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Autore: jakefan    07/06/2022    0 recensioni
Cos’hanno in comune Heath e Buck, il suo cane? Molte cose: entrambi sono giovani, pieni di energia e vivono sul confine tra due mondi. Buck è per metà lupo, Heath appartiene alla riserva Lakota e anche al mondo «di fuori», bianco e tecnologico. Ma c’è di più, anche se i due non lo sanno: un’eredità sconvolgente sepolta dentro a ricordi lontani.
Quando il richiamo della vita adulta diventa perentorio, per entrambi si prospettano scelte difficili, rivelazioni e incontri che cambieranno loro la vita.
E la scoperta di un terzo mondo nascosto, governato dalla magia che permea tutte le cose.
Ho ucciso sua madre. E' mio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8.

 

 

 

– Numero 37, avanti.

Heath spinse la porta del piccolo ufficio e poi se la richiuse alle spalle.

– Sono andato a casa vostra ma non c’era nessuno e così sono venuto qui.

Dietro la scrivania, Deanna Hamilton lo guardava da sopra gli occhiali. Se era sorpresa di trovarlo lì, nel suo ufficio ai servizi sociali, non lo dava a vedere.

– Buongiorno anche a te, Heath. Come posso aiutarti?

Heath non sopportava la madre di Rivkah. Cioè, non è che non gli piacesse come persona; era tosta come Neena e bella come una versione cinquantenne di Rivkah. E possedeva un’invidiabile collezione di vinile anni 80. Peccato per quel vizio di dire sempre la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, manco fosse sotto giuramento ogni minuto della sua vita.

– Volevo sapere dov’è Rivkah.

– E vieni a chiederlo a me mentre lavoro? Mandale un messaggio.

– Gliene ho mandati una decina. L’ho chiamata. Non mi risponde.

– Non vuole vederti, Heath. Casomai ti fosse sfuggito.

Nella sede dell’assistenza sociale della municipalità di Northland–Highwood, Deanna si occupava delle pratiche di sostegno alle famiglie numerose. Distribuiva soldi ai poveracci, insomma, dopo aver verificato che ne avessero diritto. Indiani della riserva ma anche disperati di tutti i colori e di ogni parte del mondo. La gente pensava che Deanna lo facesse a suo insindacabile giudizio, secondo come si alzava la mattina e forse avevano ragione; quella strega doveva provare un certo piacere nel disporre dei destini delle persone.

Heath sbuffò, alzò gli occhi al cielo e fece per uscire, rimanendo a metà strada sulla soglia. Nella piccola sala d’attesa fuori dall’ufficio, una coppia di sudamericani lo fissava.

– Hai preso il numero, ragazzo?

– Ho preso il numero.

Era vero. Per vedere Deanna aveva aspettato mezz’ora.

– Devi prenderne un altro, se vuoi tornare dentro.

Fece un gestaccio ai due e poi rientrò nell’ufficio. Deanna si era rituffata nelle sue scartoffie.

– Per favore. Voglio solo parlarle. Non andate cianciando tutto il giorno che i conflitti si risolvono con il dialogo, tu e i tuoi colleghi?

Deanna tolse gli occhiali e si asciugò la fronte con un fazzoletto di carta; solo in quel momento Heath si accorse che era stanca. Doveva essere dura stare lì dentro ad ascoltare le lagne di tutti; lui non avrebbe fatto quel lavoro per niente al mondo. Con quel caldo, poi…

L’estate in quei giorni dava il meglio di sé; lui e Rivkah avrebbero potuto essere in qualche bel posto a prendere il sole o a tuffarsi nel fiume. Avrebbero perfino potuto prendere la moto e andare al mare e starci un paio di giorni. Eccheccazzo.

– La proteggete da me come se fossi un… cazzo ne so, uno stalker.

– Se ti può consolare, le ho detto che avrebbe dovuto parlarti.

– Ecco. Dimmi dov’è così ci parliamo.

Toccò a Deanna sbuffare.

– No, non te lo dico. Ti do un indizio: dove andresti tu con questo caldo?

– A fare un bagno nel fiume?

– Mah?

– Che cretino, potevo arrivarci da solo.

