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Autore: MaikoxMilo    28/06/2022    3 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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8

 

 

Quell’estate sognai diverse volte di essere un cigno dalle candide ali bianche.

Non mi era mai capitato, in vita, di sognarmi di essere un cigno. D’altronde, per come era mutato il mio animo, lo trovavo molto sciocco e insensato.

Eppure quell’anno, 260 anni dopo la data della mia morte, mi capitò diverse volte.

Ero quindi un cigno, volavo su un deserto di ghiaccio e non incontravo nessuno, né uomini né animali che fossero. Ero solo. Meglio così, lo preferivo. Dalla gente io tendevo ad allontanarmi, ritagliando per me uno spazio di intimità che nessuno, privo del mio permesso, sarebbe stato in grado di valicare.

Volavo indisturbato sul permafrost, sui mari, ascendevo i monti, le Alpi, che avevo attraversato da piccolo per giungere ad Atene, la catena montuosa del Taigeto, dove ci portarono “i grandi” poco prima della nostra investitura a Cavalieri d’Oro, e infine gli Urali, che avevo visto dall’aereo, quando il mio Maestro Fyodor mi portò in Siberia per addestrarmi allo Sciamanesimo.

Il Maestro Fyodor… o forse mi inganno ed era il Maestro Krest? Come giunsi in Siberia? Come conobbi lei?!

Non rammento più… i ricordi si accavallano e ingarbugliano.

Non rammento più.

In ogni caso, stavo bene da solo, a volare così, senza una meta né pensieri, eppure… soffrivo la solitudine e non ne capivo la motivazione. Non MI sono mai capito probabilmente!

Mai.

E ora sono finito in pezzi.

Ad un certo punto del mio lungo peregrinare senza capo né coda, individuai una figura evanescente in mezzo ai ghiacci perenni, piccola e apparentemente insignificante. Mosso da un istinto caldo, non meglio definito, planai al suo fianco, atterrando elegantemente e smuovendo appena l’aere, senza tuttavia produrre alcun fono.

Buonanotte…” lo salutai educatamente (erano infatti calate le tenebre, anche se i dintorni erano illuminati), chiudendo di riflesso le ali nell’attesa che si voltasse verso di me.

L’esserino sussultò, si girò quindi verso di me, ed io riconobbi i suoi capelli del bagliore del grano prima ancora dei suoi occhi di un azzurro puro che mi ricordavano il colore chiaro dell’interno del ghiacciaio che veniva chiamato ‘Mer de Glace’.

Buonanotte – mi rispose con lo stesso tono, spalancando meravigliato la bocca e gli occhioni – Come sei bello!”

Era il mio Hyoga, persino più piccolo del nostro primo incontro. Sembrava avere 6 anni, l’età in cui, supponevo, aveva perso la madre. Inspiegabilmente, non fui sbalordito da quel prodigio, come se già fossi stato precedentemente consapevole di quell’incontro.

Grazie… - gli risposi, arruffando un poco le piume – Ho ali grandi e forti, posso coprire lunghe distanze!”

Davvero?! Non sembrerebbe, con quel collo sottile, le zampe palmate e il becco tondo… sei elegante e bello, delicato, certo, ma forte non...” lasciò cadere il discorso nella paura che mi potessi offendere.

Non ci diedi peso, mi limitai a zampettare vicino a lui, mostrando la mia apertura alare in tutto il suo splendore: “Eppure sono resistente come pochi! Posso compiere in volto un tragitto lungo moltissimi chilometri, pensa, dalla tundra siberiana al Mar Nero...”

E come… come fai con quel corpicino?” volle sapere ancora Hyoga, carpito dalla mia rivelazione, fissandomi con quei due occhioni che manifestavano ammirazione crescente.

Sono forte e vigoroso, ho ali robuste, e zampe adatte al nuoto. Non mi stanco facilmente, mi muovo parecchio...”

Incredibile… quanta forza, in un corpo così apparentemente esile!”

Puoi esserlo anche tu, basta allenarsi… a tutto ci si abitua, basta avvezzarsi alla pioggia fredda, alla stanchezza, alla sofferenza… è così che si diventa forti!”

Oh… - biascicò ad un tratto lui, tornando a rannicchiarsi su sé stesso, fissando un punto lontano non ben definito – No, io non lo sono...”

Perché?”

