8.
–
Numero 37, avanti.
Heath
spinse la porta del piccolo ufficio e poi se la richiuse
alle spalle.
–
Sono andato a casa vostra ma non c’era nessuno e
così sono
venuto qui.
Dietro
la scrivania, Deanna Hamilton lo guardava da sopra gli
occhiali. Se era sorpresa di trovarlo lì, nel suo ufficio ai
servizi sociali,
non lo dava a vedere.
–
Buongiorno anche a te, Heath. Come posso aiutarti?
Heath
non sopportava la madre di Rivkah. Cioè, non è
che non gli
piacesse come persona; era tosta come Neena e bella come una versione
cinquantenne di Rivkah. E possedeva un’invidiabile collezione
di vinile anni
80. Peccato per quel vizio di dire sempre la verità, tutta
la verità,
nient’altro che la verità, manco fosse sotto
giuramento ogni minuto della sua
vita.
–
Volevo sapere dov’è Rivkah.
–
E vieni a chiederlo a me mentre lavoro? Mandale un messaggio.
–
Gliene ho mandati una decina. L’ho chiamata. Non mi risponde.
–
Non vuole vederti, Heath. Casomai ti fosse sfuggito.
Nella
sede dell’assistenza sociale della municipalità di
Northland–Highwood, Deanna si occupava delle pratiche di
sostegno alle famiglie
numerose. Distribuiva soldi ai poveracci, insomma, dopo aver verificato
che ne
avessero diritto. Indiani della riserva ma anche disperati di tutti i
colori e
di ogni parte del mondo. La gente pensava che Deanna lo facesse a suo
insindacabile giudizio, secondo come si alzava la mattina e forse
avevano
ragione; quella strega doveva provare un certo piacere nel disporre dei
destini
delle persone.
Heath
sbuffò, alzò gli occhi al cielo e fece per
uscire, rimanendo
a metà strada sulla soglia. Nella piccola sala
d’attesa fuori dall’ufficio, una
coppia di sudamericani lo fissava.
–
Hai preso il numero, ragazzo?
–
Ho preso il numero.
Era
vero. Per vedere Deanna aveva aspettato mezz’ora.
–
Devi prenderne un altro, se vuoi tornare dentro.
Fece
un gestaccio ai due e poi rientrò nell’ufficio.
Deanna si era
rituffata nelle sue scartoffie.
–
Per favore. Voglio solo parlarle. Non andate cianciando tutto il
giorno che i conflitti si risolvono con il dialogo, tu e i tuoi
colleghi?
Deanna
tolse gli occhiali e si asciugò la fronte con un fazzoletto
di carta; solo in quel momento Heath si accorse che era stanca. Doveva
essere
dura stare lì dentro ad ascoltare le lagne di tutti; lui non
avrebbe fatto quel
lavoro per niente al mondo. Con quel caldo, poi…
L’estate
in quei giorni dava il meglio di sé; lui e Rivkah
avrebbero potuto essere in qualche bel posto a prendere il sole o a
tuffarsi
nel fiume. Avrebbero perfino potuto prendere la moto e andare al mare e
starci
un paio di giorni. Eccheccazzo.
–
La proteggete da me come se fossi un… cazzo ne so, uno
stalker.
–
Se ti può consolare, le ho detto che avrebbe dovuto parlarti.
–
Ecco. Dimmi dov’è così ci parliamo.
Toccò
a Deanna sbuffare.
–
No, non te lo dico. Ti do un indizio: dove andresti tu con
questo caldo?
–
A fare un bagno nel fiume?
–
Mah?
–
Che cretino, potevo arrivarci da solo.
–
Ci sei arrivato da solo, infatti, io non ti ho detto niente.
Levati dalle scatole, ho da fare. Numero trentotto, avanti. Trentotto?
Heath
schizzò via e quasi travolse la coppia di messicani
cicciotti numero trentotto. I due gli lanciarono un sangre
de dios e qualche altra brutta cosa incomprensibile prima di
entrare da Deanna.
***
–
Ehi, ragazze, guardate un po’?
