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Autore: Andy Black    27/06/2022    0 recensioni
Dal testo: Sono una romantica patologica, lo so io, lo sai tu, e cerco continuamente un modo per smettere di essere così, perché so che quando mostri il fianco sei fottuta.
Non so come spegnere i sentimenti, sono una sognatrice debilitata e dissociata dallo schifo che vedo tutti i giorni, ma continuo a credere che dopo una tremenda lite da valigie sul letto lui debba sempre rincorrerla e farla scendere dall’aereo, nonostante la tempesta del secolo si stia abbattendo su di loro.
Credevo nelle fate, lo sto dicendo in continuazione.
Tu invece no, ma mi ispiravi fiducia.
Eri stretto nella tua camicia bianca di lino, impettito e tirato, sorridevi sicuro in mezzo a mille persone. E mi piacevi.
Mi piacevi perché mi guardavi in un modo del tutto strano. Mi facevi sentire una preda preziosa, qualcosa che volevi conquistare a tutti i costi.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Biancaneve

Io credo nelle fate
 
 
 
Un brano di Christian Marcucci

 
Mi ricordo quando ti dissi che credevo nelle fate.
Eravamo ad Aversa, fuori a quei baretti, che odio, ma che inevitabilmente ho imparato a legare alla tua figura.
Sì, io credo nelle fate, ripetei, quando tu mi guardasti in maniera stranita, e mi chiedesti conferma. Te lo dissi addirittura una terza volta.
 
Io credo nelle fate.
 
Credevo in loro, come credevo negli unicorni e nella delicatezza delle cose. E per quanto tu mi guardassi stranito, con quel sopracciglio sinistro inarcato e l’espressione da milanese imbruttito, non riuscivo a non ridere di te.
Perché chi non crede alla magia non crede all’amore.
Lo sai, io sono stata coltivata come un fiore: casa mia è un prato di girasoli e papaveri e lillà, e i miei genitori sono stati tanto amorevoli quanto protettivi, con me. Ho avuto sole in abbondanza e un terreno fertile dove permettere a mille petali profumati di tuffarsi nel mondo, e io quel mondo lo amavo, ricevendo amore in cambio.
Ma una cella vista mare resta una cella. Non cambia il fatto che sei chiusa in una prigione, le cui mura sono i sorrisi amorevoli di quelle due persone forse un po’ iperprotettive, perfette l’uno per l’altra, fortunate come non mai.
Lo sai, ho sempre invidiato il loro modo di amarsi e segretamente era ciò che cercavo anch’io. Mio padre non ha mai avuto occhi che per mia madre, talvolta sacrificando il rapporto che aveva con me. E mia madre… beh, lei è sempre stata una sorella maggiore, per me e mia sorella, perché tutto sommato anche lei crede nelle fate, e tutti i giorni vive la sua favola con il suo principe azzurro.
Ora capisci, vero?
Come può una bambina cresciuta con questi presupposti non cercare qualcosa del genere?
 
E sai qual è stata la cosa più brutta?
Capire che il mondo non va così.
 
Io non ho saputo come andassero le cose fino a quando non mi ci sono scontrata. Pensavo che correndo a mille all’ora non ci fosse nulla che potesse fermarmi, e che col solo entusiasmo avrei potuto trasformare i muri in vetro sottile. Ero un proiettile, Marco, un proiettile col rossetto rosso che non riusciva a guardarsi alle spalle, né a destra, né a sinistra.
Solo avanti.
Ed ero tanto fragile quanto veloce, e me ne sono accorta quando mi sono scontrata con la realtà, che è fredda e dura. Metri e metri d’acciaio impenetrabile, per quelle come me.
Credimi, pensavo che bastasse poco per frantumarlo in mille pezzi, passare dall’altra parte e vedere cosa nascondesse quell’ostacolo. Pensavo che bastasse il mio sorriso, ma alla fine ho visto che sorrido sempre, ciao non è la soluzione.
Però prima come facevo a capirlo?
 
Ora faccio come mi hai insegnato.
Concentrati sulla realtà mi facevi, ma la verità è che la realtà mi annoia e m’intristisce, perché è così differente da come la vedevo nei film romantici che amo, e che continuo a guardare a ripetizione in quelle notti in cui devo mettere le emozioni sotto carica.
Sono una romantica patologica, lo so io, lo sai tu, e cerco continuamente un modo per smettere di essere così, perché so che quando mostri il fianco sei fottuta.
Non so come spegnere i sentimenti, sono una sognatrice debilitata e dissociata dallo schifo che vedo tutti i giorni, ma continuo a credere che dopo una tremenda lite da valigie sul letto lui debba sempre rincorrerla e farla scendere dall’aereo, nonostante la tempesta del secolo si stia abbattendo su di loro.
Credevo nelle fate, lo sto dicendo in continuazione.
 
Tu invece no, ma mi ispiravi fiducia.
Eri stretto nella tua camicia bianca di lino, impettito e tirato, sorridevi sicuro in mezzo a mille persone. E mi piacevi.
Mi piacevi perché mi guardavi in un modo del tutto strano. Mi facevi sentire una preda preziosa, qualcosa che volevi conquistare a tutti i costi.
Mi dicesti che era perché mi divertivo come se fossi una bambina, in mezzo a tutta quella gente apatica e ubriaca, e perché ti piacevano i miei occhi quando sorridevo.
“Li stringi forte, le ciglia arrivano a toccare le guance”, mi dicevi, e io lo amavo.
Mi avevi abbagliato. Mi facevi sangue e non mi era mai successo.
Parlavamo appoggiati a una macchina nera, ma tu sicuramente mi dirai che era una Volvo o una di quelle Audi che nella tua Milano girano in continuazione. Probabilmente ti ricordi il modello, forse anche l’anno di fabbricazione, perché sulle cose che ti piacciono davvero sei attento ai dettagli. In ogni caso ti guardavo, statuario nel tuo approccio, che lo avevo capito da un miglio che mi avresti strappato quella camicetta rossa da dosso immediatamente. E io giocavo, su questo fatto; masticavo la cannuccia del mio spritz, mi dicevi che era un fatto che odiavi e che forse avrei dovuto mangiare qualcosa di più buono.
Quella sera ci baciammo, sotto gli occhi dei miei amici increduli, che tanto mi avevano pregato di uscire di casa, e tutto si aspettavano tranne vedermene andare con quel sorriso.
 
È che non era il periodo più semplice della mia vita.
 
Te lo raccontai, ma quel sabato pomeriggio la mia giornata doveva andare in un altro modo. Ero su quel letto sfatto e pieno di panni, accanto al mio cane, in quella stanza che forse rappresentava appieno il caos del mio stato mentale.
Come se nel disordine proteggessi me stessa.
Chi lo sa perché, in realtà non riesco a concentrarmi quando le cose sono così confuse ma lo stesso non avevo per niente voglia di prendere quelle lenzuola color pervinca e tirarle agli angoli. Erano almeno due settimane che rimandavo a data da destinarsi l’inizio dello studio di quelle dispense che mi guardavano rabbiose dalla scrivania, ma ero d’accordo con me, me e me che avrei cominciato tra i sette e i quindici giorni a costruirmi una base di Didattica Generale, primo esame che avrei affrontato nella sessione di settembre e che sostanzialmente si era rivelata essere solo un rafforzativo della mia voglia di insegnare.
Sapevo quanto il Professor Laneve fosse esigente, e amavo il suo modo di insegnare, sognavo di fare anch’io simili discorsi, pregni di profondità e motivazione ai miei alunni, anche se in quel momento tutto ciò che volevo era attendere che la malinconia che avevo addosso si diradasse come nebbia al sole del mattino, guardandomi per l’iperbolica millesima volta How I Met Your Mother con addosso una vaschetta di gelato che avrebbe nutrito il mio cuore ma distrutto i miei fianchi.
Quando mi chiedesti il perché io ti risposi Gaetano, e tu mi chiedesti chi fosse. E allora, tutta presa dalla paura, ti spiegai che il mio ex fidanzato, quello che non si era rassegnato alla fine della nostra storia tossica, geloso e terrificante, mi aveva contattato di nuovo.
- Certa gente dovrebbe morire. - mi avevi detto poi, e in te vidi un porto sicuro dove attraccare durante le notti di tempesta.
Lo so è bastato poco, ma soltanto chi come me ha avuto paura della persona che ha amato può capire cosa significhi poi ridare fiducia a un uomo; tu eri innocente, non lo sapevi, ma prima di te io non riuscivo più a fare l’amore con nessuno.
Ancora leccavo le mie ferite, avevo il timore d’incontrarlo sotto casa e, stesa sul letto tra i panni da piegare e quelli già ordinati, a cui avrei dato un passaggio nell’armadio soltanto quando mi sarebbe venuta voglia, mi chiedevo cosa fare della mia esistenza, visto quello stato monacale di semiclausura, interrotto solo dalle mattinate scellerate a scuola, coi miei alunni.
Sì, insegnavo già, poche ore al mattino in una classe elementare, bambini fondamentalmente troppo ingenui per capire come andavano le cose. Li amavo per questo. Perché in fondo, un po’, io ero ancora come loro.
Cioè, non ero una bambina. Non ero infantile, attenzione.
Ero ingenua come loro, e in un mondo di squali e raziocinio, credere nella purezza e dare fiducia incondizionata al prossimo equivaleva a disegnarsi un bersaglio al centro del petto.
Ammetto che spesso mi rifugiassi, in loro, e nella loro anima cristallina. Amavo stare in loro compagnia e sentirmi parte della loro crescita. Spero, tra trent’anni, che si ricordino ancora di me, e di come ho insegnato ad Antonio ad allacciare le scarpe e a essere gentile con le bimbe.
Quindi. Ero già alla quarta cucchiaiata di variegato al caramello quando, all’imbrunire, mentre distrattamente scorrevano le storie di Instagram e Ted conosceva Zoe (dannata), Sabrina mi contattò.
 
