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Autore: heliodor    20/06/2022    0 recensioni
Valya sogna di diventare una grande guerriera, ma è solo la figlia del fabbro.
Quando trova una spada magica, una delle leggendarie Lame Supreme, il suo destino è segnato per sempre.
La guerra contro l’arcistregone Malag e la sua orda è ormai alle porte e Valya ingaggerà un epico scontro con forze antiche e potenti per salvare il suo mondo, i suoi amici… e sé stessa.
Aggiunta la Mappa in cima al primo capitolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Sei tu che fai le regole

 
“Non potremmo” disse Ros. “Abbatterla?”
Yuldra indicò la porta. “Ti hanno già spiegato che non possiamo scavare nella roccia viva.”
“Non parlo di scavare” disse Ros. “Ma di abbatterla.”
La strega lo fissò con espressione interdetta.
“Con un incantesimo” aggiunse. “Una sfera infuocata dovrebbe andar bene.”
“È fatta di metallo temprato. Una sola sfera infuocata non basterebbe nemmeno a scalfirla.”
“Quante ne servirebbero?”
“Non lo so. Cento? Duecento?”
Ros si accigliò.
“Prima che tu me lo chieda, non possiamo usare così tante sfere infuocate.”
“Perché no? Esiste un limite?”
Yuldra scosse la testa e sorrise. “Ci sono ventidue mantelli in questa armata” disse. “E solo tre sanno usare le sfere infuocate. E due sono andati con Zane.”
“E il terzo?”
“Sono io.”
Ros sospirò. “Ci riusciresti col tuo migliore incantesimo?”
“Il mio migliore incantesimo è la ragnatela mistica, guaritore. Una sfera infuocata della potenza che ti serve è impossibile. Nemmeno se fossimo in trenta ci riusciremmo.”
“Ho capito. E se invece provassimo a colpire la pietra attorno alla porta? Non sarebbe più semplice?”
Yuldra sembrò rifletterci sopra. “Forse ne servirebbero cinquanta, se siamo abili e fortunati. Ma siamo ancora lontani, temo.”
“Io” disse Ros incerto. “Credo di aver bisogno di tempo per pensarci.”
“Non metterci troppo. Kumal ha indetto una riunione tra un quarto di giornata.” Yuldra abbassò la voce. “Se per allora non avrai una soluzione, torneremo di sopra.” Fece per andarsene.
Ros la seguì con lo sguardo mentre saliva le scale e raggiungeva l’uscita. Tornò a rivolgere la sua attenzione alla porta.
Devo trovare il modo di aprirla, si disse. O di abbatterla, se necessario.
Camminò fino a uno degli ampi gradini che formavano dei rozzi sedili. Sulla roccia erano ancora visibili i segni lasciati da innumerevoli corpi che lì si erano seduti e avevano parlato o pregato.
Ros non era riuscito a capire a cosa servisse quella sala e, ora che ci pensava bene, non era nemmeno sicuro che dietro quella porta ci fosse l’uscita.
Per quanto ne sappiamo, si disse, potrebbe esserci un’altra galleria. O un baratro, un precipizio. Non sappiamo niente di questo luogo, né dei maghi antichi, se sono mai esistiti. Se almeno avessero lasciato qualcosa di scritto, potrei provare a basarmi su quelli per trovare una soluzione.
Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi.
Devo trovare un modo, si disse. Devo capire come aprire la porta o moriremo qui sotto. Tutti moriranno. Io morirò. E anche Valya.
Valya.
Quel nome risuonò nella sua mente.
Concentrati, pensò. Non farti distrarre. Trova il tuo posto tranquillo. Come se fosse semplice.
Tutte le volte che ci aveva provato, aveva fallito.
Shi’Larra gli aveva spiegato con pazienza come fare per evocare quel luogo misterioso e renderlo reale nella sua mente. Lei sembrava riuscirci senza difficoltà e Ros aveva pensato che stesse mentendo o si prendesse gioco di lui.
È in quel luogo che ha incontrato Quamara, si disse.
All’inizio ci aveva provato sperando di poter incontrare anche lui quell’essere, se era reale e non era solo l’immaginazione di Shi’Larra.
Aveva provato e fallito, come spesso gli capitava nella vita quando cercava di fare qualcosa di difficile. Di impossibile.
Eppure, si disse, Shi’Larra ci riesce. Ma posso fidarmi di lei, delle sue parole?
L’indovina sembrava così sicura di sé e le poche volte che aveva parlato di Quamara, nel cortile mentre attorno a loro le persone combattevano e morivano senza uno scopo reale, le era apparsa sincera.