Quattro
teste di diversi colori e acconciature si girarono
contemporaneamente in direzione della strada. Un ragazzo alto scendeva
da
un’Harley Davidson vintage
e la
sistemava in una delle piazzole per motociclisti, a pochi metri dalla
riva del
fiume. Scuro di pelle come avesse passato la vita ad abbronzarsi,
portava
lunghi capelli neri legati dietro in una coda. I jeans tagliati e la
maglietta
bianca d’ordinanza nascondevano ben poco delle braccia lunghe
e della schiena
ampia. Era bello da morire e perfino Julie, la più nerd
delle ragazze – quella
che se non portavi occhiali spessi tre dita nemmeno ti guardava
– si fece
scappare un sospiro. I bicipiti del tipo si gonfiarono e la pelle
lucida di
sudore si tese sui muscoli mentre caricava la moto sul cavalletto; una
lode al
Creatore si alzò, subito seguita da una preghiera.
–
Dio, fai che venga da questa parte – sospirò la
biondina con la
coda.
–
Amen, sorella – rispose devotamente Julie. Nera con una bella
ciocca rossa, era la cugina preferita di Rivkah. Si era portata due
amiche da
Cincinnati, per la settimana di vacanza che avrebbero trascorso nel
parco.
–
Cazzo, no.
–
Lo conosci, Riv? Non dirmi che è…
–
Cazzo, sì. Questa sera dovrò strangolare mio
fratello.
Julie
alzò gli occhi al cielo.
–
Smettila con le parolacce. Sei un’egoista, non ci pensi mai a
noialtre poverette?
Heath
ci sentiva piuttosto bene, anche da lontano.
–
Ehi, non devi strangolare nessuno. Fa caldo e mi sono ricordato
che venivamo qui quando faceva caldo, l’anno scorso.
Perché mi eviti?
La
biondina ridacchiò. La rossa si tirò su gli
occhiali da sole.
Rivkah
si alzò e si tuffò in acqua. In poche bracciate
fu al
centro del fiume, sulla secca dove altri ragazzi e ragazze prendevano
il sole.
Così
com’era, Heath si tuffò in acqua e la raggiunse.
–
Sempre teatrale, tu
–
Chi sono, quelle? Perché non mi rispondi? Che cosa ti ho
fatto?
Sul
greto del fiume le ragazze sedevano in fila, i piedi a mollo,
e li guardavano.
–
Mr. Maglietta Bagnata! Hai vinto!
Mancavano
solo i popcorn.
–
Sono una cretina.
–
Non sei cretina.
–
Sì, invece.
Rivkah
passò una mano tra i capelli grondanti di Heath e glieli
scostò dal viso. La mano indugiò un attimo di
troppo sulla pelle del ragazzo,
che la afferrò e se la premette sulla guancia.
Un
ululato di approvazione si alzò dalla spiaggetta e Rivkah,
stizzita, si ritrasse.
–
Testone. Perché devi venire a farti ridere dietro dalle mie
amiche? Pensa quanto sono cretina, mi dispiace per te. Stai facendo la
figura
dell’idiota.
–
Non mi interessa.
Heath
lasciò andare, riluttante, la mano più piccola e
chiara
dell’amica. Il mugugno di delusione degli spettatori
intristì anche lui.
–
Riv. Che cosa ho fatto? A me sembra di non avere fatto niente,
ma magari il cretino sono io e non me ne sono accorto e…
Sul
viso di Rivkah scorreva acqua; le gocce scintillavano sulle
gote lucide e sulla fronte, e rivoli lucenti colavano giù
dai capelli, lungo il
collo, in mezzo al seno, e il sole ci giocava.
Heath si sedette accanto a lei e se la tirò
vicino, e sentì la sua
tensione sciogliersi, le spalle diventare più morbide.
–
Forse sono stato egoista. Non ti ho chiesto niente di te,
dell’università… Dicevi Auckland,
giusto? Dovevo congratularmi, sono un asino.
Io non vado da nessuna parte, non voglio lasciare Buck. Tua madre come
l’ha
presa? Dovrebbe essere felice, è una grande cosa per te
e…
Rivkah
si irrigidì. Heath tolse il braccio e la lasciò
libera, e
cercò il suo viso sul quale ancora l’acqua
scorreva.
–
Non capisci un cazzo, Heath. Ma veramente un cazzo. Congratulati
e poi sparisci.
–
Scusa ma io non…
–
Mi hai sentita? Sparisci. Ma stavolta per davvero.
