Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Zobeyde    26/06/2022    3 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


GLI AMANTI





«Dì la verità: stai cercando di uccidermi?»
«Se riuscissi a stare fermo due secondi avrei già finito.»
«Ma se non mi sono mosso affatto!»
«Sei peggio di un’anguilla!» Alycia tirò un sospiro e si passò il dorso della mano sulla fronte. «Ora chiudi il becco, devo concentrarmi.»
Erano tornati alla Corte dei Miraggi da un paio d’ore. Sdraiato supino sul letto a torso nudo, Jim si morse le nocche, mentre Alycia terminava di medicargli la schiena; rispetto a quando gli aveva sistemato la costola rotta, questa operazione provocava solo un prurito terribile ma richiedeva molta precisione, o sarebbe rimasto con una brutta cicatrice.
«Ti hanno conciato proprio per le feste» valutò lei, contrariata. «Sei stato un incosciente a buttarti lì in mezzo senza sapere cosa ti aspettava.»
«Lo so, lo so... ma hai visto la faccia di Siegfried? Scommetto che nessuno l’aveva mai gabbato alla maniera dei Mancanti!»
«Avrebbe potuto farti molto più male.»
«E io avrei potuto fargli cadere quel ridicolo gonnellino davanti a tutta la città.»
«Qualcuna tra il pubblico avrebbe apprezzato.»
Lui alzò la testa e le rivolse un’occhiata sospettosa. «E tu cosa ne sai? Hai detto che non siete stati insieme.»
«Infatti.» Alycia alzò le spalle. «Ma sai, nella sauna comune ci si disinibiva parecchio...»
Di fronte alla sua espressione costernata, lei sogghignò: «Scherzetto.»
«Sei veramente perfida. Prenderti gioco così di un ragazzo agonizzante...»
«Esagerato.»
«...E offrirti di medicarlo solo per spogliarlo e mettergli le mani addosso...Ahi!»
«Sei un cretino» commentò lei, ma stava sorridendo. Recise i fili dorati dell’incantesimo e annunciò: «Be’, io qui ho finito: sei pronto per tornare a fare danni.»
Jim si tirò a sedere con prudenza: a parte un leggero formicolio, la schiena era come nuova. Tornò a guardare Alycia e sorrise: «Lo sai, mi era mancato vederti così.»
«Così come?»
«Spontanea, sorridente, in vena di battute. Come quando eravamo a New Orleans.»
Un piccolo muscolo si contrasse al lato della bocca di Alycia, che distolse in fretta lo sguardo. «Sono sempre io.»
«Non è vero. Da quando sei tornata ad Arcanta è come se facessi di tutto per essere il meno possibile te stessa.»
«Forse perché Arcanta non è New Orleans» replicò lei, piano. Si alzò in piedi e iniziò a riporre i vasetti di unguenti ed erbe officinali nel suo baule porta-pozioni. «O forse, in realtà è questa la vera me. Anche se pensi sia una stronza.»
«Io non penso che tu sia stronza» ribatté Jim. «Penso che tu sia molto forte, coraggiosa: hai tenuto testa a quei vecchi caproni dei Decani da sola. È stato fenomenale.»
Alycia si schiuse in un piccolo sorriso e arrossì. «Grazie.»
«Quello che voglio dire è che sei meglio di come cerchi di apparire alla gente di qui.» Jim esitò, poi chiese, con voce incerta: «È per colpa mia? Ti sei allontanata da me... perché quella sera al treno ti ho messo paura?»
Forse non era il momento adatto per parlarne, non ora che avevano finalmente ritrovato un po’ di sintonia; faceva male non sapere il motivo del suo comportamento, ma anche conoscere la verità gli avrebbe fatto male...
«Tu non hai fatto niente.» Alycia si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, continuando a tenere gli occhi bassi. «Davvero, Jim, tu non...è complicato.»
«Perché sono un Plasmavuoto?»
Lei ebbe un sussulto a sentire quella parola e scoccò occhiate nervose attorno. «Non parlare di certe cose qui! Potrebbero ascoltarci.»