- Non voglio sapere nulla. Hai un’ora e passiamo a prenderti.
 
E lì il panico, perché le cose di fretta io non le so fare.
Ma forse mi servì.
Nascosi il malessere sotto al tappeto, come una casalinga svogliata, sposata a un marito padrone, mi lavai e indossai vestiti e convinzione, non senza le difficoltà di chi dell’indecisione ne fa tutt’oggi un vanto e con soli venti minuti di ritardo ero in auto. Salii nella Panda di Jean, bianca come quella di Vincenzo, seduto accanto a lui, ermeticamente chiusi dentro perché l’aria condizionata non doveva lasciare l’abitacolo. Sabrina era seduta al centro dei due sedili posteriori.
Insomma, i miei amici li hai conosciuti e sai che delle volte possono essere un po’ scostanti, ma in realtà mi vogliono bene e vedendomi isolata per così tanto tempo avevano deciso di lanciarmi l’ennesima fune di fuga. In pratica Sabrina aveva conosciuto una tipa su Tinder e si sarebbero dovuti incontrare proprio dove ci siamo visti io e te, proprio quella sera.
Lei cominciò a fissarmi non appena salii in auto, che sorridevo con tutti i denti che avevo in bocca per nascondere quel mostro che mi divorava stomaco e polmoni, e forse lo aveva capito che qualcosa non andasse.
Ma quando mi accompagnarono a casa, credimi, tutto era cambiato.
 
L’idea di te mi aveva guarita, più o meno. Emanavi delle vibrazioni che amavo e combattevo con me stessa, come una ragazzina, mentre ti inviavo un messaggio e guardavo la spunta diventare blu, e aspettavo che il tuo stato passasse da online a sta scrivendo…
Avevo perso la testa per te, mi avevi dato le giuste motivazioni per capire che mi stavo allontanando da qualcosa di potenzialmente stupendo.
Ci vedemmo poi qualche giorno dopo, seduti nella mia macchina, e ho cominciato a parlarti di me. Tu eri silenzioso, mi ascoltavi, mi prendevi in giro, io ridacchiavo, mi toccavi le mani, le braccia.
Eri bellissimo, lo sei ancora.
Ti raccontai di me e delle mie paure, del mio lavoro e dei miei bambini, e di come mi sentissi fortunata a essere parte delle loro vite. Quella sera mi soffermai su Lorenzino. Ricordo ancora la conversazione.
 
- Quanti anni ha? – mi chiedesti.
- Sette. È un ragazzo della seconda. Cioè, terza, è stato promosso.
- Perché, alle elementari bocciate pure? È anche una scuola privata…
- Io lo prendo sul serio, il mio lavoro. I miei bambini si devono impegnare, altrimenti che insegnamento gli darei?
Inarcasti il sopracciglio e sapevo che ti stessi chiedendo perché ogni volta che il mondo avesse a che fare con me girasse al contrario.
- Va bene… Dicevi?
- È un bimbo dolcissimo! – esclamai entusiasta. - Prima della fine della scuola mi dice “maestra, puoi venire un attimo?” e io vado da lui, mi siedo sulla sediolina che ha accanto e gli chiedo “che c’è?” e lui guarda un attimo Alessandra, che è una ragazzina seduta poco lontano da noi, coi capelli scuri e il fare da stronzetta, perché a quell’età siamo state tutte stronzette, no?
- Vai avanti, Luna, non capisco…
- E fammi parlare. Allora, mi siedo vicino a lui, gli chiedo che succede e lui guarda Alessandra.
- E questo l’ho capito.
- Che è un po’ stronzetta…
- Sì.
- E quindi succede che lui sospira. Come un adulto, come faccio io! Mi fa “maestra, quando torniamo l’anno prossimo io voglio fidanzarmi con Alessandra” e allora io la guardo e penso che effettivamente sia proprio una bimba carina, e un tipetto dolce come Lorenzino ci starebbe bene, assieme.
- Accoppi spesso i tuoi alunni? – ridacchiò.
- Eddai, scemo, ascoltami. Comunque mi è sembrata una buona idea, perché non appena mi ha detto quella cosa ho immaginato Lorenzino e Alessandra a trent’anni che si sposano, mano nella mano, vanno a vivere assieme, hanno dei figli e diranno loro che si sono conosciuti alla scuola elementare, ed è stupendo!
- Stupendo?
- Sì!
- Cosa?
- Ma il pensare di essersi scelti a sette, otto anni! È una favola meravigliosa, Marco! Io vorrei tantissimo che una cosa del genere fosse accaduta a me!
Ricordo poi perfettamente la tua espressione, un po’ sufficiente, un po’ divertita. Girasti lo sguardo dall’altra parte, fissando il riflesso del tuo viso, o la metà che riuscivi a vedere dallo specchietto retrovisore. Forse il destino, il mio più terribile maestro, me lo stava dicendo in quel momento, che io e te non avevamo la stessa mentalità. Ma del resto non ti conoscevo, perché avrei dovuto dubitare di te?
- Sei quel tipo di donna, vero?
- Assolutamente sì. L’amore è la forza più potente dell’universo e io vorrei tanto essere amata come credo di meritare.
E tu tornasti a guardarmi. Ti ricordi? Hai grattato per un secondo la guancia spinosa e hai battuto gli occhi più di una volta.
- E cosa credi di meritare?
Ti guardai, più seria che mai. Ricordo di aver pensato fin troppo a quella risposta, ma il suggerimento mi arrivò quando alzai gli occhi al cielo.
E vi trovai me stessa.
-  Voglio la luna. – dissi.
E tu ridesti. Mi baciasti subito dopo, e mi sentii così bene sotto il tocco delle tue mani da mettere in discussione tutto ciò che avevo provato fino a quel momento. Lo sai, ti ho parlato molte volte del rapporto che ho avuto prima col mio corpo e poi con quello degli altri.
Non ho mai provato, prima di te, quella sensazione di calore, perché aprirmi è sempre stato complicato, in quel senso.
Ma tu, Marco, non hai idea di quanto mi piacessero le tue mani, i tuoi baci e la sensazione che provavo dopo, quando i vetri della macchina erano appannati e io e te ci rivestivamo col sorriso.
 
La cosa bella fu che non scappasti. E insomma, era ciò che più temevo.
Ci sentivamo spesso e volentieri, e non riuscivamo a staccarci l’uno dall’altra. Ti vedevo sorridente e mi sentivo appagata e tanto mi bastava, perché mi desti la forza per saltare sulle nuvole e cominciare a vivere lì su, guardando dall’alto chiunque.
Vedevo i miei amici battagliare nella vita, come me del resto, ma il semplice fatto di averti al mio fianco mi faceva sentire migliore. Facevo un lavoro che amavo, stavo studiando per laurearmi, dribblavo la malinconia e la solitudine con un’agenda sempre piena d’impegni e la impreziosivo coi nostri appuntamenti.
 
Mi accorsi di essere follemente innamorata di te qualche settimana dopo che andasti via, tornando nella tua Milano. Ci sentivamo tutti i giorni, facevamo le videochiamate, mi abituavo ai tuoi reali ritmi e cominciai a capire che tu qui fossi sostanzialmente in ferie.
E chi è in ferie è più rilassato.
Quella città aveva un problema col tempo da perdere e tu ti ci adattavi come se non avessi ossa, come se fossi liquido. Mi raccontasti della tua quotidianità e in particolar modo del tuo lavoro, della tua routine e degli ordini che facevi, che ti permettevano di mettere il pane sotto ai denti. Guadagnavi bene, eri un uomo in carriera, bello e solo in un posto in cui il più lento correva a cento all’ora.
E nella mia, ora credo patetica, visione della vita, ci immaginavo nella nostra casa, a dividerci quel sentimento che mi stava nutrendo. Fotosintesi, buttavo fuori il malessere, bevevo acqua e baci del sole.
Mi parlasti del fatto che andassi in palestra, delle tue passioni.
Di casa tua.
Mi dicesti che ne eri estremamente fiero, perché avevi costruito meticolosamente ogni ambiente e questo mi piaceva molto. Mi mandasti le foto della tua camera da letto, con quel grande armadio abbinato ai cassettoni e ai comodini, della doccia che avevi fatto rifare e del mobile del salotto, colmo di una selezione di vini e liquori su cui avevi lavorato molto.
Mi immaginavo seduta sul tuo divano, a guardare la televisione assieme, a passare le serate facendo l’amore e tutta una serie di cose che avevo sognato fin da bambina.
Era tutto ciò che volevo, ma al contempo mi stavo rendendo conto di una cosa orribile: mi mancavi, e non potevo averti, perché c’erano settecentosettanta chilometri di distanza tra casello e casello e io non potevo abbandonare la mia quotidianità quando mi pareva perché tu non eri a un tiro di schioppo.
Ero in una relazione a distanza e non me n’ero accorta.
E ricordo ancora il tono delle nostre voci, di sera. Ci guardavamo con gli occhi languidi, attraverso gli schermi del cellulare, con le teste sui cuscini e quei letti un po’ troppo vuoti per i gusti di entrambi.
 