Perché non sono adatto a questo mondo!” sorrise malinconicamente lui, buttando fuori un grosso sospiro.

Ebbene, non lo ero neanche io.

Mi avvicinai ulteriormente, prendendo posto al suo fianco, accovacciandomi come quando tenevo al caldo e al sicuro le uova. Non lo dimostravo, ma ero stanco dal lungo viaggio, mi sembrava di aver volato per secoli e secoli senza meta, senza un posto dove andare, da solo, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, che avevo perso. Chi? Era passato talmente tanto tempo... non lo rammentavo più.

Chi stavo cercando?

Se avessi rincontrato quella persona che tanto andavo a cercare… la mia sofferenza sarebbe diminuita? O aumentata? Avrei potuto trovare… pace?

Che cosa stavi facendo? Cosa ti ha portato qui?” domandai, indagando sulla sua situazione per non pensare alla mia. Mi feci attento e percettivo, scrutando nel profondo ogni più piccolo cambio di espressione.

Nulla... mi sentivo sperso, privo di radici, mi sono state strappate, sai? - mi mostrò la sua tristezza, come io davo sfoggio delle mie ali, senza tuttavia dare cenno di vergogna. Era di gran lunga più forte e coraggioso di me che provavo, invece, ad atteggiarmi – Proprio alla ricerca di quelle, mia madre ed io avevamo intrapreso un viaggio per conoscere mio padre, ma… non è andata bene, e così sono qui da solo, non c’è più nessuno...”

Lo guardai, comprensivo. Anche io le avevo perse, le radici, per questo vagabondavo senza una meta, volando in lungo e in largo senza mai posarmi. Anche i miei ricordi, così come la mia essenza, andavano frantumandosi in mille e forse più frammenti.

Troppo, davvero troppo era trascorso. Il mio nome non lo rammentavo che a stento. Aveva forse a che fare con la fusione del ghiaccio, dei ghiacciai che, umiliati da quel calore che talvolta è vita e talvolta è morte, franavano a valle, fondendosi poi nell’acqua. Ma non ero affatto sicuro che quel nome fosse ancora quello corretto.

Ad un tratto, avvertii Hyoga trarre un nuovo sospiro prolungato, gli occhioni lucidi, mentre, appoggiando il mento alle ginocchia, aggiungeva ancora qualcosa: “Sì è un po’ soli, in questo deserto di ghiaccio, non trovi?”

Sì è soli anche con gli uomini… - dissi, cupo, mentre con il becco prendevo un po’ di cristalli di ghiaccio per dissetarmi – Anzi, al mio modesto modo di vedere le cose, si è addirittura PIU’ soli in mezzo agli uomini!”

Il bimbo ci rimuginò un po’ su come era solito fare quando qualcosa di non concepito prima dalla sua testolina veniva espresso da terzi. Soppesò, trattenne quelle parole un poco rudi. Decise infine di non lasciarle, permise loro di attecchire dentro di sé, filtrandole.

Forse hai ragione… - acconsentì, cupo, prima di scrollare la testa e sorride amaramente – Effettivamente sono stato in mezzo alla gente estranea e mi sentivo solo uguale, soltanto mia madre mi faceva sentire a casa, al sicuro e… non c’è più! E’ stata inghiottita dalle acque...”

Io sono anche un animale acquatico… - affermai, fissando il mare in lontananza al quale lui sembrava così irrimediabilmente attratto – Colui che lo desidera io posso riportarlo all’elemento primigenio...”

Da-davvero?!”

Mi fai pena, tu, così fragile in mezzo a questo mondo fatto di ghiaccio, freddo e crudele… se un giorno la sofferenza sarà troppa, se non riuscirai più a reggerla… io posso riportarti al luogo a cui sei stato brutalmente strappato!”

Mi… mi ci puoi riportare?! - chiese conferma, speranzoso – Mi ci porterai tu se… se deciderò di arrendermi?”

Arrendersi. Morire.

Intendeva questo ed io lo sapevo, il cuore mi diede una fitta di avvertimento, ma mi sforzai di continuare.

Non vi è nulla di male nella resa. Quando si è troppo stanchi e soli, quando il dolore diventa insopportabile, quando si desidera solo la pace interiore… allora, forse, il nulla che sussegue la morte non è poi così male, no?”

