilla e Nohat in particolare erano terrorizzati: chi vive nelle grandi città e lontano dalla catena della Luna raramente entra in contatto con animali dotati di magia, e, meno si conosce qualcosa, più la si teme.
 
Denin e Kallis ci sussurrarono di arrampicarci sugli alberi: se si trattava di lupi o di lupimannari non avremmo avuto grossi problemi, dopo qualche ora si sarebbero stancati e nel peggiore dei casi li potevamo spaventare con un colpo di pistola.
Il problema sorgeva nel caso si trattasse di un mannaro: quelle bestiacce erano in grado di arrampicarsi e, per quanto il loro aspetto suggerisse tutt’altro, erano creature molto più simili a noi e alle scimmie che ai lupi; quindi, erano predatori molto più astuti di qualsiasi altra bestia solcasse quei boschi, non importa quanto le chimere e gli aracnidi fossero più grandi, i mannari erano dieci volte più pericolosi.
 
Restammo in silenzio con il fiato sospeso, ascoltando i rumori della foresta. Ogni fruscio del vento era motivo di terrore e i nostri occhi schizzavano da una parte all’altra della piccola radura in cui ci eravamo accampati alla ricerca di qualche segno.
In questo stato di agitazione, il mio sguardo cadde su Tehor accucciato nel ramo accanto al mio e potei vedere in quegli occhi marroni una serietà che non avrei mai potuto immaginare.
Stringeva a sé il fucile da caccia di suo nonno con una tale naturalezza che mi spaventava. Nel mentre i suoi occhi, che mai come in quel momento ricordarono quelli di un’aquila, erano fissi su un punto della foresta ben preciso e si stava, lentamente, preparando al confronto con la bestia che attendeva solo il momento propizio per mostrarsi a noi.
Fu lì che mi resi conto che non aveva scherzato una settimana prima quando aveva detto che sapeva cacciare.
 
Ci aveva accennato che il vecchio fucile che ora teneva in mano apparteneva a suo nonno. Era stato lui a scegliere Tehor come erede di quell’arma e gli aveva insegnato a cacciare fin da quando era solamente un bambino. E, il nonnetto, da quando la mira e le gambe lo avevano abbandonato, aveva passato il fucile nelle mani del giovane Tehor.
Il vecchio Tehor non entrò mai in possesso di un brevetto da caccia e di un’arma da caccia. Ma per numerose decadi era sempre riuscito a portare qualche scorta di carne alla sua famiglia anche solo con un vecchio arco fabbricato da lui; trovare il fucile era stato un colpo di fortuna che aveva custodito per tutta la sua vita.
Per questo aveva insegnato al suo nipote preferito come cacciare.
 
Quegli insegnamenti erano evidenti da come reggeva il fucile, dal modo in cui osservava attraverso il mirino. C’era una calma in Tehor che mi spaventava e i suoi leggeri spostamenti mi fecero intuire che aveva individuato la preda.
Per un istante i suoi occhi marroni sembrarono brillare di sorpresa. L’istante successivo mannaro dal vello scuro comparve dalla selva saltando verso il nostro albero.
 
Tehor non perse tempo, premette il grilletto, un colpo dritto e preciso alla spalla destra. La bestia cadde al indietro a causa del colpo e si posizionò a quattro zampe ringhiando, gli occhi gialli che brillavano nella notte.
A quella vista i muscoli mi si irrigidirono: l’immagine di Giulio trasformato a metà quella notte mi invase la mente, rividi i suoi occhi dorati carichi dello stesso desiderio di sangue della bestia dinnanzi a me. Poi il terrore negli occhi della bestia si mescolò ai suoi occhi nell’istante in cui aveva capito che stava per morire ed infine la dolcezza con cui aveva deciso di condividere i nostri ultimi istanti.
 
In un gesto quasi istintivo afferrai il fucile di Tehor per bloccare il suo prossimo colpo. Si girò verso di me confuso: per la visione dell’epoca i Mannari erano una piaga, dei mangia-uomini insaziabili, se sene incontrava uno lo si uccideva.
Ma nella mia mente Giulio e quella creatura spaventata si erano sovrapposte e non potevo vedere nuovamente sua morte avvenire davanti ai miei occhi.
 