Rivkah
lo scostò malamente e si alzò.
–
Ascoltami bene, non te lo dirò un’altra volta. Non
ti voglio più
vedere. Devi uscire dalla mia vita, capito? È questione di
poco, parto fra un
mese. Fino a quel momento, levati dai coglioni. Non. Cercarmi.
Più.
E
si rituffò in acqua.
Heath
rimase lì seduto per terra, i jeans fradici e la maglietta
che non si voleva asciugare e gli lasciava sulla pelle una sensazione
di
freddo; il sole si era nascosto dietro nuvole nere. Forse era in arrivo
un
altro temporale estivo, di quelli che ti fregano sempre.
In
poche bracciate Rivkah raggiunse le ragazze sul greto del
fiume; Julie si alzò, le andò incontro e la
abbracciò. Poi tutte quante
raccolsero la loro roba e si avviarono verso il parcheggio. Nessuna si
girò a
guardare Heath. Una giovane coppia – lui grosso e tatuato e
lei piena di
piercing – che fino a un attimo prima limonava sdraiata sulle
pietre calde,
aveva slacciato le lingue e lo fissava; la ragazza sembrava
particolarmente
incavolata. Pure lei.
–
Fatevi i fatti vostri.
Lei
gli mostrò il dito. Era ora di tornarsene a casa.
Proprio
in quel momento cominciò a piovere.
Un
attimo dopo era come trovarsi sotto una doccia aperta al
massimo. Il giubbotto che si portava sempre dietro non servì
a molto e Heath si
ritrovò di nuovo bagnato fino alle mutande. Letteralmente.
Le gocce scorrevano
lungo la spina dorsale come fosse stato a pelle nuda, fino alla fessura
in
mezzo alle chiappe. Era gelato, aveva bisogno di una doccia calda.
Neena non
l’avrebbe fatto entrare in casa, così fradicio:
avrebbe dovuto cambiarsi sotto
il porticato.
A
proposito di porticato.
Buck
se la rideva all’asciutto sullo zerbino. Dalla finestra del
salotto Anna, protetta dal vetro, lo studiava a distanza.
Va
bene. Forse se faceva una buona azione gli dei avrebbero avuto
pietà di lui e i guai sarebbero finiti. Gocciolante, spinse
la moto fino alla
rimessa. Fece con calma, tanto più bagnato di
così non avrebbe potuto essere.
Fece
di corsa il pezzo di prato tra la rimessa e la casa; si era
cambiato e si ribagnò di nuovo. Salì con un salto
gli scalini e si piazzò
davanti alla finestra.
–
Dai, vieni fuori. Se vuoi puoi toccarlo, non ti fa niente.
La
porta si aprì piano, cigolando. Dalla cucina arrivarono le
voci
degli adulti che chiacchieravano. Meglio, così nessuno
l’avrebbe visto con
Sacco d’Ossa.
Buck
si alzò per andare incontro all’amico; la
ragazzina con un
balzo si nascose dietro la schiena di Heath e gli afferrò la
maglietta.
–
Dai, mollami. Ho detto che non ti fa niente.
–
Ma è un lupo.
–
Mezzo cane, mezzo lupo. L’ho trovato nella foresta, sua madre
è
morta.
Buck
si appoggiò a Heath e alzò il muso verso di lui.
Lo fissava
con gli occhi grandi e dolcissimi; il ragazzo si abbassò un
poco e il mezzo
lupo gli leccò il viso.
–
Ecco, vedi? Lui è… speciale.
–
Era tanto piccolo? Quando… quando è arrivato.
Quando sua madre è
morta, voglio dire.
–
Piccolissimo. Non aveva più di un mese, credo.
–
Quando ero piccola i miei si sono lasciati.
–
Che c’è, vuoi essere adottata anche tu?
Anna
si coprì di chiazze rosse. Heath si morse la lingua, come
cavolo gli era venuta in mente questa stronzata di adottarla? Lo sapeva
solo il
Dio degli Idioti, che oggi doveva essere l’unico che se lo
filava.
–
Uh, scherzavo. Intendevo dire… Se vuoi ti adotto. Per
qualche
giorno, intendo – bofonchiò Heath – ti
porto a fare una passeggiata con Buck,
così ti passa la paura.