– Ci sei arrivato da solo, infatti, io non ti ho detto niente. Levati dalle scatole, ho da fare. Numero trentotto, avanti. Trentotto?

Heath schizzò via e quasi travolse la coppia di messicani cicciotti numero trentotto. I due gli lanciarono un sangre de dios e qualche altra brutta cosa incomprensibile prima di entrare da Deanna.

 

***

 

– Ehi, ragazze, guardate un po’?

Quattro teste di diversi colori e acconciature si girarono contemporaneamente in direzione della strada. Un ragazzo alto scendeva da un’Harley Davidson vintage e la sistemava in una delle piazzole per motociclisti, a pochi metri dalla riva del fiume. Scuro di pelle come avesse passato la vita ad abbronzarsi, portava lunghi capelli neri legati dietro in una coda. I jeans tagliati e la maglietta bianca d’ordinanza nascondevano ben poco delle braccia lunghe e della schiena ampia. Era bello da morire e perfino Julie, la più nerd delle ragazze – quella che se non portavi occhiali spessi tre dita nemmeno ti guardava – si fece scappare un sospiro. I bicipiti del tipo si gonfiarono e la pelle lucida di sudore si tese sui muscoli mentre caricava la moto sul cavalletto; una lode al Creatore si alzò, subito seguita da una preghiera.

– Dio, fai che venga da questa parte – sospirò la biondina con la coda.

– Amen, sorella – rispose devotamente Julie. Nera con una bella ciocca rossa, era la cugina preferita di Rivkah. Si era portata due amiche da Cincinnati, per la settimana di vacanza che avrebbero trascorso nel parco.

– Cazzo, no.

– Lo conosci, Riv? Non dirmi che è…

– Cazzo, sì. Questa sera dovrò strangolare mio fratello.

Julie alzò gli occhi al cielo.

– Smettila con le parolacce. Sei un’egoista, non ci pensi mai a noialtre poverette?

Heath ci sentiva piuttosto bene, anche da lontano.

– Ehi, non devi strangolare nessuno. Fa caldo e mi sono ricordato che venivamo qui quando faceva caldo, l’anno scorso. Perché mi eviti?

La biondina ridacchiò. La rossa si tirò su gli occhiali da sole.

Rivkah si alzò e si tuffò in acqua. In poche bracciate fu al centro del fiume, sulla secca dove altri ragazzi e ragazze prendevano il sole.

Così com’era, Heath si tuffò in acqua e la raggiunse.

 

– Sempre teatrale, tu

– Chi sono, quelle? Perché non mi rispondi? Che cosa ti ho fatto?

Sul greto del fiume le ragazze sedevano in fila, i piedi a mollo, e li guardavano.

– Mr. Maglietta Bagnata! Hai vinto!

Mancavano solo i popcorn.

– Sono una cretina.

– Non sei cretina.

– Sì, invece.

Rivkah passò una mano tra i capelli grondanti di Heath e glieli scostò dal viso. La mano indugiò un attimo di troppo sulla pelle del ragazzo, che la afferrò e se la premette sulla guancia.

Un ululato di approvazione si alzò dalla spiaggetta e Rivkah, stizzita, si ritrasse.

– Testone. Perché devi venire a farti ridere dietro dalle mie amiche? Pensa quanto sono cretina, mi dispiace per te. Stai facendo la figura dell’idiota.

– Non mi interessa.

Heath lasciò andare, riluttante, la mano più piccola e chiara dell’amica. Il mugugno di delusione degli spettatori intristì anche lui.

– Riv. Che cosa ho fatto? A me sembra di non avere fatto niente, ma magari il cretino sono io e non me ne sono accorto e…

Sul viso di Rivkah scorreva acqua; le gocce scintillavano sulle gote lucide e sulla fronte, e rivoli lucenti colavano giù dai capelli, lungo il collo, in mezzo al seno, e il sole ci giocava.  Heath si sedette accanto a lei e se la tirò vicino, e sentì la sua tensione sciogliersi, le spalle diventare più morbide.