No, non lo è! - acconsentì ancora, gli occhi lucidi, tornando a scrutare il mare – Non lo è… anche se mia madre mi aveva chiesto di vivere!”

Vivere. Non era solo sua madre a desiderarlo. Il mio ardire in quel discorso stava cozzando con qualcos’altro; qualcuno… qualcuno che non era affatto d’accordo. Qualcuno che, proprio in quel momento, mi urlò nella testa, e il suo grido, gutturale, vibrò nel mio petto ancora inesperto.

Incongruenza. Cosa diavolo stavo dicendo?! Io, che mi ero prefissato di forzarlo a crescere, a strapparlo da un destino nero di morte, che professavo quelle parole arrendevoli, dandogli anche la mia benedizione per una eventuale riuscita?!?

Mi sentii frastornato… era come se quei pensieri fossero doppi, dati da due individui strettamente affini, se non legati da una stessa essenza, ma dotati di due personalità diverse, per certi versi agli antipodi. Mi venne disgusto e nausea -i cigni provano nausea?!?- nel non riuscire a raccapezzarmi. Provai per la prima volta su di me le vertigini, ed era folle, perché percorrevo sempre lunghe, lunghissime, distanze ad alta quota senza mai fermarmi, come era quindi possibile che…

Non ultimai il pensiero, le braccine di Hyoga mi avvolsero dolcemente. Mi sospinse verso di lui, permettendomi di appoggiare il lungo collo, sottile fascio di luna, sulla sua spalla per essermi così di conforto. Era riuscito a raggiungermi.

Improvvisamente mi sentii inspiegabilmente pieno, al sicuro; una sensazione di tepore mi avvolse inaspettatamente. Credevo di averlo ormai scordato, il tepore, il calore… e invece tornava, consegnandomi una spiacevole sensazione di pianto.

Ma ero un cigno, non potevo piangere. Non più.

Non ero ancora tornato a casa, tuttavia fino a quel giorno, lo avvertii distintamente, mi ero mosso in lungo e in largo proprio per incontrarlo e legarmi a lui, sparuto piccolo fiore a tre petali che racchiudeva però il senso della vita.

Per legarmi a lui, già...

Vale anche per te… - mi confortò, con voce calda e rassicurante – Se non ne potrai più, se sarai troppo stanco, ti coverò dentro di me, riportandoti al luogo che ti spetta!”

Il luogo che mi..?”

Tutti ce l’hanno, io lo so… non so quale sia il tuo, ma… lo troveremo, te lo giuro!”

Annuii, quasi tremando. Ero effettivamente già molto stanco, smarrito, privo di radici, ma avevo trovato lui, il suo cuore, disposto ad accettare e cullare ciò che era rimasto di me.

Un unico frammento impazzito nel crocevia del tempo. Un’unicum.

Un unico frammento impazzito che mi legava ancora a lei, e che presto tuttavia mi avrebbe contaminato. Mi rabbuiai a quel pensiero.

Avevo ancora facoltà di parola, pur in quella forma, non potevo permettermi di perderla!

Hyoga, ascolta...” il mio tono si era fatto pesante, un poco grave. Desiderai l’attenzione del piccolo che lui mi concesse subito, con i suoi occhioni azzurri.

Dentro di me sorrisi, anche se i cigni non erano in grado di farlo. Sarebbe, infine, andato tutto bene.

Hai detto… che ti piace il candore delle mie piume?”

Oh, sì, tantissimo!” le sue iridi si erano fatte percettive, brillavano nella notte ricolma di stelle.

Ebbene… molto presto questo colore si tingerà di sfumature fosche, esse cresceranno mano a mano che si protrarrà la mia presenza in questo mondo.”

Oh no, e che si fa?!” sembrava dispiaciuto, mi guardò con foga, come a dire che ci sarebbe stato lui a proteggermi. Non mentiva, lo sapevo. Non sarebbe comunque bastato. Sapevo anche questo.

Devi promettermi che quando ciò succederà, quando sarò ormai irrecuperabile… tu mi fermerai!”

Ma io non ti voglio fermare! - si oppose il bimbo, cocciuto – Sei gentile e buono, perché dici questo? Troveremo una soluzione!”

Non posso evitarlo, purtroppo… per questo ho bisogno di te, lo farai? Mi… fermerai tu?”

Io non voglio fermarti...”