- Mi manchi, Marco…
- Anche tu. Anche tu…
 
Ora lo riconosco chiaramente: tu inizialmente la distanza la gestivi meglio di me.
Vuoi perché comunque avevi abbandonato amici e parenti alla volta della Madonnina, vuoi perché, per te, questa non era effettivamente la prima storia a distanza.
 
- Davvero? – ti chiesi.
- Sì. Ho già avuto una relazione come questa…
- Io non ho mai avuto una relazione a distanza…
- E io sì.
- E lei com’era?
 
Scavavo nel tuo passato, giorno dopo giorno, cercando di assorbire quante più informazioni possibili, perché col tempo imparai a capire anche quanto tu fossi ermetico.
Non eri un tipo che condivideva tanto di sé, e questo da un lato mi affascinava e da un altro mi metteva in una condizione mentale particolare, come se non fossi degna di essere messa a parte di determinate informazioni.
 
- E com’era… lei era calma. E sostanzialmente non avevamo molto in comune ma lei viveva a Napoli, io ero già qui… ci vedevamo poco spesso...
- Ah. Va bene.
- … non sarai gelosa? È una cosa del mio passato. Anche tu hai avuto degli ex.
 
Inarcai le sopracciglia. Ti avevo parlato già dell’uomo che per poco non mi aveva lasciata affogare nel buio, della paura che provavo d’incontrarlo e del fatto che aveva condizionato il mio rapporto con l’altro sesso. Ma non con te. Tu eri equilibrato, in maniera quasi fastidiosa, e certe cose ero certa che avrebbero fatto parte solo del mio passato.
Fatto stava che sviluppai una sorta di gelosia, immediata, non appena mi parlasti di lei. E quei settecentosettanta chilometri erano diventati quelli che dividevano Milano dalla Luna.
Aspè, controllo.
Sono trecentottantaduemila e cinquecento, chilometro in più, chilometro in meno.
Te ne parlai qualche giorno dopo, ti chiesi se effettivamente sarebbe stato un problema vederci.
 
- Io col lavoro sto un po’ attaccato, questo venerdì. – mi dicesti. – Ma se vuoi, puoi salire tu. Ti fai un fine settimana qui e…
- Va bene, cerco un treno.
 
E quando ci vedemmo, dopo tutto quel tempo e quelle parole fu come se non ci fossimo mai lasciati. Ricordi la mia espressione? Io posso solo immaginarla.
So solo che, quando le porte si aprirono e io ti vidi, saltai giù sulla banchina, trascinandomi quel trolley malandato che ora ho sostituito con una Samsonite di migliore fattura. Cercavo i tuoi occhi tra quelle mille, duemila teste, che quel treno sembrava l’arca di Noè. Ti vidi poco dopo, che gli animali avevano preso a fuggire tutti, mentre tu eri l’unico fermo, col volto sorridente, poggiato a uno dei pilastri che reggevano i mille schermi di Milano Centrale.
Ricordi?
Mi corresti incontro, facendo cenno di darmi il trolley, mentre io cercavo soltanto il tuo abbraccio, come se fossi il mio ossigeno e stessi per annegare. Ti strinsi così forte da farmi male, lasciando cadere la borsa per terra e arrivando a piangere, commossa.
Fu meraviglioso, con te che mi baciasti subito dopo e io che pensavo fosse tutto perfetto.
 
Ero finalmente con te.
 
Insomma, amavo Milano, amavo quell’ambiente così diverso dal mio e ammiravo il modo in cui avevi impostato la tua vita. I miei amici erano tutti dei cazzoni con problemi da cazzoni, mentre tu avevi una routine sana e delle abitudini da persona adulta, cosa a cui aspiravo. C’era la palestra, i conti da pagare, la casa da portare avanti.
E che casa.
Amavo l’ambiente che ti eri ritagliato, Marco. Mi ci vedevo, anche se avevo paura di dirtelo, perché avevo compreso che tu non eri proprio come me.
 
Tu non credi alle fate, ma guardi alla vita giorno per giorno.
Giusto, eh, per carità. Sapevo di essere io, quella sbagliata.
 
Fatto stava che una volta lì tutto ciò che ho provato è stata passione e desiderio allo stato puro, e abbiamo cominciato a fare l’amore nell’ascensore prima e sul pianerottolo poi, mentre con difficoltà cercavi di aprire la porta di casa. Abbiamo lanciato la valigia per terra, tu avevi un giacchino leggero che di certo non ti fermasti ad appendere, ed eravamo nudi prima di raggiungere la camera da letto.
Fantastico. Mi sentivo una bambina a Disneyland, ti guardavo come attraverso un filtro di Instagram, dove tutto era rosa e piacevole, e sotto c’era perennemente un sottofondo musicale dolce ma anche sexy. E l’aria era permeata da quell’elettricità che m’irrigidiva le gambe; come due poli opposti non riuscivamo a separarci, ed era un continuo cercarci attraverso le pareti di quella casa male orientata rispetto al sole, poco luminosa ma che vedevo come il mio, il nostro nido d’amore.
Uscimmo qualche ora dopo, che avevamo fame entrambi.
 
- Hai mai mangiato un poke? – mi avevi chiesto? – Qui a Milano è praticamente un must.
 
E lo so che ora il poke è un must anche a Napoli, ma Milano è Milano, lì sono tutti trendsetter e le cose arrivano prima. E quell’estate a casa mia non si mangiava il poke ma la fresella con tonno e pomodoro, e papà esagerava con l’esuberanza, aggiungendoci anche quella punta di cipolla di Tropea.
Cioè, col senno di poi, paragonata alla vita di Milano, quella che avevo nei miei ambienti era tipo il terzo mondo.
 
- No. Che è?
- Sushi ma nel piatto.
- Amo il sushi!
- Ma non è giapponese. È hawaiiano.
- Ci daranno una corona di fiori e ci diranno “aloha”?
- Solo se indossi una gonnellina di paglia e un reggiseno fatto con le noci di cocco.
 
Fu dopo il poke, però, che mi trovai davanti al mio primo problema.
- Oh, ci sono i miei amici poco lontano da qui. Ti va se li raggiungiamo?
La risposta avrebbe dovuta essere no.
- Certo.
Ma non per qualcosa, era l’ansia. Questa mia insana voglia di vedere il bello in tutto mi ha sempre mostrata agli occhi dei miei stessi amici come la sorellina scema da trascinarsi in giro sotto minaccia di mamma e papà e, credimi, non volevo dare quell’impressione alla tua comitiva.
Poi erano tutti più grandi, e mi sentivo sotto pressione per due motivi:
 
  1. Mi sentivo inadatta, ma proprio con me stessa;
  2. Non volevo farti sfigurare.
 
Invece andò tutto bene, con loro. Tutti ragazzi simpatici, e finalmente capii perché si dice Milano da bere. Lì lo spritz è più buono.
Il problema più grande è che eri seduto tra me e il problema più grande: Serena, la tua migliore amica.
 
- Non mi hai mai parlato, di lei… - ti dissi, mentre tornavamo a casa. E mi rispondesti con la classica sufficienza da maschio che deve morire dopo mille calci nelle palle.
- Non pensavo di doverti parlare di lei.
 
Tu non conosci le donne, Marco, altrimenti sapresti che Serena è la classica ragazza con cui non vuoi che il tuo ragazzo stringa un’amicizia intensa. E non si tratta del paragone estetico, perché vabeh che vabeh, che sono insicura e che quindi non sarei stata tranquilla manco fosse stata il cesso più cesso del mondo; e Serena è effettivamente bella tuttavia la cosa che mi turbava di più non era il suo aspetto. Mi terrorizzava la grande intesa mentale che avevate. Eri quasi sempre girato a guardare lei, a parlare con lei.
A ridere con lei.
Io non ti facevo ridere così.
 