Anna
si strinse nelle piccole spalle magre.
–
Lui è contento di stare con te?
Heath
si inginocchiò accanto al lupo, che sollevò la
grossa testa
e gliela posò sulle ginocchia. Brontolò piano,
mentre Heath gli passava la mano
aperta tra le ciocche di pelo fulvo sul collo, più lunghe e
morbide, che
formavano una specie di criniera.
–
Non gliel’ho mai chiesto. L’ho sempre dato
per… scontato, credo.
Non lo so. Ehi, sei contento di stare con me?
Buck
gli leccò una mano.
–
Non è che abbia avuto molta scelta.
–
Perché dici questo?
–
Quando l’ho preso con me era davvero molto piccolo. Aveva
ancora
bisogno del latte di sua madre ma lei non poteva più
darglielo. Lui mi
succhiava le orecchie. Gli ho dato del latte caldo, a casa, con una
bottiglia.
Non sapevo nemmeno cosa dargli da mangiare, nessuno mi aiutava.
Isaias… mio
padre non voleva che lo tenessi. Mi sono opposto. Ho cercato in giro,
ho
studiato e mi sono tipo trasformato in una lupa. Lo volevo.
Buck
alzò la testa e fissò il ragazzo negli occhi.
–
Lui è mio.
Heath
prese il muso tra le mani e posò la fronte su quella del
lupo, che chiuse gli occhi e mugolò di piacere.
–
Mio. Tu sei mio, vero?
Neena
chiuse le finestre, soddisfatta. Un temporale era proprio quello
che ci voleva; avrebbe rinfrescato l’aria e le avrebbe dato
il coraggio di
accendere il forno per preparare una torta.
Isaias
era tornato con due cesti di lamponi; glieli avevano
regalati i bambini della scuola elementare, come ringraziamento per
tutto
quello che aveva spiegato loro sui lupi. «Niente marmellata,
questa volta
voglio una torta» le aveva detto.
Neena
preparò prima la pasta: fece la fontana con farina e
zucchero e, con le dita, cominciò a intriderli con il burro
a cubetti. Dopo un
po’ poté formare un panetto che mise a riposare
coperto con un panno, quindi si
occupò dei lamponi. Erano grossi e maturi; i bambini
dovevano averli comprati o
colti in qualche giardino, perché le siepi lungo le strade
battute dai turisti
erano già state spogliate.
La
donna lavò i frutti e, con un coltello affilato, li
tagliò a
pezzi, fino a quando nella grande ciotola davanti a sé ne
ebbe un bel mucchio,
il cui succo rosso cominciava a colare sul fondo. Spremette un limone
nella
ciotola, cosparse di zucchero e poi, con le mani nude,
cominciò a mescolare
delicatamente.
Il
coltello, appoggiato male sul bordo del tavolo, cadde per
terra. Neena scosse rapidamente le mani e si piegò per
raccoglierlo.
Era
lì, col coltello in mano, quando l’urlo di Heath
le trafisse
le orecchie.
–
Tesoro! Cosa c’è?
Suo
figlio era bianco, come se la sua pelle – simile a quella
bronzea di Neena – fosse stata candeggiata, o come certe rive
sassose che
asciugano al sole quando il fiume si ritira; la guardava negli occhi e
la donna
si toccò il viso, che rimase tinto di rosso. Gli occhi
febbricitanti di Heath
corsero dal viso di Neena alle mani rosse e grondanti, e poi di nuovo
al viso
sporco di rosso; il ragazzo boccheggiò e si tenne lo stomaco.
La
fronte gli si coprì di sudore; poi corse via lungo il
corridoio
fino al bagno di servizio.
Neena
lo trovò chino sul water.
–
Cosa c’è? Hai mangiato qualcosa di strano?
Ma… sei bagnato!
Avrai preso freddo. Vieni con me.
Gli
gettò sulle spalle la sua vecchia vestaglia, lo strinse e
gli
accarezzò il viso.
Heath
tremava.
–
No-o. Me l’hai chiesto almeno dieci volte. Non ho mangiato
niente di strano, ero a stomaco vuoto.
La
torta rimasta a metà strada era stata tolta di mezzo, e
davanti
a Heath fumava una tazza d’acqua calda dove Neena aveva
sciolto un po’ di erbe
del nonno.