«Sono stufo di recitare questo stupido ruolo!» sbottò lui. «Di mentire, di fare finta di conoscerti a malapena...»
«Jim, cosa vuoi che ti dica, esattamente?»
«Pensi davvero che quello che è successo tra noi sia stato un errore?»
Finalmente, Alycia lo guardò negli occhi, due pozze scure al tenue bagliore delle lucerne. «Io...»
Jim restò in attesa, i gomiti poggiati sulle ginocchia, i piedi nudi sul tappeto persiano e il cuore che batteva furiosamente.
Lei si inumidì le labbra. «Io...penso molte cose riguardo quella sera: penso di essere stata irresponsabile, di non aver riflettuto sulle conseguenze e anche di aver bevuto più del dovuto...»
Lui avvertì una fitta al petto e inspirò profondamente. «Ok.»
«Non mi ero mai comportata così prima» proseguì lei, con voce roca. «E non vedevo l’ora di farlo. Perciò no, non penso sia stato un errore.»
Jim si alzò, le venne vicino; senza smettere di guardarla, posò le mani sulle sue guance e l’ondata di energia che come sempre accompagnava il contatto della loro pelle si diffuse nell’aria, rendendola molto calda. Alycia si irrigidì e diventò tutta rossa, ma non si allontanò. «Non dovremmo.»
Lui si abbassò ancora, tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Allora» sussurrò sulle sue labbra. «Fermami.»
All’improvviso, qualcuno bussò alla porta. Alycia aprì gli occhi e si separò da lui con un balzo.
«Alycia, sei ancora lì?» disse la voce di Solomon Blake. «Se hai finito con le medicazioni ritengo sia opportuno che il cugino Winston riposi.»
Jim alzò gli occhi al soffitto. «Per essere uno che va in giro con l’orologio rotto, ha un tempismo incredibile.»
Si guardarono ed entrambi soffocarono una risata.
«Però ha ragione» disse Alycia. «Dovresti riposare.»
«Non sono mai stato più sveglio in vita mia. E poi» aggiunse lui con malizia. «Il letto è grande, c’è spazio per due.»
«Sai che probabilmente sta ascoltando, vero?»
«Torna più tardi» propose lui, con slancio. «Prima o poi andrà a dormire. E se non si sbriga, gli metterò un sonnifero nel tè che stenderebbe un cavallo.»
«Sei un pessimo alchimista.»
«Forse quel che mi serve è la giusta motivazione.»
Un altro paio di colpi alla porta, stavolta più impazienti.
«Arrivo!» disse Alycia a voce alta. Ancora un po’ rossa in faccia, prese il suo bauletto sottobraccio e raggiunse la porta. Ma prima di lasciare la stanza le sue labbra articolarono un “ci proverò”. La porta si chiuse dietro di lei.
Jim si lasciò cadere sul letto con le braccia spalancate e un sorriso enorme in faccia, felice come non si sentiva da parecchio tempo. Decise di approfittare di quel momento per sé per concedersi un bagno caldo: la stanza da bagno era pazzesca, conteneva l’illusione una sorgente termale immersa in una foresta. Immaginò le cose che avrebbero potuto fare più tardi lui e Alycia in quella piscina e valutò che al momento fosse più indicata una doccia fredda. Si avvolse in un morbido accappatoio e si mise a letto. Non appena toccò il cuscino, la stanchezza della giornata gli piombò addosso tutta insieme e si addormentò di sasso...
 
È di nuovo alla fattoria dei suoi genitori, nel New Jersey. Sopra la campagna infuria un temporale; James è seduto al solito tavolo della cucina e osserva le gocce di pioggia che creano rigagnoli lungo i vetri. E intanto, presta attenzione alla discussione che si sta tenendo nella stanza accanto:
«Non ha fatto alcun progresso.»