- Mhm… sì. Dovevi. È molto bella e sembra che possiate finirvi le frasi a vicenda.
- Si?
- Non far finta di non saperlo.
- È la mia migliore amica, Lù. Non vorrai davvero farmi questo discorso?
- Invece sembra proprio che te lo stia per fare. Come vi siete conosciuti?
- Un paio di anni fa, in realtà… creai questo gruppo su Whatsapp con tutti i miei amici di Milano per farli conoscere, fu tipo quelle cose che facevo su MSN quando avevo diciassette anni…
- Ma pure quindici…
- Cambia qualcosa?
- Continua…
- Lei era amica di un amico, cose così. Ci incontrammo tutti quanti e nulla… abbiamo stretto un bel rapporto.
- Con quella figa. Tu vuoi farmi credere che le hai stretto solo il rapporto.
Ricordi come ridesti? Pure io lo feci, in realtà, ma non perché la battuta fosse carina: ero sensibilmente impanicata. Mi stavo mantenendo alle balaustre della mia mente per evitare di fare ciò che facevo ogni volta che qualcosa mi attaccasse alle fondamenta, ovvero parlare senza freni e ridere compulsivamente, senza riuscire a smettere e arrivando addirittura a chiedermelo.
- Le ho stretto solo il rapporto. Riesco a scindere l’amicizia dall’attrazione fisica e anche lei. Ecco perché questa cosa funziona bene.
- Mah… amicizia tra maschi e femmine, questa sconosciuta.
- E io te l’ho appena presentata, l’amicizia tra maschi e femmine.
 
La mattina dopo fu colazione, sesso, pranzo, sesso, poi treno. Ma ti avevo lasciato lì con Serena. La cosa mi faceva impazzire, onestamente. Ti immaginavo nei tuoi posti, in cui ormai c’era il mio odore, non come appartenenza animale ma come ricordo della mia presenza, con quella, mentre stavate sul divano, e parlavate.
Speravo ardentemente che vi limitaste solo a quello.
 
- Non avrebbe senso. – mi aveva detto Davide, quello che era uno dei due a cui dicevo i fatti miei.
- E perché? È bella e fotomodella e io sto a migliaia di chilometri di distanza.
- Eh, sì, sette milioni di chilometri, Luna…
- Rispondi, dai.
Inarcava le sopracciglia, lui, cercando di farmi ragionare. Lo faceva ogni volta, e c’era anche riuscito, un paio di queste.
- Perché ti ha dato delle dimostrazioni importanti, aprendoti le porte di casa sua e portandoti in mezzo alla sua gente. Dovrà pur avere un valore, no?
- Eh, ma parlava solo con lei. Le piacciono le stesse cose che piacciono a lui, si vedono tutti i giorni. Probabilmente ora stanno chattando, mentre sto aspettando una sua risposta da sedici minuti.
- Sedici minuti?
- Sì.
Inarcò ancora le sopracciglia.
- Chiara mi risponde una volta ogni due ore, Luna.
- Ma lei lavora, che c’entra!
- Vabeh, che vuoi, che ti dica che stanno scopando?
- No.
- E allora?
- Fai la tua magia e fammi stare bene.
- Abracadabra.
 
No, quella volta Davide non riuscì a fare nulla.
Tornai a casa e litigammo, ricordi? Se non ricordi potrei mostrarti migliaia di screen per farlo, che ho passato allo stesso Davide, ma anche a Sveva, che non è che ti sopporti così tanto e che, al contrario di Davide, non cercava di giustificarti o farmi scendere coi piedi per terra.
Io e te rimanemmo qualche giorno senza parlare, cominciai a lacerarmi dentro e a sentire quella distanza come inarrivabile. Ma sì, perché avrei voluto con tutta me stessa trovarti lì accanto a me, litigare ancora, farmi rassicurare per la millesima volta e finire per addormentarmi vicina a te.
Capii che forse il problema non fosse Serena.
Il problema era Luna a Napoli e Marco a Milano.
 
Ci passai sopra, ma non dimenticai.
Avevo paura di metterti pressione eccessiva, tu mi davi l’idea di una persona in grado di chiudere rapporti con una facilità disarmante e non mi sentivo molto diversa da una qualsiasi donna con l’uomo lontano che premeva per vederlo mentre lui viveva la sua vita.
Questa era la cosa che mi impressionava di più, relegandomi a quel dolore che una donna non avrebbe mai dovuto provare: io non avrei dovuto avere paura di perderti soltanto perché volevo vederti, e stare con te.
 
Quella paura mi portò a sgonfiare il tutto. Ti contattai, ci sentimmo, mi riappropriai di te e della nostra routine. E quella sera, coi telefoni poggiati sui cuscini, avemmo quella strana conversazione.
 
- Marco…
- Eh, Lù? – mi chiedesti, dopo che ci eravamo fissati per circa un minuto, in quel silenzio che trovavo caldo e rincuorante.
- Pensavo…
- Oh, no.
­- Scemo… ti immagini se riuscissi a trovare un lavoro come maestra a Milano? Sarebbe tutto più semplice…
- Vivere nella stessa città aiuterebbe le cose, certo. – annuì lui, fissandomi dal profondo di quegli occhi blu.
E dato che vivo a Disneyland, avrei voluto sentirti dire delle parole specifiche. Tipo un invito a convivere, a farmi entrare nel tuo regno, per diventare la principessa indiscussa del tuo castello, renderti mio re, dividere il tuo spazio e avere la vita che avevo sempre sognato.
Però ti si leggeva negli occhi che non fossi pronto a perdere tutto.
- Beh, qui ci sono dei ritmi differenti…
- Oh, ma mi ci abituerei in fretta.
- Comunque sì. Sarebbe bello, in effetti. Anche perché, onestamente, la prospettiva di un’altra relazione a distanza non mi alletta per niente.
- Ancora, che parli di quella… - sbuffai.
- Non ho parlato di quella. Parlavo di me. Vorrei avere una relazione normale, una volta nella mia vita…
- Questa non è normale, no? – e non so per quale motivo chiesi una cosa del genere, dato che ovviamente non lo era. Difatti tu sgranasti gli occhi e sorridesti a mezza bocca.
- No. Non è normale avere appuntamenti con te solo via telefonica, e vederci quando si può.
- Lo so… - risposi. Ricordi quando abbassai gli occhi? Pensai che era complicato, per me, col mio stipendio, nutrire il buco che avevo in pancia quando eri tu il mio cibo.
E non costavi poco.
Ho dovuto fare molti sacrifici, nel corso di quei mesi, per potermi garantire la benzina, le sigarette e un rapporto col mio fidanzato che, per forza di cose, aveva difficoltà a scendere qui da me, nonostante una paga che lo permettesse.
Il problema era il tempo.
E ora lo capisco benissimo, perché nei due giorni in cui ci vedevamo dovevamo letteralmente annullarci e condensare un mese di promesse, programmi, voglie e normalità. E quarantott’ore (in realtà anche meno, considerato i viaggi in treno) erano davvero poche per riuscirci. Fatto stava che avevo capito che tu non avresti voluto condividere già da subito il tuo spazio e questo era probabilmente una complicazione di base a tutto ciò che credevo fosse la relazione tipo che mi ero prefissata di volere.
 
Ottobre era arrivato con foga quasi agonistica. Intanto eri sceso qui, avevamo passato quei due giorni nella pace dei sensi e io ero salita di nuovo da te. E devo dire che avevo stretto un discreto rapporto con Serena, che sostanzialmente era un tipo molto simile a me, molto alla mano e pieno di vita, totalmente contrapposto al tuo essere razionale, al tuo pragmatismo. Quella domenica pomeriggio il mio treno partiva da Milano Centrale alle diciotto meno qualcosa, mi accompagnaste assieme, tu e lei, e in sostanza ero pure felice, perché stavo cominciando a mettere radici in quella città, in qualche modo che non dipendesse totalmente da te, anche se lei rimaneva prima una tua amica e soltanto dopo una ragazza che mi stava tanto tanto simpatica.
Arrivai a casa, mi mandasti il solito messaggio, mi addormentai e il giorno dopo andai a lavorare ben felice di ciò che mi stava capitando. Arrivai con leggero ritardo a scuola, ma le altre maestre non me lo facevano mai pesare. Entrai in classe e feci lezione.
Ero ben attenta a Lorenzino, e al fatto che non si distraesse guardando Alessandra; l’estate non aveva tramutato quella bimba in un angioletto, anzi, l’aveva resa ancora più stronzetta, visto che qualche giorno prima l’avevo beccata nei bagni a fare i dispetti a Morena. A Lorenzino, però, questo non potevo dirlo, perché per lui è una principessa.
Proprio lui, a fine giornata, mi si avvicinò.
- Maestra. Ho pensato, quest’estate.
Sorrisi. - E a che hai pensato?
- Vorrei fare un regalo ad Alessandra. Stavo pensando a un anello, però forse è troppo…
- Eh sì, forse è troppo…
- Che ne dici, tipo, di un fiore?
Annuii. E mi conosci, mi emozionai così tanto che trattenni a stento le lacrime.
- Un fiore? – domandai, quasi per conferma.
- Sì. Un fiore. – rispose. – Forse ci vuole una cosa più semplice.
- L’amore è una cosa semplice… - dissi tra me e me, alzando gli occhi verso il soffitto.
- Ecco. Forse dovrei regalarle un fiore… glielo regalerò sabato, al mio compleanno.
- Va bene, Lorenzino. Provaci.
E tutto era limpido, se non il fatto che lui cercasse invano d’incrociare lo sguardo della piccola, senza riuscirci mai.
Forse avrei dovuto fermarlo, povero Lorenzino, no?
Forse avrei dovuto dirgli che certe persone non sono fatte per stare assieme, e che quando vedi le stelle negli occhi di qualcuno quelle potrebbero essersi già spente, una volta che le raggiungi.
Sospirai. In amore vince chi se ne frega, altrimenti diventi come me, coi tagli sul cuore e testa bassa, che il traguardo altrimenti si allontana.
- Forse… forse, Lorenzino, dovresti aspettare. Sabato è il tuo compleanno. Sarà lei a portarti un regalino. Magari aspetta un po’… - gli ho fatto, prima di pensare al fatto che mi fossi sempre sentita un po’ Lorenzino, nella vita.
Mi fece sorridere amaramente, la cosa. Io e quel bimbo di sette anni ci nutrivamo delle stesse illusioni.
 