Quel posto esiste, si disse. E Quamara è reale, almeno nella mente di Shi’Larra. Se lei ce l’ha fatta, posso riuscirci anche io. Devo solo trovare il posto sicuro. Il mio posto sicuro. Da qualche parte nella mia mente deve esistere.
Respirò come Shi’Larra gli aveva insegnato, trattenendo il respiro fino a calmare i battiti del cuore.
Cancella tutti i pensieri inutili, sentì dire alla voce dell’indovina.
Concentrati sul posto che vuoi trovare.
Il posto che voglio trovare, pensò. Dove si trova? Dov’è che mi sono sentito sicuro e protetto in vita mia?
La prima volta aveva evocato la sua stanza a Cambolt, nel livello isolato in cui suo padre lo aveva confinato. Era stretta e buia, con una sola finestra che dava sul cortile. Fredda d’inverno perché le mura erano di legno marcio e sottile e calda d’estate perché più in alto e rivolta verso il sole, ma era la sua stanza.
Il suo regno.
Era il posto dove si rifugiava quando Rezan lo tormentava con i suoi scherzi violenti, ma non lo aveva mai salvato davvero. Lui si limitava ad attendere fuori dalla porta con pazienza, tendendogli agguati quando non se l’aspettava.
Le prime volte aveva cercato di sfuggirgli, ma resistere lo rendeva più rabbioso e violento e così aveva accettato quelle vessazioni sperando che finissero presto e che suo fratello si stancasse.
Nella stanza aveva passato gran parte del tempo mentre si trovava in casa, ma presto si era stancato di leggere gli stessi libri per la terza o quarta volta ed era uscito per fare delle passeggiate tra i boschi e i campi attorno a Cambolt.
All’inizio erano stati giri brevi, fatti col terrore di perdersi e non riuscire a tornare a casa o di ritornare troppo tardi dovendo subire l’ira di suo padre e lo scherno dei fratelli.
Col tempo aveva imparato a memoria i sentieri e aveva disegnato una mappa dei dintorni, spingendosi sempre più lontano per esplorare luoghi che non aveva ancora visto o di cui aveva sentito parlare.
Il lago dove i ragazzi del villaggio andavano a fare dei tuffi d’estate.
La fattoria abbandonata che era appartenuta a Iasina, una povera donna mezza cieca che era stata uccisa da un balordo qualche anno prima.
L’albero-sentinella che sorgeva su di una collina e che la leggenda diceva fosse antico quanto il villaggio stesso perché era stato piantato da Qinor Cambelt, l’uomo che aveva costruito la prima fattoria in quella zona dopo che il re di Talmist aveva bonificato il terreno una volta paludoso.
C’erano tanti altri luoghi che voleva visitare il giorno in cui risalendo un sentiero aveva trovato la radura dove Valya si allenava con la sua spada arrugginita.
Valya, pensò.
Di nuovo il suo nome.
La radura apparve nella sua mente, reale come solo un ricordo alterato dal tempo poteva esserlo. Nella sua visione il cielo era di un azzurro limpido che non era frequente a Cambolt, famosa per le piogge abbondanti e il tempo che cambiava in fretta.
La radura era immersa nel silenzio fatta eccezione per il rumore delle fronde agitate dal vento. E dalla figura che si stava muovendo al centro del prato verde.
Indossava una camicia bianca, pantaloni scuri e stivali marroni lisi e consumati sulle punte. I capelli ricci di un nero corvino saltavano e ricadevano scompigliandosi a ogni movimento delle braccia e del busto.
Valya reggeva la spada con entrambe le mani solevate sopra la testa e a ogni affondo emetteva un piccolo grido come per darsi coraggio.
Ros rimase nascosto tra le fronde temendo che lei lo notasse e lo mandasse via in malo modo.
È una visione, si disse divertito. Non può accadermi niente di male o che io non voglia.
Raccogliendo il coraggio si fece avanti per mostrarsi a Valya.
Lei interruppe l’affondo mentre si stava piegando in avanti.
“E tu che cosa ci fai qui?” gli chiese divertita. “Non ti avevo detto di non venire?”
“Io” disse Ros esitando. “Stavo cercando un posto in cui stare. Un posto sicuro.”
Valya scrollò le spalle. “E pensi che sia questo?”
“Non lo so, Valya. Penso di sì. Non mi era mai capitato di avere una visione così precisa. Così netta. Ho quasi l’impressione che sia tutto vero.”
“È tutto vero” rispose lei. “Io sono vera. Tu lo sei. Questi alberi lo sono.”