Cosa
ci mettesse Howakhan in quel miscuglio di roba secca, lo
sapevano solo gli spiriti degli antenati. Comunque funzionava.
–
Avrai preso un virus, allora. Bevi la tua tisana.
Sono
troppo dura con lui?
–
Fa schifo.
–
Bevila lo stesso.
Heath
strinse le mani attorno alla tazza calda e inalò
profondamente.
–
Non so cosa mi è preso, mamma.
Mamma.
Da
un pezzo era diventata ma’
o perfino madre.
Non
la chiamava più così da quando era piccolo, a
meno che non
stesse davvero molto male.
Il
mare di sangue. Il mare di
sangue.
Il
sole filtrava appena dalle finestre sbarrate, ma qualcuno –
che
non poteva essere che lui stesso – aveva dimenticato di
chiudere bene la porta
della rimessa; così Buck l’aveva spalancata e
adesso Heath aveva il sole in
faccia. Dio, si era addormentato tipo mezz’ora prima
– o così gli pareva – ed
era già l’alba.
Buck
saltò sul divano letto e gli si sdraiò sulla
pancia, poi
decise che era ora di alzarsi. Gli leccò il naso, poi
passò alla bocca e Heath
schizzò a sedere come una molla.
–
Maccheschifo! Via, bestione!
Buck
abbaiò e continuò a leccarlo e Heath lo
allontanò
piantandogli un piede nelle costole. Scoppiò una zuffa che
finì con il ragazzo
per terra e il cane sdraiato sopra di lui.
–
Ok, mi arrendo.
Buck
diede ancora una leccata, poi gli posò il testone sullo
sterno; era davvero pesante. Come avere un’anguria giusto al
centro del petto.
Il cane si allungò di nuovo, si sistemò e Heath
lo grattò dietro alle orecchie.
Poi rimase fermo a fissare il soffitto a travi della rimessa.
Non
solo aveva di nuovo dormito di merda, ma c’era anche stato
l’incubo.
Doveva
essere colpa del divano letto. Da quando l’avevano
obbligato a cedere il suo letto a Sacco d’Ossa, aveva
scoperto che quel cavolo
di divano poteva andare molto bene per… per lui e Rivkah, ma
dormirci tutta la
notte era un’altra faccenda.
Un
letto scomodo poteva far fare brutti sogni, su questo non
c’era
dubbio. Non avrebbe dovuto farne un dramma. Peccato che poi non
riuscisse a
riaddormentarsi, era quella la vera seccatura.
Buck
si era lasciato cadere al suo fianco e si era riaddormentato
profondamente. Russava in quel suo modo pacifico e così
anche Heath si rilassò,
contro il pelo caldo e morbido. Buck sapeva di cane, sì, ma
era un odore buono
come tutti gli odori che erano casa: quello della cucina e del cibo che
si
cuoceva, della sua stanza e dell’aria della foresta, che
restava nei capelli e
nei vestiti. Buck
sapeva anche di bosco,
resina e aghi di pino, di erba e fiori senza nome; gli ricordava luoghi
sicuri
e sonni tranquilli. Meglio per terra vicino a Buck che su quello
stupido
materasso di gommapiuma.
Il
corpo del ragazzo si appesantì fino al dormiveglia, ma il
ricordo dell’incubo gli impedì di lasciarsi andare.
Doveva
essere normale che ci pensasse ancora. Non era stata una
scena di quelle che si vedono tutti i giorni: era più strano
che negli ultimi
tre anni non l’avesse mai sognata.
La
lupa. La madre di Buck.
Con
la pancia aperta e gli intestini sparsi sulla neve.
Perfino
Isaias aveva accusato il colpo, quel giorno; Heath si
ricordava bene suo padre bianco come uno straccio. Dopo, mentre
tornavano a
casa, non aveva parlato per ore.
–
Sua madre è morta. Ha lottato con un orso – era
stato il breve
racconto del guardacaccia alla moglie, appena arrivati a casa. Allora
Neena li
aveva abbracciati entrambi. Non aveva nemmeno brontolato quando Heath
aveva
portato in casa il piccolo.