 
Il Mannaro, fortunatamente, dopo un basso ringhio, scappò via nella selva e potei tornare a respirare. Tehor mi guardò senza capire cosa avessi in testa. “Ma che ti prende: è un Mannaro. Se non lo ammazziamo ammazzerà altre persone.”
Non avevo una risposta valida da dargli così mi arrangiai con una scusa raffazzonata. “I proiettili sono preziosi, non possiamo sprecarne adesso. E in giro ci sono cose più pericolose dei Mannari.” Il che in parte era vero ma non era tutta la verità. Fortunatamente Tehor non riportò la cosa e non insistette oltre, accettò la mia risposta limitandosi ad aggiungere un’unica frase.
“Allora mi assicurerò di uccidere tutti al primo colpo d’ora in poi.”
La frase mi disturbò più del dovuto: ero pur sempre la stessa persona che appena pochi mesi prima aveva accoltellato un agente senza pensarci due volte, una frase del genere non avrebbe dovuto farmi questo effetto.
Eppure, l’idea che quel mannaro fosse il fantasma di Giulio mi perseguitò per le notti a seguire fino a quando non arrivammo sul crinale Est dalla catena montuosa della Luna.
 
Mi ritrovai a rigirarmi nel mio giaciglio più volte durante quelle lunghe notti, lottando contro l’insonnia e gli incubi che si divertivano a fare capolino quando ero più rilassata, sebbene quella scena che mi perseguitava anche da sveglia. E pensare che ero partita proprio per evitare di pensare troppo a Giulio.
Mi illudevo che restando lontana dal resto del mondo non avrei avuto alcun motivo per pensarci su troppo, ma, a conti fatti, il suo fantasma mi avrebbe perseguitata indipendentemente dall’ambiente che mi circondava. Non importava se fossi in un bosco tetro che non era mai stato conquistato dagli umanoidi o i quartieri poveri di una città corrotta.
I momenti peggiori erano i turni di guardia notturni dove mi divertivo a torturarmi fantasticando sul calore del suo corpo, la dolcezza del suo sguardo, le sue mani strette alle mie. Era un pensiero dolce come miele e amaro come il fiele, una droga della quale non riuscivo pienamente a fare a meno, era il mio desiderio di non dimenticare un singolo dettaglio del suo essere e dei momenti che avevamo passato insieme, che erano sempre troppo pochi.
 
Fui contenta di aver lasciato a Felicitis la custodia dell’unica foto che avevo di me e Giulio o l’avrei sicuramente persa o avrei rischiato di farmi prendere dallo sconforto, più di quanto già non fossi, nel rivederlo così felice e accanto a me. Allora la mia mente veramente non sarebbe più stata in grado di reggere quel piacevole dolore che mi infliggevo ogni notte.
 
 
Ma le cose non potevano andare aventi così e dovetti obbligarmi a cambiare il mio comportamento quando una notte in cui ero di turno non mi resi conto del pericolo che ci circondava.
 
 
Eravamo ancora immersi nel monte ma oramai eravamo ben più vicini al confine tra Alto-Colle e Shakarm. Mi stavo torturando con i ricordi, stavo ripensando alla sua voce e a una conversazione che avevamo fatto, stavo mormorando quello che avevo risposto per cercare di restare sveglia.
Ricordo molto bene questo dettaglio perché un istante dopo sentii una voce diversa, una voce che mi sembrava estranea, aliena. Mi voltai di scatto, pistola alla mano: riconobbi subito la bestia che si era posta davanti a me, a pochi centimetri dal volto di Zafalina, profondamente addormentata.
Compresi subito che si trattava di un’arpia: il volto era simile ad un’umanoide vecchio e raggrinzito, gli occhi sproporzionati al viso e totalmente neri come quelli degli uccelli, un lungo collo piumato seguito da un corpo da uccello alto quanto un bambino di dieci anni, con artigli gialli e arcuati, ali immense con dei piccoli artigli sulla piegatura. Pareva un pollo con il volto da vecchiaccia.
 
La bestia si paralizzò quando vide me e la pistola, immobile come un pollo un istante prima di comprendere che gli verrà torto il collo.
Non sparai, non mi fidavo abbastanza della mia mira per non rischiare di colpire Zafalina, tantomeno con le ombre notturne che giocavano con la luce del fuoco.
Così, decisi di optare per un combattimento corpo a corpo.
 