Ti troverai nella situazione di dover decidere, piccolo, non ci saranno alternative, ma se sarai tu a farlo, io sarò comunque salvato!”

Non capisco… sei così bello e splendente, perché mi dici questo?”

Devi promettermelo!”

E se non ti volessi lasciare andare?”

Te lo chiedo… come mio ultimo desiderio!”

E’ follia!”

Non… se riuscirai a salvare altri; altre persone che tu ami!” sorrisi con naturalezza, sebbene faticassi non poco ad esprimermi.

Mmm, i-io... – non voleva accettare, lo capii, ma non c’erano altre soluzioni – va bene, però tu mi devi promettere che, almeno, ci proverai a non farti risucchiare!”

Farò quanto è nei miei poteri, lo giuro!” acconsentii, cercando di essere il più convincente possibile.

Ma non sarà sufficiente, prima o poi questo mondo riuscirà a corrompermi… e lì sarà la mia fine!

Pensai ancora, ma non glielo dissi. Avevo paura. Non potevo permettere che la provasse anche lui. Lo vidi annuire di nuovo, prima di avvicinarsi nuovamente a me e stringermi nell’accarezzare le piume ancora bianche. Ancora…

Chiusi gli occhi nel sentirmi rasserenato. Da quel momento in poi, sarei rimasto con lui finché avrei potuto. Mi chiesi tacitamente per quanto tempo ancora sarei riuscito a mantenere una mia autocoscienza prima di ricongiungermi con l’altra mia ala, come giusto che fosse. Un brivido di timore mi sconvolse, ma le carezze del piccolo mi chetarono. Sarebbe andato tutto bene, in qualche modo, avrei combattuto oltre la vita affinché tutto potesse sistemarsi… per lei, anche se non ne ricordavo più il nome; per un futuro migliore, sebbene, in quello stesso futuro, non fosse più prevista la mia presenza...

Perché l’avrei protetta, anche se sotto un’altra forma.

L’avrei protetta.

Ad ogni costo.

Perché l’amavo.

E l’amore, sebbene muti inequivocabilmente, è qualcosa che rimane impresso nell’anima.

Per sempre.

La mia.

Come la sua.

Lo sai anche tu, vero..?

 

...Marta...

Ti osservo mentre pigramente sonnecchi, la bocca leggermente dischiusa. Hai la testa delicatamente appoggiata alle braccia tenute incrociate sopra la sponda del letto, l’espressione un poco tirata, non del tutto serena, le sopracciglia arcuate dalla tensione accumulata che tu hai deciso di aiutarmi a sostenere. Così vicina a me, sia emotivamente che fisicamente...

Ti accarezzo dolcemente la testa con la mano libera, sostando sui tuoi capelli del colore delle castagne mature che, a seconda della luce, emanano qualche scintillio rossiccio non sempre facile da scorgere. Arrivo fino alle scapole, prima di fermarmi e ricominciare, partendo dal capo.

Proteggerti… ci riuscirò mai? Ho detto così ad ognuno di voi, credevo fermamente di riuscirci, e invece… vi ho persi, o rischiato di perdervi, innumerevoli volte. Tante. Troppe. E un uomo, questo, non dovrebbe MAI permetterlo!

La mia mano si ferma improvvisamente, le dita stringono convulsamente il palmo fin quasi a conficcarsi nella carne. Mi sfugge un singhiozzo, non riesco a trattenerlo.

Non devo, no… non ora.

Non ora, maledizione!

“Camus...”

La tua voce. Mi rendo conto appena di aver stretto disperatamente le palpebre. Tutto si è fatto buio, non so per quanto, solo un leggero svolazzio di ali mi è sembrato di udire; in un istante, l’immagine di alcune piume bianche fluttuanti si forma nella mia mente.

Mi ci potrei smarrire nel tentare di tenerle tra le mie mani, perché esse mi sfuggono dalle dita.

Mi ci potrei smarrire ad inseguirle, ma quando sento la tua voce chiamare leggiadra il mio nome, qualcosa si incrina ulteriormente dentro di me.

Impiego un po’ a recuperare la capacità di parlare, a fatica riapro le palpebre che vorrebbero solo rimanere chiuse nel ricordo. Tu sei davanti a me, mi fissi con occhi pieni e percettivi senza farmi sentire sbagliato in questa mia debolezza che non ho ancora imparato ad accettare pienamente. Ma tu sì.