Quella voce, profonda e rauca, appartiene a un uomo alto, tutto tatuato, con la testa perfettamente calva; il suo volto color bronzo è pieno di orribili cicatrici, la bocca sottile sempre atteggiata in una smorfia di disgusto. Tra gli amici della mamma è quello che lo spaventa di più. Lo sottopone ogni volta a esercizi che non hanno senso, dandogli dello stupido se non li capisce e quando sbaglia impreca e se la prende con la mamma. James si chiede perché non lo mandi via, perché rimanga in silenzio ad ascoltare i suoi rimproveri. Lei, che è in grado di fare cose straordinarie, potrebbe farlo sparire in un battito di ciglia.
«Mi serve più tempo» dice Abigail con voce tesa. «Non posso farlo esercitare quando Tom è a casa, lo sai.»
«Quell’inutile Mancante!» esclama l’uomo con rabbia. «Non fa che darci problemi! Ti ha resa debole.»
«Tom non mi ha resa debole!» ribatte la mamma, ritrovando vigore nella voce. «E James è sempre nostro figlio, che ti piaccia o no.»
«Bada a come parli, ragazzina» sibila l’altro. «Non potrai giocare all’allegra famigliola di campagna per sempre: l’avrai anche messo al mondo, ma il void shaper appartiene a Lei, vedi di non scordarlo!»
«Dagon» interviene un’altra voce, bassa e tranquilla, la voce di una donna. «Questo atteggiamento non risolve niente e influisce negativamente sui poteri del bambino.»
«Maledizione, Zora, Arcanta ci sta addosso! Non c’è più tempo!»
«Lascia che parli io con lui» dice la donna, stavolta con tono più autoritario. «Forse, ciò che gli occorre è solo un po’ di motivazione.»
Dagon sbuffa, ma non esprime altre obiezioni.
Dopo un attimo, eccola entrare in cucina: è bella ed elegante, anche se non giovane come la mamma, alta, con zigomi pronunciati e gli occhi verdi. I capelli biondi le ricadono in boccoli ordinati sopra le spalle, ma a James sembra che abbiano qualcosa di artificioso, come se indossasse una parrucca.
«Ciao, Jamie» lo saluta con un sorriso, occupando la sedia di fronte alla sua. «Il mio nome è Zora. Tua madre mi ha confidato che sei goloso di dolci.»
Estrae dalla tasca del soprabito una scatolina di porcellana bianca e blu, con all’interno dei dolcetti colorati coperti di zucchero.

«Si chiamano lokum» spiega. «Sono tipici delle mie parti. Assaggiali, a me ricordano casa.»
Il bambino esita, poi allunga una mano e ne prende uno; si sciolgono sulla lingua e gli lasciano le dita appiccicose. Ne vorrebbe altri ma non osa chiedere.
«So che hai molte domande» dice la donna, lasciando la scatolina aperta sul tavolo in modo che possa servirsi da solo. «Che ci sono tante cose che al momento non comprendi. E so anche che Dagon ti spaventa, dico bene?»
Lui lancia un’occhiata nervosa alla porta chiusa, nel timore che l’uomo irrompa nella stanza e ricominci a urlargli contro.

«Qualche volta mette i brividi anche a me» confessa Zora con un sospiro. «Ma in parte lo capisco: hai visto tutte quelle brutte cicatrici? Se l’è procurate durante la Guerra Civile. Tutti noi abbiamo perso qualcosa e Dagon ha visto suo fratello cadere davanti ai propri occhi. Sai cos’è una guerra civile?»
James scuote la testa, mentre mangia un altro dolcetto.
«È una guerra che si combatte all’interno dello stesso popolo. Nel nostro caso, una guerra di maghi contro altri maghi.»
James la fissa senza capire. «Perché avete combattuto?»
«Siamo stati costretti a farlo, Jamie. Ti sei mai chiesto per quale motivo la tua mamma e il tuo papà non vogliono che lasci la fattoria? Perché ti vietano di giocare con gli altri bambini?»
James annuisce con energia. Se lo chiede continuamente, ma dai suoi genitori ha sempre ottenuto solo risposte vaghe: “troppo pericoloso” gli dicono. “È per la tua sicurezza”. Ma in cuor suo sa che più che per la propria temono per la sicurezza degli altri.