Lentamente riposi la pistola dentro al suo fodero ed estrassi il pugnale. L’arpia si era incurvata, parva un gatto prossimo a saltare e un sibilo riempì la notte. Risposi con un ringhio, per quanto le arpie fossero pericolose, erano pur sempre animali, e gli animali temono gli umanoidi sopra ad ogni cosa.
In risposta l’arpia alzò il suo piumaggio rossastro nel tentativo di spaventarmi, ma a me pareva solo una gallina troppo cresciuta. Le zompai addosso e l’arpia lanciò un urlo poderoso, uno strillo adatto a spaccare i timpani. Per riflesso strinsi le mani alle orecchie doloranti. Ora tutti i miei compagni erano svegli, e stavamo urlando per il dolore.
 
Non so quanti di voi abbiano mai sentito il canto delle arpie, quella specie di eco lontano che si sente nelle notti estive durante la loro stagione degli amori. Una melodia così soave che attrae chiunque la senta, così complessa e armonica che sembra maggiormente ad una melodia composta da un grande maestro di musica. Non esiste suono più ammaliatore e, allo stesso modo, non esiste suono più sgradevole, repellente, doloroso e ripugnante del loro grido. I colpi di cannone, di razzi e bombe a confronto sono poca cosa. Quell’urlo è doloroso per le orecchie di tutti, e se ascoltato troppo a lungo può portare al sanguinamento delle orecchie, al danneggiamento del timpano, alla sordità ed in fine alla morte.
 
Per questo continuai a sferzare il coltello in aria per cercare di far fuggire l’arpia; cercai di colpirla, una volta, due, tre… alla quinta sferzata, finalmente, impiantai il coltello nella sua carne e il suo urlo si spense e uscì un mugugno di dolore.
Quando riacquisii un minimo la lucidità, vidi l’arpia agitarsi, tentava di prendere il volo ma la ferita fatale alla base del suo collo glielo impediva. La sentii cambiare voce dozzine di volte: un istante aveva la voce di un bambino che strillava disperato aiuto e supplicava pietà, poi quella di un anziano dalla voce rauca e affaticata dagli anni che supplicava pietà, a seguire ci fu quella di una giovane donna che con la sua voce dolce e sofferente supplicava aiuto piangendo con dei singhiozzi che facevano fremere il corpo, in seguito ci fu un uomo che tuonava aiuto ma mano a mano che proseguiva il tono della sua voce era sempre più spezzato fino a diventare un singulto disperato
Le voci cessarono quando l’arpia cadde a terra priva di ogni energia vitale.
 
 
Fissai il corpo esamine dell’animale e sentii il mio corpo tremare: ero al contempo invasa dalla adrenalina e devastata dal dolore. Attorno a me tutto si fece ovattato per lunghi istanti e compresi cosa stava per succedere: un nuovo attacco.
Terrorizzata all’idea di far vedere agli altri questo mio lato mi morsi con forza il labbro interno obbligandomi a tornare al mondo reale. Trattenni il respiro cercando in tutti i modi di andare in iperventilazione e sentii il peso dei loro sguardi sconcertati su di me.
Abbassai il capo e obbligai la mia voce ad uscire, ma, malgrado i miei sforzi per mantenerla salda, continuarono a sfuggirmi singhiozzi, singulti e respiri tremanti.
 
“C-chiedo….” Respirai affondo tremante. “Chiedo… scu-scusa, non mi… mi sono accorta del s-suo arrivo.” Dovetti bloccarmi perché i miei singhiozzi mi impedivano di esprimermi come desideravo. Li cacciai in fondo alla gola cercando di reprimerli dentro di me, dove sarebbero dovuti rimanere. “E… non… non…” Ogni volta che aprivo le mie labbra e tentavo di formulare qualcosa che rassomigliasse ad una frase, ma ciò che ne uscì fu un singhiozzo strozzato.
MI ci vollero parecchi sforzi per riacquisire il controllo di me, del mio corpo e della mia voce. Fu solo grazie al desiderio di non crollare davanti a tutti che in qualche modo riuscii a maneggiare l’attacco, ma sentii che la prossima volta non si sarebbero limitati a sentire qualche balbettio. “Non sono riuscita a scacciarla.”
 