E poi, ti ricordi quando te lo dissi?
Alla fine di quella giornata la preside si fermò e mi disse che avrebbe voluto assumermi come maestra di ruolo.
 
- Tre anni.
- Cosa?! – mi rispondesti, spalancando gli occhi, attraverso lo schermo del cellulare.
- Tre anni. Dovrei rimanere in questa scuola per tre anni prima di poter chiedere un trasferimento, per questioni contrattuali.
- Sei vincolata a loro per tre anni? – mi chiedesti poi. L’espressione che avevi sul volto diceva tutto: eri accigliato, avevi rappreso le labbra e avevo capito che qualcosa ti turbasse dal profondo, perché quando la tua ragazza ti dice che stava per firmare un contratto per il lavoro che amava e che l’avrebbe resa felice tu generalmente non ti accigli, non rapprendi le labbra, ma sorridi e gioisci con me.
Avevo capito che quei tre anni ti sarebbero pesati una tonnellata. Provai quindi a rincuorarti.
- Dovremmo fare un po’ di sacrifici, Mà…
- Mi sono trovato punto e daccapo…
- In che senso?
- Un’altra relazione come quella di prima, Luna… Mi sono aperto di nuovo a una donna e mi trovo ancora in una situazione del genere…
- In che senso?
- Pensavo… pensavo che le cose con te sarebbero andate differentemente.
A quel punto cominciai a innervosirmi.
- Ma differentemente da cosa, scusa? Che ti aspettavi da tutta questa storia? Non ho capito.
Sospirasti, spostasti un attimo lo sguardo, ma non ti diedi neppure il tempo di rispondere.
- Luna… io non voglio stare altri tre anni in questa situazione. Non credere che per me sia facile vivere questa cosa della distanza.
E in fondo ti capivo, non era semplice. Mi struggevo l’anima io stessa perché ti amavo e non riuscivo ad averti con me.
- Sai bene che ora non potrei gestire economicamente la vita che c’è su, a Milano. Lì tutto costa troppo, per me.
- Non… non voglio una relazione a distanza, Luna.
 
E non è mai stato un discorso relativo al mio lavoro. Non ti sei mai permesso di dire manda il curriculum alla Coop o altro, perché sai bene che fare la maestra è il mio sogno e io lo sto vivendo. Però fu quasi ovvio: dopo quel discorso tu non eri più tu.
E io cercavo di avvicinarmi a te, di scriverti, di prenderti e metterti a parte del fatto che ti amassi, che ti amassi davvero.
Te lo dissi.
Mi dicesti che non eri pronto, e mi apristi a mani nude un buco nel cuore.
Ti sentivo freddo e distante, come se vivessi su di un altro pianeta e io non avessi i mezzi per riuscire a raggiungerti. Poi mi chiedesti una pausa.
 
- Che significa?
- Che devo capire, Luna. Perché ti adoro e mi piaci e tutto quello che vuoi ma le cose non stanno andando come pensavo e ora devo… devo capire.
 
Certo, continuavamo a parlare, ti cercavo, era tutto più meccanico ma lo capivo.
Ma non volevo perderti né fare in modo di perdere me stessa nel delicato processo di riportarti da me, quindi tutto ciò che mi rimase da fare fu parlare con la scuola.
Te lo dissi quando tornasti qui in Campania, a metà ottobre, che venni a prenderti alla stazione dei treni. Ti vidi da lontano, con la tua sacca sulla spalla. La coda del cappotto nero che indossavi svolazzava sotto la sferza di quel vento gelido. Mi scrivesti, chiedendomi dove fossi, e io ti risposi che ero vicino al pianoforte, o almeno a dove si trovava prima che lo levassero.
Sì, amavo che nella stazione di Napoli ci fosse un pianoforte. Una cosa che non stonava affatto, in questa città.
Ti raggiunsi a metà strada, vicino al treno numero dieci. Tu mi guardasti coi tuoi occhi di ghiaccio, mentre io, con le guance rosse per il freddo non riuscivo a fare altro che aspettare che facessi qualcosa. Volevo baciarti e portarti lontano ma ci limitammo ad abbracciarci.
Guidasti tu, sapevi che non mi piace mettermi allo sterzo di sera. Poi mettesti in moto, mentre io accesi subito il riscaldamento, sperando che un po’ di calore ti facesse sciogliere.
- Come va? – ti chiesi, e ti vidi fare spallucce.
- Bene. Tu invece?
Ridacchiai. Di nuovo, panico. – Come credi che stia?
Non fosti loquace, non lo sei mai stato, ma quella sera fu quasi un’intervista. E quindi, quando arrivammo sotto casa tua, prima che scendesti, mi sembrava il momento più adatto per provare a recuperare campo.
- Ho parlato con la preside, comunque… le ho detto che tre anni sono impegnativi, per me, perché mi devo laureare e perché vorrei potermi aprire altre strade. E loro hanno capito… hanno detto che apprezzavano il mio lavoro e la mia dedizione e che non avrebbero fatto problemi se, un giorno, avessi chiesto di essere trasferita altrove. Sono stati gentili…
- Già. – mi avevi detto. – Hanno capito la tua situazione.
- Mi hanno spronato a seguire il mio cuore. E… e il mio cuore è lì con te, a Milano…
Ricordo ancora la tua espressione.
Abbassasti lo sguardo, annuendo poco decisamente.
- Sarebbe un’esperienza importante, per te. Ti farebbe crescere e responsabilizzare.
- Vero. E poi potremmo passare più tempo insieme, no?
- Io… io credo che questa sia un’esperienza che dovresti fare da sola. Come feci io, o Serena. Magari ci potremmo vedere nel weekend… Tu ti prendi una stanza, con qualche ragazza, o magari da sola, se i tuoi ti aiutano, come…
- Ah, bene. – ridacchiai.           
- … i miei hanno aiutato me, e…
 
E all’improvviso non ebbi più freddo.
 
- Ma sai quanto costerebbe la vita lì, da sola? Anche se mandassi adesso la messa a disposizione, lavorerei un mese sì e due no. E dovrei chiedere ai miei di darmi una mano? Sai benissimo che non mi aiutano in nulla, e che la situazione economica è quella che è.
- Parlo solo in via ipotetica.
- Poi grazie al cazzo che i tuoi ti hanno aiutato i primi mesi! Avevi un lavoro fisso, tu! E non frequenti un’università da cinquemila euro l’anno. Oltre a quelli mio padre dovrebbe darmi anche, che ne so, mille euro al mese per farmi campare, no?
- Che ti arrabbi a fare? – mi chiedesti. E onestamente non conoscevo la risposta a quella domanda.
- Non lo so, Marco. Non so perché mi arrabbio. Qui sembra sempre che ti debba correre appresso.
- So che implicitamente vorresti usarmi come base… ma non sono pronto. Non dico che non lo sarei mai, eh, ma… credo che sia presto.
Eri fatto così, lo so. Lo pensai anche in quel momento, ma poi vedevo coppie come Davide e Chiara, che sono andati a convivere nel giro di quattro mesi facendo la cosa più romantica mai vista! Con mille difficoltà e sacrifici sovraumani da parte di entrambi.
E va bene che poi è andata a finire com’è andata a finire, però almeno ci hanno provato.
Tu invece hai sempre avuto paura di fare il passo più lungo della gamba, e il fatto che io fossi pronta e tu no mi faceva andare in bestia.
A quel punto, onestamente, non ho più pensato a Milano. Mi sono buttata tutto alle spalle e ho pensato che se e quando sarebbe stato, ci avrei pensato.
 
Ma io credevo nelle fate, e non riuscivo a lasciarti andare, perché continuavo a vederti nel mio futuro e fare l’amore con te era fantastico. E sono andata avanti, sforzandomi di essere presente, puntuale, calda e affettuosa. E la cosa peggiore era che più mi sforzassi più ti vedevo lontano.
 
- Oi…
- Oh.
- Com’è andata oggi?
- È andata. È andata anche oggi.
- Va… va bene…
- Sono un po’ stanco, scusami. Ci sentiamo domani.
- Sì… va bene, non preoccuparti. Buonanotte, ti amo.
- Ciao, Luna.
 