Come Hyoga.

Che cosa farei… se non vi avessi al mio fianco?

“Cam?”

Mi richiami, stavolta abbreviando il nome, forse preoccupata dalla mia non reazione. Mi sforzo di sorriderti.

“Dovresti andare a riposare, piccola… mi hai aiutato in tutto e per tutto con i medicamenti per Hyoga, a lavarlo e a cambiarlo, ma ora sei stremata...” ti dico, guardando imbarazzato altrove. Perché anche se sono consapevole della tua scelta di provare su di te le mie emozioni, non riesco ancora nemmeno a pensare di farmi vedere così fragile da te, da voi.

“E tu? Se abbiamo già fatto tutto, potremmo chiedere il cambio a Michela o a Milo per stanotte...” mi proponi, alzando un poco la testa.

“No, io… sto qui, devo stargli vicino, non posso lasciarlo - biascico, stringendo di riflesso la mano di Hyoga che non ho mai smesso di tenere per tutto questo tempo – Tu, però...”

“Non ancora… - è la tua serafica affermazione, mentre mi sorridi teneramente, come se ti fossi aspettata questa mia risposta e fossi stata pronta a ribattere – Sono sveglia adesso. Continua… continua a raccontarCI, Camus!”

Ci..?

Non riesco a parlare, ma deve essere la mia faccia sorpresa a farlo al posto mio, perché tu, ridacchiando con naturalezza, dopo esserti stiracchiata brevemente come sei solita fare, torni a sistemarti compostamente sul bordo del letto, gli occhi nuovamente puntati su di me.

“A me e Hyoga, sì! Stiamo entrambi… ascoltando!”

“M-ma Hy-Hyoga...”

Guardo il mio ragazzo, il suo viso pallido e sfatto; i capelli, di un biondo spento, scarmigliati e incollati alla pelle, nuovamente sudata malgrado il lavaggio di poco fa. Non riesco a proseguire, un groppo mi si forma in gola, diffondendosi poi anche nel petto. Con la mano tremante, gli sfioro la fronte con le dita, scostandogli alcuni ciuffi di capelli che gli ricadevano sulle palpebre abbassate segnate da rughe di sofferenza.

Come potrebbe udirmi… in queste condizioni?!

“Oh, sono convinta che ci riesca piuttosto bene, sai? Anzi, starà borbottando fra sé e sé… - mi rassicuri, leggendomi dentro, prima di sollevarti un poco, tossicchiare per darti un tono e gonfiare il petto nel tentare di imitare una voce maschile – ma guarda se dovevo farmi simil ammazzare per fargli cavare qualcosa dal buco, sgrunt!”

Butto fuori aria nello scaricare un poco la tensione accumulata. Sentirti parlare mi tranquillizza, mi riscuote, mi fa sperare davvero in un risvolto favorevole. E’ come prendere una boccata di aria pulita. I miei polmoni tornano a respirare, avverto l’ossigeno prendere il posto dell’immane peso di poco fa.

“Non credo che Hyoga si esprima così… - nego con la testa, regalandoti un leggero sorriso – Questa è una frase molto più da Isaac!”

“Oh? Forse! - acconsenti, prima di tornare giù, regalarmi un’altra espressione dolce, e socchiudere gli occhi – Però il succo è qualcosa di simile! Continua a raccontare, Camus, la tua voce è molto bella… e delicata! Può raggiungerlo… dovunque si trovi ora!”

“Pensi che… anch’io ci possa riuscire? N-non sono mai...”

...stato in grado di arrivare ai vostri cuori. Siete voi ad aver raggiunto me, ad avermi sorretto, ad avermi dato la forza in tutti questi anni. Ed io… ed io…

“Suo padre ne è in grado, sai, ha una percezione incredibile! E’ stato in coma profondo ma sentiva comunque le parole di chi gli stava intorno - mi rispondi con un nuovo sorriso, sebbene un poco più tremante, lasciando che le palpebre ti si chiudano, vinte dalla stanchezza – E, sempre suo padre, è l’uomo più puro e giusto che ci sia, nonché… emotivo! Se lascerà che scorrano, i suoi sentimenti raggiungeranno sicuramente il cuore di suo figlio!”