Non so quanto effettivamente avevano sentito, l’urlo dell’arpia ci aveva rintontiti e quasi assordati e i miei borbotti di certo non aiutavano.
“Tranquilla Diana, poteva succedere a chiunque.” Cercò di consolarmi Denin con un leggero sorriso in volto. “Lo so, ma non doveva succedere. Questa volta ci è andata bene, ma la prossima… se me ne fossi accorta un istante più tardi avrei lasciato uccidere la mia migliore amica davanti ai miei occhi. E questo non me lo sarei mai perdonato.”
Guardai Zafalina per un attimo poi chinai il capo, piena di vergogna, supplicando silenziosamente per il suo perdono. “Fino ad ora sono stata solamente un peso.” Sussurrai mordendomi le labbra.
“Diana, non è vero, hai sempre fatto la tua parte, non sei stata un peso.” Cercò di tranquillizzarmi Denin. “Denin… a me non basta fare la mia parte, per me non è sufficiente timbrare il cartellino oppure fare il minimo sindacale. Io non sono così, io mi faccio in quattro, io posso tenere sulle spalle pesi ben più grossi di questo.”
Dal mio tono di voce tutti poterono percepire il mio ribrezzo verso quello in cui mi stavo trasformando: un essere debole che piange sul passato, che non riesce a guardare neppure al presente da quanto il primo lo accieca.
 
“Diana… sei troppo dura con te stessa, hai solo bisogno di un po’ di tempo, tutto qui.” Le parole di Kallis mi fecero infervorare. “Tempo!?! Sono passati tre mesi! Non dico che dovrei saltellare di gioia! Ma almeno essere in grado di pensare, agire e ragionare come prima sì!”
Ero furibonda, il mio respiro accelerò improvvisamente, la mia vista si annebbiò e la mia voce esplose. “Eppure, continuo a piangermi addosso! Come una debole! Come una bambina! Ogni singola cosa che faccio mi richiede il quadruplo dell’energia! Anche solo alzarmi la mattina è faticoso! E mi costringo a farlo, ogni maledettissimo giorno, quando un tempo mi alzavo alle sei senza battere ciglio! Un tempo avrei ammazzato quella arpia senza problemi! Non mi sarei posta domande o dubbi! Ho ucciso tre persone senza battere ciglio, e fino a tre mesi fa non avrei esitato ad ammazzare nessuno, figuriamoci un animale! Sole e Luna! Come posso essere diventata così miserevole! Avrei dovuto premere quel fottuto grilletto quella notte, almeno non sarei diventata questo essere miserabile!”
 
La mia rabbia stava acciecando il mio giudizio, volevo vomitare loro addosso quando fossi incompetente e debole. Ma tutto quello che dicevo, il mio lamentarmi di non essere forte come prima, era solo frutto della mia mente distorta che si era convinta che stare male era sbagliato, quando nulla di tutto questo è vero.
Non è sbagliato avere bisogno di più tempo degli altri per riprendersi da un lutto, non importa quanto irrilevante agli altri possa sembrare.
 
Mi ci sono voluti anni per capirlo, per accettare il fatto di non essere invincibile, che è giusto piangere un lutto, che è giusto essere debole dopo un brutto colpo.
Ciò che non è giusto è non prendersi cura di sé nel processo di guarigione, ed era quello che stavo facendo io: non stavo concedendo al mio cuore il tempo di guarire, ero convinta che ci fosse un tempo massimo in cui bisognasse riprendersi, che se non si riesce a fare come gli altri, se non si rientra nella norma, si è dei falliti senza alcuno scopo di vita.
Mi ero convinta che ci fossero delle regole prestabilite entro le quali qualcuno deve guarire.
Adesso so che non è così, adesso so che alle volte è giusto fermarsi un attimo, rallentare il ritmo, dare solo il venticinque per cento di sé, perché il restante settantacinque lo si sta usando per riprendersi e guarire le ferite. E che non esiste ferita per la quale qualcuno non abbia il diritto di soffrire.
Alcuni hanno bisogno di una mano, altri solo di tempo, altri avranno bisogno di una cerchia di persone, altri ancora di un professionista che li aiuti, e in tutti i casi va’ bene. Chiedere aiuto va’ bene e avrei voluto imparare prima questa lezione.
 
 
Conclusosi lo sfogo mi trovai davanti le facce sconcertate dei miei compagni di viaggio. Zafalina mi guardava ad occhi sgranati, si avvicinò a me e mi afferrò per le spalle.
“Che cazzo intendi dire? Premere il grilletto? Volevi ammazzarti per caso!?!”
Non ressi lo sguardo blu oltremare di Zafalina, avrei voluto scappare ma lei sue lunghe mani erano come artigli che mi si conficcavano nella carne e non mi avrebbero concesso una via di fuga.
“Non è nulla, era per dire! Sai quante cazzate dico quando sono arrabbiata.” Dentro di me urlavo che ero stata un idiota: nessuno doveva saperlo, nessuno, neppure Zafalina, nessuno doveva dubitare di me, non volevo essere considerata debole!
 