– Forse sono stato egoista. Non ti ho chiesto niente di te, dell’università… Dicevi Auckland, giusto? Dovevo congratularmi, sono un asino. Io non vado da nessuna parte, non voglio lasciare Buck. Tua madre come l’ha presa? Dovrebbe essere felice, è una grande cosa per te e…

Rivkah si irrigidì. Heath tolse il braccio e la lasciò libera, e cercò il suo viso sul quale ancora l’acqua scorreva.

– Non capisci un cazzo, Heath. Ma veramente un cazzo. Congratulati e poi sparisci.

– Scusa ma io non…

– Mi hai sentita? Sparisci. Ma stavolta per davvero.

Rivkah lo scostò malamente e si alzò.

– Ascoltami bene, non te lo dirò un’altra volta. Non ti voglio più vedere. Devi uscire dalla mia vita, capito? È questione di poco, parto fra un mese. Fino a quel momento, levati dai coglioni. Non. Cercarmi. Più.

E si rituffò in acqua.

Heath rimase lì seduto per terra, i jeans fradici e la maglietta che non si voleva asciugare e gli lasciava sulla pelle una sensazione di freddo; il sole si era nascosto dietro nuvole nere. Forse era in arrivo un altro temporale estivo, di quelli che ti fregano sempre.

In poche bracciate Rivkah raggiunse le ragazze sul greto del fiume; Julie si alzò, le andò incontro e la abbracciò. Poi tutte quante raccolsero la loro roba e si avviarono verso il parcheggio. Nessuna si girò a guardare Heath. Una giovane coppia – lui grosso e tatuato e lei piena di piercing – che fino a un attimo prima limonava sdraiata sulle pietre calde, aveva slacciato le lingue e lo fissava; la ragazza sembrava particolarmente incavolata. Pure lei.

– Fatevi i fatti vostri.

Lei gli mostrò il dito. Era ora di tornarsene a casa.

Proprio in quel momento cominciò a piovere.

 

Un attimo dopo era come trovarsi sotto una doccia aperta al massimo. Il giubbotto che si portava sempre dietro non servì a molto e Heath si ritrovò di nuovo bagnato fino alle mutande. Letteralmente. Le gocce scorrevano lungo la spina dorsale come fosse stato a pelle nuda, fino alla fessura in mezzo alle chiappe. Era gelato, aveva bisogno di una doccia calda. Neena non l’avrebbe fatto entrare in casa, così fradicio: avrebbe dovuto cambiarsi sotto il porticato.

A proposito di porticato.

Buck se la rideva all’asciutto sullo zerbino. Dalla finestra del salotto Anna, protetta dal vetro, lo studiava a distanza.

Va bene. Forse se faceva una buona azione gli dei avrebbero avuto pietà di lui e i guai sarebbero finiti. Gocciolante, spinse la moto fino alla rimessa. Fece con calma, tanto più bagnato di così non avrebbe potuto essere.

 

Fece di corsa il pezzo di prato tra la rimessa e la casa; si era cambiato e si ribagnò di nuovo. Salì con un salto gli scalini e si piazzò davanti alla finestra.

– Dai, vieni fuori. Se vuoi puoi toccarlo, non ti fa niente.

La porta si aprì piano, cigolando. Dalla cucina arrivarono le voci degli adulti che chiacchieravano. Meglio, così nessuno l’avrebbe visto con Sacco d’Ossa.

Buck si alzò per andare incontro all’amico; la ragazzina con un balzo si nascose dietro la schiena di Heath e gli afferrò la maglietta.

– Dai, mollami. Ho detto che non ti fa niente.

– Ma è un lupo.

– Mezzo cane, mezzo lupo. L’ho trovato nella foresta, sua madre è morta.

Buck si appoggiò a Heath e alzò il muso verso di lui. Lo fissava con gli occhi grandi e dolcissimi; il ragazzo si abbassò un poco e il mezzo lupo gli leccò il viso.

– Ecco, vedi? Lui è… speciale.

– Era tanto piccolo? Quando… quando è arrivato. Quando sua madre è morta, voglio dire.

– Piccolissimo. Non aveva più di un mese, credo.

– Quando ero piccola i miei si sono lasciati.

– Che c’è, vuoi essere adottata anche tu?