Neena
aveva parlottato a lungo col nonno, quel giorno. Era rimasta
con lui sotto il portico, perché il vecchio non rinunciava
alla sua sedia a
dondolo e alla vista delle montagne, nemmeno nelle giornate
più fredde. Accoccolata
ai piedi del vecchio, sua madre aveva parlato e ascoltato le rare
parole
dell’uomo anziano. Forse aveva anche pianto.
La
sera, a Heath era stato permesso di tenere il cucciolo con
sé
nel letto. Era così che avevano cominciato a dormire
assieme, almeno fino a
quando non era diventato il bestione che era.
Quando
Isaias, più tardi, aveva aperto piano la porta, Heath aveva
fatto finta di dormire; il piccolo invece si era agitato. Isaias gli
aveva
accarezzato la testa fino a quando Buck non aveva infilato la testa
sotto
l’ascella del ragazzo e si era calmato. Poi il guardaparco
aveva rimboccato
loro le coperte – non riusciva a farne a meno, anche se il
figlio era ormai
grande – e se ne era andato in punta di piedi.
Tutto
quel sangue.
Gli
venne di nuovo da vomitare.
Si
scrollò di dosso il cane e uscì così
com’era, in boxer e
maglietta. Girò attorno alla rimessa e, sul retro,
cercò di tirare su in fretta
e senza fare troppo casino. Poi tolse la maglia e andò a
sciacquarsi il viso
alla vecchia fontana a pompa, dove rimase un istante a specchiarsi
nell’acqua
della vasca.
La
vedeva ancora. Sempre la lupa.
Gli
occhi glieli aveva chiusi lui. Sembrava che dormisse, sul
serio. Aveva solo dovuto concentrarsi sugli occhi, ricordarsi di non
guardare
più in giù così gli sarebbe sembrato
che dormisse, che l’orso non l’avesse...
Tutto
quel sangue. Sparso sulla neve.
–
Stai… stai bene?
La
voce avrebbe potuto disperdersi al primo soffio di vento, ma le
parole erano chiare.
Cosa
cazzo ci faceva Sacco d’Ossa sveglia, a quell’ora?
Avrebbe
fatto bene a evitare gli short, la ragazzina. Si vedevano
troppo le gambe da scheletro in libera uscita. E la solita maglietta di
un
cartone animato giapponese era ridicola, infantile, e lei non solo era
sveglia
poco dopo l’alba, ma aveva già in mano un libro.
Un
libro illustrato, tipo un libro per bambini. Storie
di Dei ed Eroi, una cosa del
genere. Ma non si vergognava?
–
Stai… stai vomitando?
Heath
si asciugò la bocca sul braccio e si ricordò che
era in
mutande.
–
Senti, fatti i cazzi tuoi, eh?
Le
diede le spalle, poi con pochi passi furiosi rientrò nella
rimessa e sbatté la porta dietro di sé.
Sentiva
da dentro la presenza della rompiscatole. Come riusciva a
essere tanto irritante? Al confronto, Spina nel Culo era un dilettante.
Spiò
da dietro la finestra. Sacco D’Ossa non era andata via: era
ferma in piedi, gli avambracci a riparare lo stomaco, le mani strette
sui
gomiti.
Forse
voleva solo, tipo, essere gentile?
D’accordo,
era stato brusco. Forse.
Forse
avevano ragione tutti quanti e lui stava diventando una
persona orribile.
–
Dove sono gli altri? – chiese più tardi Heath alla
madre che si
preparava a uscire in macchina.
–
Hanno già fatto colazione. Donald è andato con
papà a fare il
giro del mattino e Anna ha detto che sarebbe tornata in camera sua.
Deve
scrivere una lettera.
–
In camera sua?
–
Che noia che sei, figlio.
Tutti
avevano qualcosa da fare. Tutti davano un senso alle loro
giornate. Perfino Buck, probabilmente, aveva le sue Cose Molto
Importanti da
fare. L’unica cosa che faceva lui, invece, era controllare i
messaggi sul
telefono (e incazzarsi perché non arrivava mai niente. Non
quello che sperava,
in ogni caso).
Era
ora di darci un taglio. Che andasse al diavolo anche Rivkah,
era ora di darsi da fare: per Buck, e anche perché rischiava
di diventare
matto. Di fondere il cervello continuando a chiedersi il
perché di tutto, senza
arrivare da nessuna parte.