“DIANA PORCAPUTTANTAROIA DIMMI LE COSE!” In un riflesso istintivo mi incurvai nelle spalle, cercando di sfuggire alla verità. “Prima ci tieni nascosto che eri entrata in un’organizzazione criminale, poi non ci avverti del tuo finto suicidio, adesso vengo a sapere che hai cercato di ammazzarti! Mi dici chi cazzo ti prende? La Diana che conosco io non mi teneva nascosto nulla!” Strinsi i denti a quella affermazione. “Diana, io non ti riconosco più! Tu non mentivi mai a me, mi dicevi sempre tutto, io, te ed Oreon abbiamo condiviso tutto fin da quando avevamo tre anni, tutti quei pomeriggi passati a casa mia, di Oreon e da tua nonna! Tutti quei segreti sussurrai sotto le coperte.”
“Eravamo bambini.” Risposi acida ma stando bene attenta a non incrociare i nostri sguardi. “E io non ero una criminale. Non sono cose che potevo rivelare alla leggera.”
“Non è questo il punto!” Mi urlò in faccia scuotendomi con forza. “Io sono qui! Ora! Sono qui e voglio aiutarti! Volevo concederti un po’ di tempo ma a quanto pare non posso fare come quando è morta tua nonna.” Il suo tono via via che proseguiva da furioso si era fatto dolce, tenero, spezzato.
 
 
Strinsi gli occhi, potevo ancora sentire le sue vecchie mani secce sfiorarmi la guancia se mi concentravo, potevo sentire il suo profumo, quello che comprava sempre, potevo sentire la sua voce, lo strudel che mi preparava ogni maledetto pomeriggio.
Zafalina era proprio una bastarda, lei più di tutti sapeva che non si doveva parlare di mia nonna.
Strinsi le labbra con forza e dei lacrimoni uscirono dai miei occhi. Mi stavo forzando di restare calma ma non ci riuscivo, iniziai a singhiozzare, mi iniziò a colare il moco dal naso, il mio corpo tremò in dei fremiti di dolore.
Cercai di arginare asciugandomi il volto con il dorso della manica. E, poiché la mia testa voleva a tutti i costi che crollassi, sentii il dolce tocco delle mani di Giulio sul mio collo, mentre mi spostava i capelli.
 
Crollai, definitivamente ed inesorabilmente, mi lasciai trascinare dalla disperazione, quel vuoto che stavo cercando di reprimere da mesi mi invase rivelandosi per quel che era: tristezza, semplice e pura. Zafalina mi abbracciò e fu la mia ancora, lasciò che urlassi, che mi sfogassi che liberassi tutto quello che c’era dentro di me.
 
Non so cosa fecero gli altri, so solo che ci ritrovammo noi due sole e sedute su un tronco.
Ero terrorizzata perché adesso dovevo dire la verità.
 
“Te la senti adesso?” Mi domandò Zafalina paziente.
Respirai affondo per tirare fuori tutto il mio coraggio e le rivelai tutto: i miei pensieri suicidari, il dolore che provavo, il mio senso di impotenza, gli attacchi di panico, tutto. Quando conclusi lei mi guardò dolcemente e mi strinse a sé.
“Diana, mi dispiace tanto, non so cosa dire.”
“Non c’è niente da dire.” Sussurrai ancora singhiozzante. “Solo… mi mancano tanto. Mi mancano così tanto che fa male. La nonna per tutto quello che è stata per me e Giulio per tutto quello è stato e per tutto quello che non è potuto diventare.” Ammisi continuando a piangere.
 
Zafalina mi consolò accarezzandomi i capelli e, mentre subivo quella dolcezza, un pensiero tenebroso mi passò per la mente.
“Come sono potuta diventare così debole?” Zafalina mi baciò la fronte con fare fraterno.
 