La donna si sporge sul tavolo, fissandolo intensamente. «Devi sapere che la nostra gente è stata oppressa da secoli, costretta a nascondersi, a vivere nella paura. Alcuni stregoni avidi hanno sfruttato questa paura per controllarci, portandoci via parte del nostro antico potere e quando alcuni di noi si sono ribellati, sono stati puniti. Per questo tua madre si è unita a noi: vuole per te un futuro diverso, dove non dovrai più nasconderti o essere sotto il controllo di qualcuno. Non è quello che vuoi anche tu?».
James rimane in silenzio, riflettendo sulle sue parole.
«Capisco cosa provi» dice Zora, con una luce dolce e malinconica nello sguardo. «I Senza Poteri temono quelli come noi, ci accusano di tutti i loro problemi. Per anni mi sono sentita un’ospite indesiderata ovunque andassi. Sola, abbandonata, prigioniera.» Solleva la manica e scopre l’avambraccio: nella parte interna, sulla pelle liscia e bianca è impresso un marchio a fuoco con dei numeri.
«Finché non ho incontrato persone uguali a me» conclude. «Loro sono diventati la mia famiglia, il mio scopo. E possono diventare anche il tuo, Jamie. Tu sei speciale per noi, molto più di quanto immagini: dentro di te custodisci quell’antico, immenso potere che ci è stato sottratto, un potere che può rendere il nostro popolo libero come un tempo. Ora capisci perché abbiamo bisogno del tuo aiuto?»
«Ma io...» balbetta lui, sconfortato. «Io non so come fare.»
«Basta che tu lo voglia» risponde Zora, convinta. «È nella Volontà che risiede la vera forza di un mago. Tutto il resto non conta.»
James non sa cosa rispondere. Si guarda le mani, quelle mani che spesso sfuggono al suo controllo e di cui suo padre sembra avere così paura. Certe volte crede di odiarle, altre di odiare lui e quella fattoria in cui è costretto da quando ne ha memoria, solo e senza amici...
Si è sempre sentito proprietà di qualcun altro e non una persona dotata di Volontà propria. Ma ha davvero il potere di cambiare le cose?
Zora prende le sue mani tra le proprie, con dolcezza.
«Che ne dici, Jamie?» propone, tornando a sorridergli. «Vuoi aiutarmi a cambiare il mondo?»
Nessuno gli ha mai chiesto qualcosa prima, se è felice laggiù, se voglia una vita diversa. James ricambia lo sguardo limpido della donna e sente nascere in lui una forza che non sapeva nemmeno di possedere.
«Sì.»
 
Jim aprì gli occhi, il cuore che correva nel petto come una lepre. Attorno a lui, nella stanza che occupava alla Corte dei Miraggi, era definitivamente calato il buio.
Scombussolato, si passò una mano sulla fronte sudata.
Ormai capitava sempre più spesso che facesse quegli strani sogni, ma non riusciva a capire se ciò che sognava fossero ricordi del passato oppure no. Alcune cose lo erano indubbiamente: sua madre che lo incoraggiava a esercitarsi con la magia nonostante il parere contrario di suo padre, il senso di impotenza dell’essere costretto a vivere isolato dal resto del mondo. Ma quelle persone, quella donna bionda...le aveva conosciute realmente? Chi erano e che cosa volevano da lui e sua madre?
Tirò un profondo sospiro e decise di concentrarsi su cose ben più reali per il momento. Tipo la fame.
Sul comodino erano apparsi magicamente un bicchiere di latte di mandorla e dei bignè alla crema, assieme a un biglietto coi complimenti della cucina per la Disputa. Non avrebbe mai immaginato di poter avere dei fan ad Arcanta. Magari, più tardi avrebbe potuto chiedere di fargli avere in camera anche una bottiglia di vino e due calici...
Mentre mangiava, notò che qualcuno aveva lasciato sul tavolino un origami di carta verde a forma di elefantino; incuriosito, Jim lo spiegò e scoprì che conteneva un messaggio:
 
C’è una festa in maschera all’Astrolabio stasera: saranno tutti lì, compreso mio padre. Vediamoci al labirinto di siepi intorno alle 22:00, vicino al Satiro Danzante.