Ros scosse la testa. “Io sto immaginando tutto questo. Persino le parole che dici sono mie. Sono io che mi rivolgo a me stesso.” Sbatté le palpebre perplesso. “Ora che ci penso, i folli parlano da soli, vero?”
Valya rise. “Il fatto che tu lo stai immaginando, non lo rende meno vero, Ros. È vero per te e per me. E non credere di potermi mettere in bocca le parole.” Gli agitò contro la spada con fare minaccioso. “O te la darò in testa.”
Lei andò a sedere vicino a un albero e appoggiò la schiena al tronco. “Allora” disse poggiando la spada per terra. “Che cosa sei venuto a chiedermi?”
“Non penso che tu possa risolvere il mio problema.”
“Finché non mi dice qual è il problema, lo penso anche io.”
Ros ghignò. “Ora non stai parlando come lei.”
Valya gli sorrise di rimando. “Come parlo di solito?”
“Sei più aggressiva” disse. “E credi di avere sempre ragione, anche quando hai torto.”
“Forse perché ho ragione, non trovi?”
“Tu pensi di avere ragione anche quando hai torto” l’accusò lui sentendosi subito imbarazzato. “Scusa.”
“A chi? Io non sono reale, ricordi? Stai parlando a te stesso, quindi dovresti chiedere scusa a te. Non lo trovi strano?”
“Tutto questo mi confonde.”
“Lo so.”
“Non parlo di questo” disse indicando la radura. “Ma questo” aggiunse mettendosi una mano sul petto.
“Lo so” disse Valya. “È la tua prima volta nel posto sicuro. È normale che tu sia confuso.”
“Lo dici solo perché voglio sentimelo dire.”
“Anche questo è vero. ma forse hai davvero bisogno che qualcuno te lo dica.”
“Cosa?”
“Che puoi risolvere quel problema.”
“La porta” disse Ros.
Valya annuì.
“Tu hai trovato la soluzione?”
Lei scrollò le spalle.
“Dimmelo.”
“Non funziona in questo modo, Ros.”
Lui si accigliò. “Come allora?”
“Non lo so. Sei tu che fai le regole in questo posto. Io posso solo seguirle.”
“Quali regole? Io non ho fatto niente.”
“La regola che hai stabilito prima di venire qui.”
“Dimmela” esclamò spazientito.
Valya scattò in piedi e afferrò la spada. “Non dire che non ti avevo avvertito, Ros Chernin.”
Lo colpì col piatto della lama alla gamba destra. Ros urlò e si ritrasse. “Fa male” si lamentò.
“Sei sorpreso?”
“Sì” ammise. “Non pensavo di poter provare dolore qui.”
“È un’altra regola che tu hai messo. Se non vuoi provare dolore, eliminala o cambiala.”
“Non so nemmeno come ho fatto a creare queste regole.”
“Ma tu devi saperlo” disse Valya divertita.
Ros scosse la testa. “Io cercavo solo un posto tranquillo dove pensare alla porta. Devo riuscire ad aprirla.”
“Ti ho detto che il modo esiste.”
“Non mi sei affatto d’aiuto, Valya Keltel.”
“Invece sì.” Gli mostrò la spada. Non era più quella arrugginita che usava per allenarsi nella radura, ma la spada maledetta che le donava i poteri.
Ros esitò. “Vuoi colpirmi di nuovo?”
Valya scosse la testa. “Voglio solo che tu veda.”
“Che cosa?” le domandò.
I simboli incisi sulla spada brillarono. “Questi.”
Ros si accigliò. “I simboli. Dovrebbero dirmi qualcosa?”
Valya annuì con vigore. “È lì la soluzione. Accidenti, Ros, sei così intelligente che persino io ci sono arrivata subito.”
“Tu non sei stupida.”
“Una parte di te lo pensa. O comunque non mi ritiene capace di risolvere il problema” rispose lei imbronciata.
“Mi spiace” si affrettò a dire Ros. “Non volevo…”
Valya sbuffò. “Non sono reale, dannazione. Concentrati sui simboli adesso. Tu hai già trovato la soluzione al problema, Ros Chernin. Devi solo convincere te stesso e io sono qui per aiutarti.”
“Valya, io…”
Lei alzò la spada e lo colpì alla testa.
Stavolta non sentì dolore ma solo una leggera pressione.
“Capito? Sei tu che fai le regole, qui dentro” disse Valya divertita. “E adesso torniamo ai simboli, vuoi?”
Sono io che faccio le regole, si disse.

 
  
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