Anna si coprì di chiazze rosse. Heath si morse la lingua, come cavolo gli era venuta in mente questa stronzata di adottarla? Lo sapeva solo il Dio degli Idioti, che oggi doveva essere l’unico che se lo filava.

– Uh, scherzavo. Intendevo dire… Se vuoi ti adotto. Per qualche giorno, intendo – bofonchiò Heath – ti porto a fare una passeggiata con Buck, così ti passa la paura.

Anna si strinse nelle piccole spalle magre.

– Lui è contento di stare con te?

Heath si inginocchiò accanto al lupo, che sollevò la grossa testa e gliela posò sulle ginocchia. Brontolò piano, mentre Heath gli passava la mano aperta tra le ciocche di pelo fulvo sul collo, più lunghe e morbide, che formavano una specie di criniera.

– Non gliel’ho mai chiesto. L’ho sempre dato per… scontato, credo. Non lo so. Ehi, sei contento di stare con me?

Buck gli leccò una mano.

– Non è che abbia avuto molta scelta.

– Perché dici questo?

– Quando l’ho preso con me era davvero molto piccolo. Aveva ancora bisogno del latte di sua madre ma lei non poteva più darglielo. Lui mi succhiava le orecchie. Gli ho dato del latte caldo, a casa, con una bottiglia. Non sapevo nemmeno cosa dargli da mangiare, nessuno mi aiutava. Isaias… mio padre non voleva che lo tenessi. Mi sono opposto. Ho cercato in giro, ho studiato e mi sono tipo trasformato in una lupa. Lo volevo.

Buck alzò la testa e fissò il ragazzo negli occhi.

– Lui è mio.

Heath prese il muso tra le mani e posò la fronte su quella del lupo, che chiuse gli occhi e mugolò di piacere.

– Mio. Tu sei mio, vero?

 

Neena chiuse le finestre, soddisfatta. Un temporale era proprio quello che ci voleva; avrebbe rinfrescato l’aria e le avrebbe dato il coraggio di accendere il forno per preparare una torta.

Isaias era tornato con due cesti di lamponi; glieli avevano regalati i bambini della scuola elementare, come ringraziamento per tutto quello che aveva spiegato loro sui lupi. «Niente marmellata, questa volta voglio una torta» le aveva detto.

Neena preparò prima la pasta: fece la fontana con farina e zucchero e, con le dita, cominciò a intriderli con il burro a cubetti. Dopo un po’ poté formare un panetto che mise a riposare coperto con un panno, quindi si occupò dei lamponi. Erano grossi e maturi; i bambini dovevano averli comprati o colti in qualche giardino, perché le siepi lungo le strade battute dai turisti erano già state spogliate.

La donna lavò i frutti e, con un coltello affilato, li tagliò a pezzi, fino a quando nella grande ciotola davanti a sé ne ebbe un bel mucchio, il cui succo rosso cominciava a colare sul fondo. Spremette un limone nella ciotola, cosparse di zucchero e poi, con le mani nude, cominciò a mescolare delicatamente.

Il coltello, appoggiato male sul bordo del tavolo, cadde per terra. Neena scosse rapidamente le mani e si piegò per raccoglierlo.

Era lì, col coltello in mano, quando l’urlo di Heath le trafisse le orecchie.

– Tesoro! Cosa c’è?

Suo figlio era bianco, come se la sua pelle – simile a quella bronzea di Neena – fosse stata candeggiata, o come certe rive sassose che asciugano al sole quando il fiume si ritira; la guardava negli occhi e la donna si toccò il viso, che rimase tinto di rosso. Gli occhi febbricitanti di Heath corsero dal viso di Neena alle mani rosse e grondanti, e poi di nuovo al viso sporco di rosso; il ragazzo boccheggiò e si tenne lo stomaco.

La fronte gli si coprì di sudore; poi corse via lungo il corridoio fino al bagno di servizio.

Neena lo trovò chino sul water.

– Cosa c’è? Hai mangiato qualcosa di strano? Ma… sei bagnato! Avrai preso freddo. Vieni con me.

Gli gettò sulle spalle la sua vecchia vestaglia, lo strinse e gli accarezzò il viso.

Heath tremava.