 
Alycia
 
Jim sorrise, eccitato al pensiero di quell’appuntamento clandestino. Visto che erano già le 21:40 e non aveva tempo di pensare a un travestimento elaborato, optò per lo smoking indossato la sera prima; annodò il farfallino con la magia e mise una mascherina di seta nera attorno agli occhi. Quel look misterioso gli donava maledettamente, pensò, mentre afferrava una rosa bianca da un vaso e la infilava nell’occhiello della giacca.
Quando passò davanti alla sala dell’Astrolabio, la festa non era ancora in pieno svolgimento, anche se comunque animata. Jim individuò Solomon, finito tra le grinfie di Una Duval, che sfoggiava uno stupefacente vestito fatto di nuvole temporalesche e fulmini che guizzavano tra le pieghe della stoffa.
Attento a non farsi notare, Jim si infilò tra gli invitati, abbigliati in maniera così assurda da sembrare saltati fuori da un dipinto surrealista: passò tra una maga vestita da albero, con un’acconciatura a forma di nido e dei passerotti veri che le volteggiavano attorno alla testa e uno stregone con una redingote a piume di pavone. A un certo punto, si ritrovò faccia a faccia con un uomo, così all’improvviso che non poté evitare di finirgli addosso e rovesciargli il contenuto del suo bicchiere sul vestito.
«Porc...mi scusi tanto!»
«Nulla di irreparabile» replicò l’altro con voce strascinata, dopodiché ruotò il dito e la macchia scomparve dall’austera tunica di velluto nero che indossava. Con un tuffo al cuore, Jim capì che si trattava di un Decano e non uno qualsiasi: era lo stesso che aveva cercato di mettere in difficoltà Alycia alla Prova dell’Oro. Blackthorn.
«Winston Cavendish, presumo» disse il Decano con un guizzo di curiosità nello sguardo. Era un uomo imponente, con una barba bianca e curata e il volto trattenuto e chiuso come quello di un prete.
«Ehm, s-sì signore» farfugliò Jim, che per qualche ragione aveva smesso di respirare; forse era per il modo in cui lo fissava, ma si sentiva stranamente messo in soggezione da quell’uomo.
Blackthorn accennò un sorriso tiepido. «Ti ho visto nell’arena, oggi. Non il genere di spettacolo che mi sarei aspettato, ma te la sei cavata discretamente.»
«Grazie» replicò Jim. «Ora, se vuole scusarmi...»
«Stavo uscendo a prendere una boccata d’aria» lo interruppe il mago. «Mi accompagneresti?»
«Veramente devo incontrare una persona...»
«Aspetterà» disse Blackthorn, in tono categorico. «Non riterrai che esista qualcuno più importante di un Decano, giovanotto? E poi, me lo devi dopo il pasticcio che hai fatto col mio drink.»
Mentre il senso di soffocamento aumentava, Jim si guardò ansiosamente attorno, sperando di incrociare lo sguardo di Solomon, di Macon, di chiunque in grado di salvarlo. Ma il Decano lo stava già scortando in giardino, dove l’aria era appesantita dal profumo dei fiori tropicali e i suoni della festa giungevano ovattati.
Si fermò ai piedi della scalinata con le mani intrecciate dietro la schiena, e con Jim al suo fianco che cercava un modo per svignarsela. Chissà se Alycia era lì nei paraggi...
«So che la vita non è stata facile per te» disse il mago, lo sguardo rivolto verso gli alberi. «Crescere isolato dai tuoi simili e con la nomea di bastardo, oltretutto. È stata una vera fortuna che Solomon Blake ti abbia preso sotto la sua ala. Gli sarai molto riconoscente per questa occasione. Sei il primo a cui è concessa dopo molto tempo.»
«Sì, me l’hanno detto» rispose Jim, monocorde. «Molte volte.»
«Conoscendo i trascorsi con tuo padre è comprensibile che tu veda in Blake un punto di riferimento» continuò Blackthorn, senza dare segno di averlo sentito. «È sempre stato amato dai più giovani, cosa che non posso dire di me: del resto, sono l’Inquisitore, il Braccio della Legge. Ed è un bene che la Giustizia incuta timore.»