E non hai idea di quanto mi ferisse quella cosa. Era davvero complicato, perché non riuscivo a capire il modo di scavalcare quella barriera di ghiaccio che avevi piazzato tra me e te. E forse avrei dovuto smettere di ascoltare l’istinto e tutto il resto delle cosine carine che avevo in testa, perché obiettivamente chi decide di andare via deve andare via. E invece tu eri ancora lì, nonostante tutto, mandandomi in confusione.
Quella freddezza mi raggiunse, paralizzandomi, quando, dopo aver prenotato i biglietti per raggiungerti un’ennesima immeritata volta, tu sembrasti cadere dalle nuvole.
 
- In che senso “hai da fare”? – chiesi, ridendo subito dopo. Si è capito che quando rido in realtà vorrei urlare, no?
- Non sapevo che saresti salita.
- Non sapevi che sarei salita... Bene. Ti ho chiesto io quando prendere i biglietti, quasi due mesi fa.
- Ho dimenticato.
- E che dovresti fare? Sentiamo.
- C’è il derby e vado allo stadio.
C’era il derby e andava allo stadio. Porca puttana, il derby, allo stadio. Ero dietro al derby e allo stadio.
- Marco… per cortesia… - chiesi, sorridendo di nuovo, come se avessi fatto finta di non capire. – Mi stai dicendo che io ho programmato due mesi fa questa cosa per vederci e tu…
- Gianluca mi ha regalato il biglietto.
- E tu hai detto di sì.
- Sì.
- Meraviglioso. Quindi andrai allo stadio piuttosto che stare con me.
- Ti ripeto, non ricordavo, altrimenti…
- Io in pratica vivo in funzione della prossima volta che ti vedrò, segnandomi sull’agenda le date e tutte le altre cazzate mentre tu non ti ricordi che dovevi vedere la tua ragazza che non vedi da due settimane. Ho capito bene?
- Luna, io…
- No, Marco. Per cortesia. Perché capisco il discorso della distanza, capisco la paura e tutto, ma tu hai appena deciso di mettermi dietro a una partita di calcio.
- Non ti ho messa dietro a nulla, Luna… ho solo dimenticato…
 
E quindi dissi stop. Ricordi il tono della mia voce?
 
- Lascia perdere.
- Cosa?
- Tutto. Lascia stare. È evidente che a me importa più che a te. Dispiace solo per i soldi, a questo punto me ne sto a casa mia, mi riposo. Divertiti.
- Per una partita? Questo perché vado allo stadio?
- No, è per tutto. Sei troppo distante.
Ti sentii quasi trasalire, in quel momento.
- Ah, ora la distanza è un problema? – ridacchiasti, quasi a volermi provocare.
- La nostra distanza, intendo. Tu sei a milioni di anni luce e io ho bisogno di un uomo che mi stia vicino e mi faccia sentire desiderata.
- Stai esagerando.
- Non sto esagerando per niente. Buon proseguimento e forza Milan.
 
Sei interista. Lo so.
Col senno di poi forse manco l’avrei detto ma era il modo più bambinesco che avevo trovato, al momento, per colpirti. Quindi nulla.
Capii che dovevo lasciarti andare, perché tenevi troppo alla tua libertà.
Credevo alle fate ma non pensare che non sappia che la gente vada e venga. La questione stava nel fatto che non me lo aspettavo, perché cercavo di vederti sempre da questa parte della staccionata, a fine giornata, e l’aver capito che in fondo su di te mi sbagliassi mi dava quasi l’impressione di sciogliermi e sprofondare attraverso il pavimento.
 
I giorni successivi furono densi, ma tu non lo sai, perché non ci sentivamo dato che non mi scrivevi né mi chiamavi. Non sai del mal di pancia nervoso che ormai mi attanagliava, né dell’insonnia e degli attacchi di pianto. Ti limitavi a guardarmi le storie e a lasciare qualche like sui social.
Avrei voluto mettere tutto in pausa, ritirarmi nuovamente nelle mie stanze e attendere che testa e cuore facessero pace, ma quei due sono stronzi e, siccome non potevo fermare il tempo, non dovevo dimenticare di essere anche Maestra Luna. A scuola cercavo di essere quanto più presente possibile, anche se a volte i demoni sotto la cattedra mi divoravano le caviglie.
Era un giovedì d’inizio novembre, quando Lorenzino mi si avvicinò per l’ennesima volta. Lo faceva sempre molto delicatamente, nei momenti di silenzio, con quei piccoli passetti, per paura di disturbare me e gli altri.
- Maestra… - mi fece, poggiando entrambe le mani sul registro. Le guardai, piccole e sporche d’inchiostro di pennarello.
- Lorenzo. Dimmi.
Lui si girò immediatamente, cercando invano lo sguardo di Alessandra, poi tornò a fissare i miei occhi.
- Ho deciso che oltre al fiore, voglio regalare anche un peluche, ad Alessandra. A casa ne ho uno a forma di cuore che secondo me è perfetto.
E Marco, credimi: avrei voluto urlargli di fermarsi. Avrei voluto dirgli che il mondo è una merda, che le persone non se ne fottono di nulla e che l’amore è la truffa peggiore in cui sarebbe potuto incappare nella sua vita, perché tu mi hai fatto scoprire questa verità.
Ma mi ci vedi a distruggere i sogni di un bambino?
Mi ci vedi a dirgli che Alessandra è soltanto la prima delle donne che lo renderanno come te?
Sorrisi e annuii, mentre in cuor mio avrei voluto dirgli di non spendere i suoi soldini per un fiore che sarebbe finito chissà dove, ma di andarsi a comprare le figurine.
- Va bene. Ma ora torna al tuo posto e stai attento.
 
Venti giorni passano in un niente.
Perdo peso ma cerco sempre di sorridere, perché quella è la mia arma contro il mondo e l’unico modo per non soccombere e perdere definitivamente questa guerra.
Pensavo a te in continuazione, tant’era vero che mi ero ridotta a meccanizzare tutta la mia vita per non avere più un secondo libero. Tuttavia non riuscivo più a studiare, né ad avere un rapporto decente con la mia famiglia, perché ero sempre di cattivo umore.
 
- Sì, mamma, lo so, lo so. Ora però lasciami stare, perché non ho proprio voglia di stare ad ascoltare nessuno.
 
Guardavo il telefono squillare, lontano dagli occhi, perché inconsciamente ogni mia cellula sperava che fosse il tuo nome a farsi strada tra le notifiche push sullo schermo, mentre invece era soltanto mia sorella, sotto casa, che mi chiedeva una mano con le buste della spesa. Immagina la mia sorpresa, quando le apro il portone e la trovo, tra le varie, con un pacco di Amazon tra le mani.
 
- Pure questo, mi sono dovuta portare!
- E che è?
- Ma che ne so! C’è scritto per Luna, quindi è per te.
 
Logica schiacciante.
In ogni caso tu sai bene cosa ci fosse in quel pacco. Lo avevi fatto recapitare tu, a casa mia.
Immancabile, il biglietto che trovai mi aveva regalato un po’ di speranza.
 
“Non sono bravo con le parole né con le dimostrazioni. Manca solo questa stella al mio albero di Natale. Ti andrebbe di venire a portarmela?”.
 
Presi quell’addobbo tra le mani. Bello, dorato, fragile e probabilmente costoso. Sentii quasi immediatamente la nostra fiammella riprendere vita.
Due settimane dopo ero da te, a fare l’albero di Natale, a riappacificarci, a fare l’amore.
 
Ma oh, sentivo che qualcosa fosse cambiato.
 
E ci pensavo di notte, mentre vagavo per il tuo appartamento, che ormai reputavo soltanto la tua tana e non più un posto dove poter condividere qualcosa. Ti guardavo dormire, poi chiudevo gli occhi, accettando la triste realtà: non mi fidavo più di te.
E anche se con quel gesto mi avevi dimostrato di tenerci, a me, perché eri andato contro il tuo orgoglio, mi avevi riportata a te, dimostrandomi di volermi, nella mia testa la nave era salpata e tu mi stavi inseguendo con una barca a remi in mezzo all’oceano.
Sì, bello, romantico e tutto il resto, ma quelle scene sono belle solo nei film, e non quando stai aspettando che qualcuno ti raggiunga.
 
Sai cos’è?
È che forse, in un modo un po’ storto, io so di non essere normale. Cioè, nessuno è normale, siamo tutti il caso umano di qualcun altro, però credo di non riuscire a mostrare ogni lato di me. Ci penso, capisco che in realtà nascondo in continuazione la vera essenza di me. Insomma, tu mi vedi, sono qui, davanti a te, rido e scherzo con chiunque mi dia un minimo di confidenza ma in realtà quella è solo una delle tre parti di me.
Sì, ho detto tre.
La prima è una bimba sognatrice, e vive a migliaia di anni luce da te, nascosta sotto a una copertina rosa di Biancaneve, in una casetta dei giochi di plastica. Sai, tipo quella che papà mi comprò quand’ero piccola. È ancora nel giardino di casa dei miei, ha il tetto rosso e la porta e le finestre marroni, come se fossero fatte di legno. Hai capito, no?
Ecco, lei è lì dentro. Canta, ride, gioca.
Poi, fuori, a fare da guardia, c’è la seconda versione di me. Questa è seria, adulta. Quella Luna è sfatta, spettinata, senza reggiseno e con gli occhi sporchi di trucco sciolto. Lei ha capito che il mondo non è tutto rose e fiori, e che in realtà l’amore non viene somministrato agli angoli delle strade in pasticche di metanfetamina a forma di cuore. Perché, andiamo, Marco, abbiamo capito entrambi che l’amore è un patto col diavolo, che alla lunga ti leva l’anima. L’ho imparato sulla mia pelle, e questa versione di me ne è la testimone più diretta. Impaurita e armata alla peggio, come un’assediata, protegge quella bimba a tutti i costi, nonostante non sia la più fragile delle due.
Ecco perché c’è anche la prima linea. Sì, parlo di ciò che vedi, la Luna gioiosa, sorridente, esuberante ed estroversa, che pensa che più largo sia il suo sorriso e più grande sia il suo scudo.
Insomma, quella che crede nelle fate.
E l’ordine è sempre lo stesso, sempre il medesimo, con la caciarona che protegge la superstite e la superstite che si staglia davanti alla bambina.
 