 

– No-o. Me l’hai chiesto almeno dieci volte. Non ho mangiato niente di strano, ero a stomaco vuoto.

La torta rimasta a metà strada era stata tolta di mezzo, e davanti a Heath fumava una tazza d’acqua calda dove Neena aveva sciolto un po’ di erbe del nonno.

Cosa ci mettesse Howakhan in quel miscuglio di roba secca, lo sapevano solo gli spiriti degli antenati. Comunque funzionava.

– Avrai preso un virus, allora. Bevi la tua tisana.

Sono troppo dura con lui?

– Fa schifo.

– Bevila lo stesso.

Heath strinse le mani attorno alla tazza calda e inalò profondamente.

– Non so cosa mi è preso, mamma.

Mamma.

Da un pezzo era diventata ma’ o perfino madre.

Non la chiamava più così da quando era piccolo, a meno che non stesse davvero molto male.

 

Il mare di sangue. Il mare di sangue.

Il sole filtrava appena dalle finestre sbarrate, ma qualcuno – che non poteva essere che lui stesso – aveva dimenticato di chiudere bene la porta della rimessa; così Buck l’aveva spalancata e adesso Heath aveva il sole in faccia. Dio, si era addormentato tipo mezz’ora prima – o così gli pareva – ed era già l’alba.

Buck saltò sul divano letto e gli si sdraiò sulla pancia, poi decise che era ora di alzarsi. Gli leccò il naso, poi passò alla bocca e Heath schizzò a sedere come una molla.

– Maccheschifo! Via, bestione!

Buck abbaiò e continuò a leccarlo e Heath lo allontanò piantandogli un piede nelle costole. Scoppiò una zuffa che finì con il ragazzo per terra e il cane sdraiato sopra di lui.

– Ok, mi arrendo.

Buck diede ancora una leccata, poi gli posò il testone sullo sterno; era davvero pesante. Come avere un’anguria giusto al centro del petto. Il cane si allungò di nuovo, si sistemò e Heath lo grattò dietro alle orecchie. Poi rimase fermo a fissare il soffitto a travi della rimessa.

Non solo aveva di nuovo dormito di merda, ma c’era anche stato l’incubo.

Doveva essere colpa del divano letto. Da quando l’avevano obbligato a cedere il suo letto a Sacco d’Ossa, aveva scoperto che quel cavolo di divano poteva andare molto bene per… per lui e Rivkah, ma dormirci tutta la notte era un’altra faccenda.

Un letto scomodo poteva far fare brutti sogni, su questo non c’era dubbio. Non avrebbe dovuto farne un dramma. Peccato che poi non riuscisse a riaddormentarsi, era quella la vera seccatura.

Buck si era lasciato cadere al suo fianco e si era riaddormentato profondamente. Russava in quel suo modo pacifico e così anche Heath si rilassò, contro il pelo caldo e morbido. Buck sapeva di cane, sì, ma era un odore buono come tutti gli odori che erano casa: quello della cucina e del cibo che si cuoceva, della sua stanza e dell’aria della foresta, che restava nei capelli e nei vestiti.  Buck sapeva anche di bosco, resina e aghi di pino, di erba e fiori senza nome; gli ricordava luoghi sicuri e sonni tranquilli. Meglio per terra vicino a Buck che su quello stupido materasso di gommapiuma.

Il corpo del ragazzo si appesantì fino al dormiveglia, ma il ricordo dell’incubo gli impedì di lasciarsi andare.

Doveva essere normale che ci pensasse ancora. Non era stata una scena di quelle che si vedono tutti i giorni: era più strano che negli ultimi tre anni non l’avesse mai sognata.

La lupa. La madre di Buck.

Con la pancia aperta e gli intestini sparsi sulla neve.

Perfino Isaias aveva accusato il colpo, quel giorno; Heath si ricordava bene suo padre bianco come uno straccio. Dopo, mentre tornavano a casa, non aveva parlato per ore.

– Sua madre è morta. Ha lottato con un orso – era stato il breve racconto del guardacaccia alla moglie, appena arrivati a casa. Allora Neena li aveva abbracciati entrambi. Non aveva nemmeno brontolato quando Heath aveva portato in casa il piccolo.