Jim lo guardò. «Sarebbe contento se anche i suoi figli avessero paura di lei?»
L’espressione di Blackthorn si indurì. «Io non ho figli.»
Fece una pausa, così lunga che Jim ipotizzò di dover prendere la parola. Ma non appena aprì bocca, l’altro riprese: «C’è stata una figlia, in passato. Ha preso quasi tutto da sua madre, tranne la bellezza. Ma era la mia ragione di vita, nessuno al mondo l’avrebbe mai amata come l’ho amata io. Ma lei ha scelto di tradirmi.»
«Ah» fece Jim, non sapendo cos’altro dire. «Capisco.»
«Vedi, ragazzo, per quanto la famiglia ci possa deludere è l’unica cosa che conta davvero» disse Blackthorn con un sospiro. «Senza le nostre radici, rischiamo di smarrire la strada. Ricordatelo, quando crederai di odiare tuo padre. Èquello che ho cercato di trasmettere anche a mia figlia, ma lei ha fatto le sue scelte e ne ha pagato le conseguenze.»
Jim avvertì una fitta allo stomaco a quelle parole. «Perché, cosa le è successo?»
Un sorriso crudele affiorò sul volto del mago. «Voleva vivere come una Mancante, sentire sulla propria pelle cosa significhi condurre una vita breve e miserabile. Ed è quello che le ho dato: l’ho resa una di loro.»
Jim aprì la bocca, sbalordito. «Le ha tolto i poteri?»
Blackthorn inspirò profondamente dal naso. «Per questo ho detto che non ho figli. Lei ormai vale meno di niente.»
Jim era semplicemente agghiacciato. Che genere di persona farebbe una cosa del genere alla propria figlia?
«Be’» disse, sentendo turbinare dentro di lui la collera. «Forse, la vita che ha avuto non è stata tanto miserabile senza di lei.»
Il Decano sollevò le sopracciglia e gli scoccò una lunga occhiata, fredda e penetrante. «Togliti la maschera.»
«Come?»
«Togliti quella maschera ho detto. È un Decano a ordinartelo.»
Jim tergiversò, senza sapere cosa fare. «Perché..?»
Blackthorn emise un verso d’impazienza e fece scattare in alto la mano e la mascherina di seta nera sul volto di Jim si disintegrò trasformandosi in polvere. Il Decano sbatté le palpebre più volte, e dopo ogni battito la sua espressione mutò da torva, a stupefatta, a terrorizzata. L’espressione di chi si trova di fronte un fantasma.
«Non è possibile.» Il respiro gli sibilò tra i denti. «Sei...no, non può essere. Eppure, gli somigli...»
Jim deglutì un paio di volte, cercando di calmarsi. «Somiglio a chi, mi scusi?»
Blackthorn lo ignorò, continuando a scuotere la testa, sempre più agitato. «No, è impossibile. È morto, morto anni fa! L’ho visto esalare l’ultimo respiro io stesso.»
«Di chi sta..?»
«Tom Doherty, ecco chi!» ringhiò Blackthorn. «Quel rozzo Mancante che mi ha portato via mia figlia!»
Jim sentì il terreno sgretolarsi sotto i piedi e sperò che fosse abbastanza buio là fuori da nascondere il pallore che doveva aver assunto il suo volto.
«Non avrebbe mai potuto riportarlo in vita» borbottò Blackthorn, più che altro rivolto a se stesso. «Non possedeva più una stilla di magia. Ah, dannato Ludmoore e le sue feste depravate! Non avrei dovuto accettare tutti quei drink.»
Poi, fulminò Jim con un’altra occhiata carica di disprezzo e si allontanò.
Lui invece rimase immobile dov’era per alcuni istanti, respirando con difficoltà. Sentiva la testa friggergli come se all’interno ci fosse uno sciame di api impazzite e i piedi come blocchi di cemento.
“Voleva vivere come una Mancante, sentire sulla propria pelle cosa significhi condurre una vita breve e miserabile. Ed è quello che le ho dato: l’ho resa una di loro...”
Jim strinse gli occhi, si passò una mano tra i capelli. Prese un profondo respiro. Doveva trovare Alycia.