L’uomo più puro e giusto che ci sia… come mi chiamava Isaac, con gli stessi occhietti carichi di adorazione. Quanto… quanto gli somigli, piccola mia, tu non lo immagini neanche!

Non ho più parole. Ancora una volta sono state prosciugate da una naturalezza disarmante, come quella del mio ometto.

Tu devi percepire i miei occhi lucidi, perché ti nascondi ancora di più tra le braccia in modo da farmi sentire al sicuro nel manifestare ciò che provo. Lo fai per me perché lo sai. Sai che io non sono ancora pronto a sostenere questa debolezza, men che meno trasformarla in forza, ma tu sì, ci riesci per entrambi. Ed io non posso che essere fiero, e orgoglioso, ancora una volta, che tu abbia scelto di camminare al mio fianco, permettendomi di sorreggermi a te senza farmi sentire vulnerabile.

Non sono più vulnerabile… perché io ho voi!

Il mio respiro muta, mentre, lentamente, mi chino verso di te, scostandoti un poco i ciuffi dalla fronte.

“Hai… hai ragione… come sempre! - biascico, posandoti appena le labbra sulla tua pelle, sostandoci un po’, prima di regalarti un leggero bacio e successivamente raddrizzarmi, pur tenendoti la mano sulla testolina – Dove… dove eravamo arrivati, nel racconto?”

Tu strizzi le palpebre, non mi rispondi subito, crogiolandoti invece nel mio gesto, che so piacerti particolarmente.

Perché è qualcosa che mette direttamente a contatto le nostre anime, oltre che i nostri corpi, e significa: da ora in poi ti proteggerò, qualsiasi cosa accada!

“Mmm, dunque… ah, ci eravamo avvicinati all’estate, se non ricordo male, la prima, con Hyoga!”

“La prima, sì...” stringo di riflesso la mano del mio ragazzo, che continuo a sorreggere in questi giorni così difficili, accarezzandogli di riflesso il dorso. L’altra invece, ancora posata su di te, trema con più forza, al punto da metterti in allarme.

“Te la senti?” mi chiedi conferma, pur mantenendo gli occhi chiusi per non mettermi in ulteriore imbarazzo.

“Sì, io… - mi raschio a fatica la gola, cercando di recuperare un minimo di voce – Ce la posso fare!”

...Perché non sono più solo, anche se mi trovo in mezzo a cento, mille estranei, o isolato in un deserto, di ghiaccio o sabbia che sia, non sono più solo!

Perché io… ho voi!

 

 

Quell’anno, l’anno in cui il piccolo Hyoga entrò nelle vite mie e di Isaac, fu insolito.

Insolito, su tutti i fronti.

Avevo preso a fare un sogno strano, ricorrente, sempre uguale a sé stesso.

Uno spiraglio di altre vite, forse.

Più semplicemente, data la mia mente analitica e critica, una bizzarria di cose insensate.

Un sogno che non c’era verso di rammentare. Nella maniera più assoluta.

Ed era vero che i sogni dovevano rimanere tali fino al risveglio per poi essere relegati ad un angolo della propria mente, ma in quel particolare frangente non riuscivo a darmi pace nel non ricordare alcunché di quanto fosse successo nel mondo onirico.

Accadde poi che una notte, sempre in quell’estate del 2003, durante uno di questi momenti, mi svegliai più bruscamente del solito.

Anche quello era inusuale.

Generalmente non permettevo mai che le chimere prendessero il sopravvento.

Non era razionale.

Non era da Cavaliere.

Era semplice debolezza e futilità.

Ma successe e fu talmente intenso che ciò mi sconvolse, al punto di rimanere boccheggiante e attonito sul letto per diversi minuti.

Frastornato.

Scosso.

Scardinato.

Al punto da non rammentarmi, per qualche secondo, chi fossi.

Chi ero?

No, cosa ero?

Dove stavo andando?

Ci misi quindi un po’ a capacitarmi di chiamarmi Camus, di essere Cavaliere d’Oro di Aquarius, di trovarmi nella mia stanza all’isba e, cosa non meno importante, di avere due allievi scavezzacollo a cui badare, nonostante la mia giovane età.

Isaac e Hyoga...

Mi girai appena, attirato dalla luce di fuori che già penetrava prepotentemente dalle persiane serrate… automaticamente sbuffai.

Ah, giusto, siamo durante l’Estate Artica, il sole che non tramonta mai.. che giubilo!