Neena aveva parlottato a lungo col nonno, quel giorno. Era rimasta con lui sotto il portico, perché il vecchio non rinunciava alla sua sedia a dondolo e alla vista delle montagne, nemmeno nelle giornate più fredde. Accoccolata ai piedi del vecchio, sua madre aveva parlato e ascoltato le rare parole dell’uomo anziano. Forse aveva anche pianto.

La sera, a Heath era stato permesso di tenere il cucciolo con sé nel letto. Era così che avevano cominciato a dormire assieme, almeno fino a quando non era diventato il bestione che era.

Quando Isaias, più tardi, aveva aperto piano la porta, Heath aveva fatto finta di dormire; il piccolo invece si era agitato. Isaias gli aveva accarezzato la testa fino a quando Buck non aveva infilato la testa sotto l’ascella del ragazzo e si era calmato. Poi il guardaparco aveva rimboccato loro le coperte – non riusciva a farne a meno, anche se il figlio era ormai grande – e se ne era andato in punta di piedi.

 

Tutto quel sangue.

Gli venne di nuovo da vomitare.

Si scrollò di dosso il cane e uscì così com’era, in boxer e maglietta. Girò attorno alla rimessa e, sul retro, cercò di tirare su in fretta e senza fare troppo casino. Poi tolse la maglia e andò a sciacquarsi il viso alla vecchia fontana a pompa, dove rimase un istante a specchiarsi nell’acqua della vasca.

La vedeva ancora. Sempre la lupa.

Gli occhi glieli aveva chiusi lui. Sembrava che dormisse, sul serio. Aveva solo dovuto concentrarsi sugli occhi, ricordarsi di non guardare più in giù così gli sarebbe sembrato che dormisse, che l’orso non l’avesse...

Tutto quel sangue. Sparso sulla neve.

– Stai… stai bene?

La voce avrebbe potuto disperdersi al primo soffio di vento, ma le parole erano chiare.

Cosa cazzo ci faceva Sacco d’Ossa sveglia, a quell’ora?

Avrebbe fatto bene a evitare gli short, la ragazzina. Si vedevano troppo le gambe da scheletro in libera uscita. E la solita maglietta di un cartone animato giapponese era ridicola, infantile, e lei non solo era sveglia poco dopo l’alba, ma aveva già in mano un libro.

Un libro illustrato, tipo un libro per bambini. Storie di Dei ed Eroi, una cosa del genere. Ma non si vergognava?

– Stai… stai vomitando?

Heath si asciugò la bocca sul braccio e si ricordò che era in mutande.

– Senti, fatti i cazzi tuoi, eh?

Le diede le spalle, poi con pochi passi furiosi rientrò nella rimessa e sbatté la porta dietro di sé.

Sentiva da dentro la presenza della rompiscatole. Come riusciva a essere tanto irritante? Al confronto, Spina nel Culo era un dilettante.

Spiò da dietro la finestra. Sacco D’Ossa non era andata via: era ferma in piedi, gli avambracci a riparare lo stomaco, le mani strette sui gomiti.

Forse voleva solo, tipo, essere gentile?

D’accordo, era stato brusco. Forse.

Forse avevano ragione tutti quanti e lui stava diventando una persona orribile.

 

– Dove sono gli altri? – chiese più tardi Heath alla madre che si preparava a uscire in macchina.

– Hanno già fatto colazione. Donald è andato con papà a fare il giro del mattino e Anna ha detto che sarebbe tornata in camera sua. Deve scrivere una lettera.

– In camera sua?

– Che noia che sei, figlio.

Tutti avevano qualcosa da fare. Tutti davano un senso alle loro giornate. Perfino Buck, probabilmente, aveva le sue Cose Molto Importanti da fare. L’unica cosa che faceva lui, invece, era controllare i messaggi sul telefono (e incazzarsi perché non arrivava mai niente. Non quello che sperava, in ogni caso).

Era ora di darci un taglio. Che andasse al diavolo anche Rivkah, era ora di darsi da fare: per Buck, e anche perché rischiava di diventare matto. Di fondere il cervello continuando a chiedersi il perché di tutto, senza arrivare da nessuna parte.

   
 
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