Attraversò il giardino, ignorando i sospiri e le risate delle coppie appartate qua e là dietro i cespugli; a un certo punto, uno stregone con indosso solo una parrucca cotonata e le mutande gli tagliò la strada mentre inseguiva un maiale, ma Jim non aveva la testa per pensare alle stranezze di quel posto.
Giunse infine davanti a due siepi di bosso potate a forma di elefanti, che segnavano l’ingresso a un labirinto. Evocò un fuoco fatuo per illuminare i suoi passi e lo percorse finché non si trovò in un vicolo cieco, di fronte alla statua di un fauno che suonava il flauto in bilico su uno zoccolo solo sopra un plinto di marmo.
Lì trovò Alycia, che gli dava le spalle con indosso un vestito nero dalla profonda scollatura sulla schiena e i capelli raccolti sulla nuca.
«Ce ne hai messo di tempo» lo accolse, voltandosi a guardarlo con un sorriso. «Forse nel messaggio avrei dovuto includere una mappa.»
Un istante dopo però, si accorse della sua espressione sconvolta: «Ehi, va tutto bene..?»
«Tu sapevi che l’Inquisitore Blackthorn è mio nonno?»
Alycia lo fissò a bocca aperta. «Che cosa..?»
«Rispondi alla domanda» disse Jim bruscamente. «Tu lo sapevi?»
Lei scosse la testa, continuando a fissarlo confusa. «Io...no, certo che no. Ne sei sicuro?»
«Sufficientemente» mormorò lui. Stava tremando e per quanto si sforzasse non riusciva a smettere. «Poco fa ho dovuto sorbirmi la storia di come abbia punito mia madre per essersi innamorata di un Mancante. Per poco non mi ha anche riconosciuto. Oh, ma per fortuna credeva che fossi il fantasma di mio padre, che a quanto pare è convinto di aver ucciso anni fa!»
Aveva iniziato a camminare avanti e indietro come un ossesso e il tono della sua voce era abbastanza alto da attirare le attenzioni di qualcuno, ma in quel momento non gli importava. Era troppo fuori di sé per pensare a qualcos’altro se non al fatto che per tutto quel tempo Solomon Blake gli aveva mentito.
«Lui lo sa. Tuo padre...figuriamoci, lui sa sempre tutto! Sapeva che mia madre aveva perso i poteri, sapeva che mio padre era stato ammazzato e che in qualche modo è stato riportato in vita! E per tutto questo tempo mi ha tenuto all’oscuro! L’ho dovuto sapere dal suo stesso assassino, maledizione!»
Alycia si fece più vicina. «Ascolta, ora devi calmarti.»
Posò le mani sulle sue spalle, guardandolo negli occhi. «Lo so che sei sconvolto ma di sicuro avrà avuto le sue buone ragioni...»
«Oh, lo so io che buone ragioni ha avuto» rispose Jim, furente. «Lui fa sempre così, non è vero? Sparge briciole di verità per tenerti buono e convincerti a fare il cazzo che vuole lui! Scommetto che l’ha fatto anche con te quando ti ha detto che sono un Plasmavuoto!»
Alycia adesso era molto pallida e i suoi occhi erano sgranati. «Mi dispiace.»
«Non glielo permetterò più» disse lui con disgusto, scuotendo la testa. «Fanculo il suo stramaledetto rituale, fanculo Nimbus. Non lo accontenterò più, non mi importa se sono l’unica speranza che ha per entrare nel Vuoto. Non ha il diritto di trattarmi così!»
«Hai detto che tua madre era stata privata dei poteri» disse Alycia, in un tentativo di rimanere, almeno lei, ragionevole. «Come ha fatto allora a riportare in vita tuo padre? Questo è impossibile!»
«Non lo so» ammise lui, con un sospiro stanco. Si massaggiò la tempia, percependo che era in arrivo un’altra emicrania. «Io...io ho questi sogni, che riguardano il mio passato alla fattoria. Non so se siano cose accadute realmente oppure no, al risveglio è sempre tutto confuso. Ma in questi sogni vedo mia madre insieme a delle persone, altri maghi. Inizio a credere che possano essere gli Zeloti di cui mi parlavi, i servi dell’Eretica. E che mia madre fosse una di loro.»