“Non sei debole Diana, non lo sei mai stata. Credimi, ti conosco da quando sei una bambina, e il fatto che tu abbia tenuto nascosto tutto questo per mesi continuando ad aiutare tutti facendo del tuo meglio ne è la prova. Forse a te sembrerà poco, ma a me sembra lo stesso che avresti fatto sempre. Tu sei forte Diana, non perché non crolli mai, ma perché ogni singola volta ti rialzi. Sarebbe stato facile coinvolgere i tuoi genitori, ma non lo hai fatto per proteggerli, sarebbe stato facile rivelare tutto alla polizia, ma non lo hai fatto perché questo avrebbe condannato tutti. E sarebbe stato mille volte più facile seppellire Giulio nel dimenticatoio, invece tu ci pensi, vuoi ricordarlo, vuoi averlo ancora accanto a te, e questo va’ bene, va’ bene soffrire, l’unica cosa che stai sbagliando Diana è il tuo non voler coinvolgere nessuno. Mi sembra che Nohat e Vanilla siano tuoi amici, e che stiano soffrendo anche loro, ti avrebbero aiutata volentieri se avessero saputo.”
 
 
Strinsi le labbra e mi domandai quante opportunità di parlarne mi erano sfuggite. Non erano molte in fondo, avevamo pur sempre trecento altri problemi che ci circondavano, ma negli intervalli a scuola o una volta finito un incontro avrei potuto parlare con qualcuno. Invece io mi ero chiusa a riccio allontanandomi degli altri e allontanando loro da me.
“Ma non è troppo tardi, non è mai troppo tardi, puoi concederti il tempo di stare meglio Diana. Potrai sempre con me accanto, e lo stesso vale per Oreon e tutti quelli che ti vogliono bene. So che pensi di dover portare questo peso da sola ma non è così, io sono qui, e ci sarò sempre per te, come tu ci sarai sempre per me.”
C’era una frase serrata tra le mie labbra che non osai pronunciare in quel momento. Ma non osai esprimerla perché una parte di me conosceva già la risposta: non sarei mai stata sola fin tanto che avrei accettato il rischio di soffrire un giorno. E questo è un rischio che, mi resi conto, ero disposta ad accettare poiché non sarei mai stata in grado di tollerare la totale solitudine.
 
 
Quando tornammo dagli altri vidi Nohat e Vanilla in un angolo a parlare, anche loro avevano le guance e gli occhi rossi.
Vanilla, come mi vide arrivare, mi corse in contro e mi abbracciò. La abbracciai a mia volta e consessi a qualche lacrima di uscire, tanto la mia dignità oramai poteva farsi fottere.
“Scusa, mi sarei dovuta accorgere di come stavi.” Mi sussurrò stringendosi a me. La strinsi dolcemente e la cullai un po’.
“Non hai colpe Vanilla. Anche tu hai sofferto, tutti noi abbiamo sofferto. Il dolore ha acciecato il nostro giudizio e il mio più di tutti.” Mentre lo dicevo notai come Nohat mi guardava: carico di rabbia, ma non comprendevo a pieno cosa la causasse e verso chi fosse rivolta. Ciò che trovai di gran lunga più strano fu che non fece alcun commento.
 
 
 
Fu da quel momento che mi decisi ad ascoltare quello che mi aveva detto Zafalina e, tra una pausa e l’altra, stavo accanto a lei e parlavamo. Vanilla si era proposta di fare altrettanto ma declinai l’offerta, conscia che se avessi parlato con lei avrei sempre pensato a fare stare meglio lei che me stessa.
Non accolse benissimo il mio rifiuto e iniziò a guardare malissimo Zafalina, come se le avesse rubato la sua migliore amica. Dopo un po’ fortunatamente la smise.
Solo anni dopo mi confessò che era stato Lukas a spiegarle che due cuori infranti non possono curarsi a vicenda, non per niente Lukas, Vanilla e Nohat iniziarono a parlare spesso durante le pause. E di conseguenza anche Gahan, Tehor, Kallis e Denin parlavano molto più spesso coi ragazzi.
Io, nel frattempo, iniziai a stare un po’ meglio, avere degli sfoghi controllati e costanti con Zafalina prima di andare a dormire limitava i miei incubi e mi liberava la mente per il resto della giornata. E, piano piano, un passettino alla volta, quel peso che portavo sul petto diventò quanto meno gestibile.
Fu una fortuna riuscire ad attraversare la regione di Alto-Colle con relativa calma e senza ulteriori incidenti, perché il nostro prossimo passo era il Deserto dello Sciarai e non ci potevamo concedere errori lì.

 
 
   
 
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