Pensai, innervosito, maledicendo mentalmente la luce che comunque riusciva a penetrare, sebbene avessi chiuso tutto.

Fortunatamente il sogno, che mi aveva sconvolto fin dal profondo dell’anima come gli altri suoi consimili di quell’annata, stava velocemente sparendo tra le nebbie dell’incoscienza. Non riuscivo quasi più ad afferrarlo, a ricordarmi cosa avessi visto, ma la sensazione di sbigottimento, di paura, di… lacerazione, mi era rimasta.

E faceva male, quella, dannatamente male, perché mi sentivo divelto, fratturato, non completo. Irreversibilmente segnato.

Assurdo! Era tutto così assurdo, che proprio io rimanessi frastornato da una inezia come poteva solo essere un sogno adolescenziale.

Mi scrollai via di dosso tutta quella sensazione così intollerabile per me. Mi alzai in fretta dal letto e, senza accendere la luce -che tanto non ce ne era bisogno, ci sarebbe voluto di spegnere il sole!- mi rivestii, provando fastidio al solo sentire i vestiti incollarsi alla mia pelle a causa del sudore già preesistente. Necessitavo di una doccia e anche in fretta, ma prima avevo un compito da svolgere. Aprii quindi la porta di camera mia, girando la chiave, per poi uscire.

Mi resi in fretta presentabile, perché non potevo salire al piano di sopra, a vedere come stavano i miei lupetti, con la maglia che ancora era ammucchiata confusamente sui pantaloni, rialzata in alcuni punti, perché comunque -lo sai- tendo ad indossare indumenti piuttosto corti a dispetto del disagio che mi procura mostrare quella zona. Del resto… ho sempre amato avvertire il venticello leggero sfiorarmi il ventre, giocando con il tessuto del mio vestiario, scoprendomi dolcemente la pelle con movenze leggere e sinuose che ricordavano il lento ondeggiare dei campi di grano in estate.

Al ripensare al grano, mi sovvenne di Hyoga, il sogno fatto, che, pur andando a scomparire, mi riportava alla mente il suo visetto corrucciato sulla banchisa. Diedi un’occhiata all’orologio, erano le tre di notte, eppure il sole brillava, rischiarando già i contorni della casetta. Era troppo presto per svegliare i miei allievi, ma non mi sarei più addormentato, ne ero consapevole, decisi quindi di salire al piano di sopra per vedere comunque come stessero.

Entrambi erano guariti bene dalla polmonite, ed erano tornati forti più di prima, ma avevo preso l’abitudine, quando dormivano, di soffermarmi a guardarli, in silenzio, cercando di imprimere dentro di me ogni più piccola loro movenza, che era specifica e unica, e che delineava il loro temperamento così diverso.

Arrivai su, aprendo la porta senza far rumore, trovandomeli ancora intenti a dormire profondamente. Il letto di Isaac era il più vicino alla porta, quello di Hyoga alla finestra, dalla quale entrava un raggio di sole che gli illuminava un poco la fronte e i capelli biondi. Sorrisi tra me e me, avviandomi all’interno per soffermarmi a vedere prima uno e poi l’altro.

Isaac dormiva tutto storto, in posizione scomposta, la coperta gettata sul fondo, le gambe divaricate, e la maglietta del pigiama quasi completamente rivoltata, da quanto si fosse mosso come una anguilla. Dormiva con la bocca aperta e un’espressione beata, una delle sue manine era parzialmente nascosta sotto il tessuto, come se, prima di assopirsi pesantemente, si fosse grattato appena sotto la clavicola. Gliela presi garbatamente, adagiandogliela lungo il fianco, mentre, con fare protettivo, gli risistemavo compostamente la maglietta giù. Isaac non aveva certo i miei problemi di pudore, anzi, ma vedermelo lì, così stravaccato, con il pancino ben in mostra, mi aveva dato l’impulso di ricoprirlo.

Lui probabilmente avvertì la mia vicinanza, perché, impastando un poco con la bocca, si sistemò meglio sul cuscino, iniziando a parlottare nel sonno: “Avete visto, Maestro Camus? Uh, sono sempre più forte, p-presto sarò in grado di proteggervi!”

Sorrisi a quelle sue parole, avvertendo calore dentro di me. Gli accarezzai un poco i capelli irsuti, prima di prendere il lenzuolo in fondo al letto e accompagnarlo sopra di lui in modo da coprirlo.