Tutto stava acquistando pian piano un senso. Abigail era stata condannata dal suo padre tiranno a vivere come una Mancante, perdendo per sempre l’amore della sua vita. Doveva essere stato allora che aveva deciso di unirsi agli Zeloti: il Vuoto permetteva di realizzare cose impossibili per i maghi, come infondere nuovamente la vita. Ma esigeva sempre un prezzo da pagare...
«Mia madre ha chiesto al Vuoto di riavere mio padre» comprese con orrore. «E in cambio ha ceduto me...»
Forse non sapeva a cosa stesse andando incontro, forse gli Zeloti l’avevano ingannata. Oppure...oppure lo aveva fatto per propria scelta. Per distruggere Arcanta e l’uomo che le aveva rovinato la vita.
«Io sono un’arma. Sono sempre stato un’arma, Alycia.» Jim alzò la testa, incontrò il suo sguardo spaventato. «Prima ero l’arma dell’Eretica e adesso sono quella di Solomon Blake.»
Lei gli prese il viso tra le mani, dolcemente.
«Per me non cambia nulla» disse e lui sentì il battito subire un’impennata. «Io voglio stare con te, chiunque tu sia.»
Era tutto quello che aveva bisogno di sentirsi dire. Jim la strinse contro di sé e la baciò avidamente, disperatamente. Lei gli cinse il collo con le braccia, lasciando che lui la sollevasse da terra, spingendola contro la statua. La fece sedere sul plinto di marmo, le mani che scivolavano lungo i suoi fianchi, mentre lei stringeva le dita tra i suoi capelli; le sollevò l’orlo del vestito, scoprendo le sue cosce nude, mentre sentiva il desiderio accendersi in un istante, come fuoco che divampa in una foresta. La voleva con tutto se stesso. Desiderava fondersi con lei, sentirsi finalmente parte di qualcosa, non più solo, non più diviso, non più diverso...
Alycia spinse con più decisione la lingua nella sua bocca, ma improvvisamente, qualcosa cambiò. Quel bacio aveva un sapore amaro, di tabacco e di vino, ma non era solo questo. C’era qualcos’altro…qualcosa di sbagliato.
Jim si staccò. «Non hai detto il mio nome.»
Lei ricambiò il suo sguardo con un sorriso incerto. «Come?»
«Non hai detto il mio nome nemmeno una volta» ripeté lui e quella sgradevole sensazione si tramutò presto in pericolo, spingendolo ad allontanarsi; Alycia non lo avrebbe mai attirato in un luogo isolato, alla mercé di chiunque e lontano da suo padre. Non avrebbe mai agito in modo tanto sconsiderato, non lì ad Arcanta. «Tu chi sei?»
Il sorriso della ragazza si allargò. «Sai quel è il tuo problema, straniero? Sei un libro aperto, non c’era neanche bisogno che usassi il mio potere con te: è stato sufficiente il modo in cui vi guardavate l’altra sera alla festa!»
A Jim si rivoltò lo stomaco. «Mei Lin…»
Lei sollevò una mano con un tintinnio di bracciali. Un sottile filo rosa, luccicante come seta, fuoriuscì dal suo orecchio e fluttuò per qualche istante nell’aria fra di loro. Con un movimento rapidissimo, se lo attorcigliò attorno al dito, tramutandolo in una fedina d’oro.
«È stato un bel bacio» commentò la ragazza con l’aspetto di Alycia, senza smettere di sorridergli. «Peccato che non ricorderai nulla di questa parte della serata.»
Jim sollevò le mani per attaccare, ma lei fu più veloce: soffiò una polvere scintillante verso di lui, una nuvola nera che gli provocò un attacco di tosse. Quando si diradò, Jim era solo, in mezzo al labirinto di siepi di bosso, sotto la statua di un fauno che suonava il flauto, a domandarsi se Alycia sarebbe venuta o meno al loro appuntamento.


 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Zobeyde