Ma secondo te, che forza ci vuole, per mantenere tutto in ordine?
 
Capitava, quando mi scappavano le redini da mano, che una delle due fuggisse dalla fila e prendesse parte alla recita della vita vera, dove non dovevano stare, perché non era il loro posto.
E quindi impazzivo. Urlavo, piangevo, non capivo, ero impaurita e contemporaneamente ingenua, ignara del fatto che quella genuinità mi avesse esposta ai pericoli del mondo.
 
Quindi, Marco, ho capito che l’unico modo per evitare di uccidere una delle mie tre me, fosse difendermi da te. Dovevo alzare gli scudi, prendere parte a quella guerra di posizione scavando trincee e sfidandoti apertamente a fare il primo passo. Stare ferma ti ha costretto ad avvicinarti, a diventare sempre più affettuoso, e per un po’ quella cosa mi è andata anche bene, dato che avevo levato il cuore dal piatto in mezzo, lasciando guidare te. Ti seguivo oltre i guardrail, attraverso qualcosa che non avevo visto né preventivato, ovvero il tuo modo di vivere una relazione.
Non sapevo minimamente dove tutto quello ci avrebbe portato, e onestamente non mi interessava; i dubbi che avevo avuto su di te avevano finito per divorare tutta la credibilità che ti eri costruito, e non riuscivo a far pace col fatto di esser stata con te per mesi senza che tu mi volessi realmente nella tua vita.
Non riuscivo a non pensarci. Eri come un livido che avevo perennemente davanti agli occhi, e ogni volta che lo toccavo vedevo il tuo volto.
Era metà gennaio e, per quanto fosse stato importante il tuo tentativo, il giocattolo era rotto.
E tu non sei stupido. Ti sei accorto che sono diventata passiva e accondiscendente, a un certo punto, e venisti a dirmelo.
 
- Sei fredda, sai?
- No, ti sbagli. Sono stanca…
- Che hai fatto, oggi?
E quando mi facesti quella domanda non potei fare altro che pensare che fosse la prima volta che ti interessassi autonomamente al mio quotidiano, senza che fossi io a raccontarti tutto.
- Le divisioni. E Giulia, Vittoria e Marco le hanno capite subito.
- Oh, benissimo. Marco è quello del fiore?
- No. Quello è Lorenzino.
- Oh. Com’è andata a finire, poi?
Sorrisi amaramente, discostando lo sguardo.
- Quella bambina è una stronza.
 
Lorenzino e io non riuscivamo a farcene una ragione. Ovviamente lui aveva le sue ragioni e io le mie, perché il mio problema non era una bambina di sette anni ma un uomo adulto, che aveva deciso di diventare un bravo fidanzato quando io avevo deciso di non voler più fare sforzi.
E più ti vedevo affettuoso più mi arrabbiavo.
Mi veniva da urlarti che sei un coglione, perché avresti potuto essere tranquillamente l’uomo perfetto se ti fossi aperto fin da subito, evitandomi le croci su addome, petto e inguine. Figurate, s’intende.
Unica nota positiva era il fatto di aver smesso di urlare allo specchio, chiedendomi i perché, i quando e i come di ciò che mi accadeva. Per onor di cronaca, la risposta a ogni domanda era sempre la stessa:
 
- Perché non vivi in una favola, Luna…
 
E da un lato mi odiavo, perché avevo perso l’aura luminosa che mi circondava. Ma ho capito, ora, che è meglio così.
Credevo nelle fate, ma avevo smesso di credere al principe azzurro. Quello non esiste.
 
Ci trascinammo fino a San Valentino, il freddo dell’inverno stava lasciando spazio ai primi soli di primavera ma la situazione non era delle migliori, dato che avevo cominciato a nutrire del risentimento, nei tuoi confronti. E il fatto che litigassimo per qualsiasi pretesto ti ha confuso.
Non ti ho mai visto così tanto sulla difensiva come in quel periodo, tesoro, e se dicessi che non mi avesse divertito almeno un po’ vederti cercare di usare la logica per venirne a capo, beh, mentirei.
Cioè, immaginati. È come se stessi provando a salire delle rapide in bicicletta.
Non gestivamo bene la distanza ma quando ci vedevamo tutto migliorava, devo essere sincera. L’averti sotto le mie mani, e il poter dare uno sfogo fisico a quel fastidio ci aveva portati a stare più tempo nudi che in giro a fare cose. Certo, anche in de visu capitava che partisse la lite, ma eravamo bravi a sgonfiarla. E poi ricordi? Scendemmo da Milano e andammo direttamente a Ischia, alle terme. Mi sorprendesti, con una di quelle dimostrazioni nel mio stile, piena di fotografie, lettere scritte a mano, baci e carezze.
 
E lì dicesti che mi amavi.
 
Lo dicesti per la prima volta, e un po’, lo ammetto, mi riportasti in alto.
Forse, pensai, sto scalfendo questa solida armatura. Forse ho sbagliato a trattarlo in questo modo.
Mi tranquillizzai un po’, anche se non ero del tutto convinta. Riuscimmo ad arrivare a fine aprile relativamente tranquilli, e intanto lentamente ripresi piede, provai a darti fiducia, a scongelarmi dal centro del blocco di ghiaccio che mi proteggeva. Il volante lo tenevi tu, ormai, e io non ero nel sidecar. Ero dietro di te, stretta alla tua vita. Segretamente credevo di nuovo a noi, al nostro progetto, alla casa, ai bambini, al cane, alla villetta fuori Milano, a me come maestra e alle tue parole.
 
Ma oh, non appena ne fai una buona, Marco, Marco, Marco, sbagli in maniera clamorosa.
Come dite, voi maschietti? Rigore a porta vuota?
Sei sceso a Napoli e mi hai lasciata da sola, il sabato sera. Non ci vedevamo da tre settimane e ti sei organizzato coi tuoi amici, senza considerarmi.
Sei un coglione, Marco, Marco, Marco.
E quando te l’ho detto, Marco, Marco, Marco, non hai saputo fare altro che mettere in mezzo la tua ex.
 
- Stai facendo i suoi stessi discorsi.
- Ma ti sembra normale che torni qui, me lo dici con un giorno di preavviso e poi m’informi che oggi non possiamo stare assieme perché la tua amica non vuole gente che non conosce a casa sua? Ma che ha, sette anni?
- Ma che ti devo dire, Luna?
- Ma che mi devi dire?! Sono la tua ragazza, dovevi dirle qualcosa! Che cazzo significa che tu vai lo stesso lì che tanto io mi posso organizzare con Davide o con Sveva?
- Che non sei sola… – mi dicesti.
E boh, io non ho capito se il problema lo vedevo solo io, perché a me sembrava palese.
- Ah che bello, non sono sola! Sono coi miei amici che ho visto ieri al posto di stare con Marco, che non vedo da quasi un mese! Io e te stiamo assieme, e tu vivi al nord! Non stiamo mai assieme, poi tu scendi ed esci con gli amici, che non mi vogliono con te! Ma perché poi importa sempre e solo a me?!
- Non è vero che importa solo a te! Pensavo che ti facesse più piacere stare con Sveva perché è tornata ora dalla Francia dopo sei mesi! L’ho fatto per te!
- Ma che paraculo!
- Senti, stop. Non voglio più discutere con te. Io esco con Paolo, andiamo a fare un aperitivo.
- …
 
Allibita.
Se quel giorno ti sei strozzato è ovviamente colpa mia. In ogni caso, quello fu l’ennesimo appuntamento che avevo con la realtà. Due giorni dopo, prima che tu ripartissi, ci vedemmo e ti dissi che non riuscivo più a far finta di nulla.
 
- Tu pensi solo a te, Marco. Non sei mai stato pronto per una relazione…
- E ancora, le parole della mia ex.
Ogni volta che potevi la mettevi in mezzo, oh.
- E si vede che anche con lei, tutto ciò che hai toccato hai distrutto. Sei arido. Da te non… uff, cazzo…
Cominciai a piangere lacrime incandescenti, che raggiunsero il mento in un attimo e caddero sulla mia maglietta.
- Continua… - mi dicesti, col volto granitico. Cercai il tuo sguardo e annuii, perché avevo capito, finalmente, che nonostante ti amassi più di quello che volessi ammettere, tutto ciò che avevamo non era sano.
Stare con te non faceva altro che demolirmi, giorno dopo giorno, quindi alzai la pistola, presi la mira e decisi. Dovevo sparare, punto.
- Io non riuscirò mai a trovare qualcosa di buono in te, con questi presupposti. - Abbassai di nuovo il volto. Avevo premuto il grilletto e tutto volevo tranne che farti del male. - Ma mi sono ripromessa che nessuno avrebbe dovuto farmi stare con questi mal di pancia. Io merito qualcosa di meglio. Tu non sai cosa significhi, amare.
 
E ti colpii.
 
Ti colpii forte, perché ricordo ogni cosa di quel momento: la tua fronte inarcata, gli occhi sottili come fessure, le labbra rapprese.
Sospirasti, fermo.
- Ha detto anche questo…
- Ancora… - sorrisi. - Non so più che dirti.
Ti prendesti del tempo per riempire i polmoni. Stavi lottando contro qualcosa che avevi dentro, perché crollare per te non è mai stata un’opzione. E tu non lo vedi, ma ti stavi per schiantare al suolo.
- Mi stai lasciando, quindi?
Mi limitai ad annuire e fece un sorriso di sdegno. – La storia che si ripete. – facesti. – Io che distruggo le persone… che le peggioro. Che le sciupo… Hai ragione, non sono fatto per amare e se te ne stai andando per difenderti è giusto che tu vada. Non voglio renderti lo spettro di ciò che eri, quando ti ho conosciuta… Non voglio vedere il vuoto nei tuoi occhi. Già ho vissuto questa cosa e non…
Rimasi a fissarti e piangevo, come una fontana, mentre guardavi il riflesso dei tuoi occhi di ghiaccio nello specchietto retrovisore.
- Cosa?
- Nulla, Luna. Io sbaglio, in continuazione, ma non voglio più vedere sofferenza. Non voglio più litigare…
E annuii di nuovo, per un’ultima volta. Avrei voluto tanto abbracciarti ma onestamente non ne avevo più le forze. Mi resi conto che avessi ragione da vendere, e che quelle differenze di traiettoria, né io, né tu, saremmo mai riusciti a correggerle, in nessun modo.
 
Me ne andai subito dopo.
E ora, a mente fredda, capisco che la vita perfetta che ti sei costruito non è altro che un modo per difendere il tuo piccolo Marco. Sì, dico, per evitare che il mondo lo ferisca.
Però ho detto basta, convinta delle mie decisioni, forte dei chilometri che ci dividevano e che mi aiutavano nel processo di cancellazione. Sono tornata a casa, mi sono fatta una doccia e ho fatto il mio cuore a pezzi, lasciandolo sul tavolo.
Lo avrei ricomposto nei giorni a seguire, lentamente.
 
Ora, se mi chiedi se credo ancora nelle fate, ti rispondo di no.
No. Non ci credo più.
Però sorrido. Vado avanti, costruisco ogni giorno il mio equilibrio, evitando gli ostacoli, senza sbattere.
Certo, sono cambiata: non riesco più a essere esuberante come un tempo, a volte provo anche difficoltà ad avere a che fare coi miei stessi amici. Ma oh, è un processo, forse mi è servito per crescere.
Forse mi servirà per trovare la quadratura di questo cerchio imperfetto, un po’ ovale ai poli. Sì, un po’ schiacciato, insomma, nulla che potrebbe lontanamente sembrare lineare.
In sostanza mi sono allontanata da te, usando una bella dose d’orgoglio e dando la possibilità ai miei sogni di vita di poter essere ancora esauditi. Tu, purtroppo, non credi nella magia.
 
E ho fatto ciò che ho fatto soltanto per me stessa, anche se non l’hai capito.
 
Mi hai riscritto, settimane dopo, perché ti sei sentito accusato. Boh, non lo so, forse ci hai ragionato sopra, forse vedevi me come vittima di un’infelicità di cui t’incolpavo. Abbiamo litigato di nuovo.
 
- Devi scendere dalle cazzo di nuvole sulle quali vivi, Luna! Il mondo non è un gioco!
- So bene che non è un gioco! Io sono rimasta piegata in due con la gastrite mentre tu te ne andavi a farti i cazzi tuoi! Non ti è mai interessato nulla!
- Tu chiudi un rapporto e te la prendi con me perché le vite vanno avanti?! Non puoi più mettere lingua, su ciò che faccio!
- E infatti non lo faccio... Sono stanca di sopportare le tue cazzate.
- Ancora… Parli come se fosse tutta colpa mia.
- Lo è! Di chi credi che sia, la colpa?! Sei stato sempre uno strafottente di merda, per tutto il tempo! Io volevo solo che le cose andassero bene!
- No! Tu volevi che le cose fossero come dicessi tu! Vuoi tutto fatto su misura!
- Ho diritto a sognare, Marco!
- Non hai diritto di cambiarmi, però! E non hai avuto neppure il buonsenso di accorgerti del fatto che io avessi cominciato a lavorare su di me, per te!
- E figurati…
- Credi che io mi fidi facilmente, delle persone?! Io di te mi fidavo! Sei l’unica donna di cui mi sia mai fidato in questo modo!
- E mi hai trattato in questo modo! Pensa un po’!
- Sei l’unica ad aver visto certi aspetti di me! L’unica! Qualcosa deve pur significare!
- Senti… smetti di urlare… Non ha più senso. Ero la tua ragazza e valevo la tua considerazione. Invece hai fatto sempre prima i fatti tuoi, e poi, quando trovavi un buco libero mi scrivevi… Ma sai come mi ha fatto sentire, questa cosa?
- Come mi sono sentito io, quando mi hai bloccato ovunque! Avevo bisogno di parlare, avevo bisogno di te! E tu sei sparita!
- Perché altrimenti mi avresti ammazzata, stronzo!
 
E da allora non ci siamo più sentiti.
 
Giugno è andato via come l’olio, e il mio compleanno l’ho passato da sola.
E poi c’è stato l’ultimo giorno di scuola.
 
- Lorenzino… che c’è? Perché sei così triste?
Mi aveva guardato per tutto il tempo con l’aria cupa, prima di alzarsi e avvicinarsi a me, a testa bassa.
- Ale… ha buttato il mio pupazzo. Ha detto che non gli piaceva.
- Non “le” piacciono. “Gli” è solo per i maschi.
- Sì, maestra, scusa.
Io poi, che lo correggevo in quei momenti.
- Non preoccuparti…
- E ora non so che fare… la vedo tutti i giorni, è qui, e vorrei solo stare seduto vicino a lei, e stringerle la mano. Voglio vivere tutta la mia vita con lei. Ma lei non mi vuole…
Piccolo mio, Lorenzino. Hai solo sette anni, ma quanto ti capivo.
- Sai… c’è una grande differenza tra una principessa e una donna. Guarda Alessandra… - gli feci, guardandola di sottecchi. – Non ha mica una corona in testa?
- Non voglio una principessa… - ribatté. – Io voglio Alessandra…
- E sbagli, Lorenzino! Perché tu sei un principe, e i principi devono stare con le principesse…
Il bambino rimase a fissarmi, con quegli occhioni languidi. Si morse il labbro e distolse lo sguardo.
- Neppure io ho una corona…
Mi limitai a sorridere.
- Certo che ce l’hai.
Presi un foglio di carta, lo trasformai in un cilindro e lo chiusi con un po’ di nastro adesivo. Poi glielo misi in testa.
- Tu sei un principe, piccolo. Ora girati e osserva. In questa classe c’è qualcuno, con la corona?
Mi guardò, confuso e poi si voltò verso la classe. Tutti lo guardavano.
- No, maestra.
- E allora devi cercare la tua principessa…
 
E nulla.
Immagina quindi la mia sorpresa, dopo più di due mesi senza sentirti, sentire il campanello suonare e trovarti davanti a me, sentendoti utilizzare parole che non credevo conoscessi.
 
Mancanza?
Bisogno?
 
Sto sorridendo ma vorrei urlare. Vorrei spaccarti la testa e vedere se davvero ci sia della merda, lì dentro.
Ma tu sai quanto sia stata male?
Tu lo sai che il sole non mi ha mai scaldata, quest’estate?
Tu lo sai che ho perso quasi dieci chili, e che ora ho il terrore di potermi affezionare di nuovo a qualcuno?
La verità è che non sono fatta per le persone come te, e non credevo che fosse possibile. Stare con te mi ha fatta sentire sbagliata. Mi ha fatta sentire stupida, e non so se sai cosa si prova quando ti metti continuamente in discussione, soltanto perché un uomo ti ha messa in dovere di farlo.
Ho pensato di cambiare, sono cambiata, anche se non credevo di poterlo fare.
Io sono forte, nonostante tutto, perché porto uno scudo e una spada.
Perché difendo la mia piccola me dalla vita e dai suoi mostri.
Quindi, Marco, cosa dovrei risponderti?
Cosa?
   
 
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