“Certo, soldo di cacio, ma ora dormi e riposa tranquillo, altrimenti sarai troppo stanco per seguire gli allenamenti!” gli dissi, intenerito, regalandogli un buffetto sul naso prima di raddrizzarmi e dirigermi verso l’altro letto.

Anche Hyoga era caduto in un sonno di piombo, dormiva a sua volta profondamente, ma in posizione assai più composta, su un fianco, le coperte tirate fin quasi a nascondere il visetto. Abbozzolato. Come se solo così potesse sentirsi schermato dalle brutture della vita. Gli scostai leggermente la trapunta per poterlo vedere meglio.

Aveva preso sonno stringendo la sacca misteriosa che si portava dietro dal primo giorno, un po’ come una coperta di Linus, la boccuccia chiusa, l’espressione un poco corrucciata. Per un solo attimo, mi chiesi se anche lui avesse fatto un sogno simile al mio, sebbene non lo ricordassi affatto, ma mi scrollai in fretta quel pensiero.

Mi chinai verso di lui, giocherellai un po’ con i suoi capelli biondi, prima di scendere con le dita, alle guance, che gli solleticai, in vena di tenerezze. Le sue braccine avvolgevano in maniera protettiva lo zainetto, quasi fosse stato un peluches. Mosse appena le dita.

“Cosa tieni, lì, con così tanta cura? - gli chiesi, bisbigliando in modo che non mi sentisse – E’ stata una delle mie prime domande a cui non mi hai dato risposta; la prima di una lunga serie...” commentai, amaramente, osservando brevemente la sacca e provando l’istinto di vedere cosa potesse contenere.

Anche Isaac ne era sempre molto incuriosito, gli avevo proibito di indagare, rispettando la riservatezza di Hyoga, ma, effettivamente, anche io provavo una certa curiosità a quel mistero.

La osservai a lungo. Era gialla e, per come fosse posizionata, avrei potuto in quel momento sbirciare dentro. Si apriva infatti con un bottone, bastava sforzarlo e… scrollai la testa, dicendomi che non era assolutamente il caso.

“Sei un bell’enigma, tu… - gli sussurrai ancora, massaggiandogli dolcemente i capelli, soffermandomi sulla morbidezza dei suoi ciuffi – Di tutti gli allievi che ho avuto, no, anzi, di tutte le persone che io abbia mai conosciuto, tu sei, senza ombra di dubbio, il più...”

Non mi veniva la parola, mi fermai, continuando però ad accarezzarlo con naturalezza, cosa assolutamente non da me.

“Sembri davvero caduto da una stella… da quando sei entrato nelle nostre vite, i sogni di cui non ricordo nemmeno l’impronta si sono moltiplicati, perché? Da dove vieni, Hyoga? Da dove…?”

“Mmmh...” si lamentò debolmente, forse disturbato dalla mia voce o dal mio tocco, ciò mi spinse ad arrestare le mie carezze.

Vidi le sue palpebre fremere diverse volte, pareva sul punto di svegliarsi, quindi decisi di lasciarlo stare, meritava di riposare un altro paio di ore, come Isaac. Lo ricoprii con cura, regalandogli un altro breve, furtivo, tocco, prima di uscire dalla loro stanza senza fare il minimo rumore.

Si è soli anche con gli uomini…

Mi ripetei mentalmente, mentre scendevo le scale per andarmi a preparare un caffè che avrebbe accompagnato il vortice dei miei pensieri fino al risveglio dei due pargoli. Quella frase era come un mantra per me, ma per quanto mi sforzassi di rammentarne la motivazione, non mi veniva in mente.

La sensazione di solitudine che, forse, avevo già provato nel sogno, per un istante, si acuì. Mi ero sentito per così tanto tempo solo, lontano, divelto, fratturato… quasi da non rammentarmi più cosa significasse provare calore, respirare, vedere, sentire e… vivere! Tuttavia...

Arrestai il mio moto prima di fare l’ultimo gradino, voltando la testa in direzione della camera dei miei allievi. Un leggero sorriso si delineò sulle mie labbra.

Era vero, si era soli anche con gli uomini, lo sapevo bene, però io non lo ero più già da un po’ e, quello, lo dovevo ai miei meravigliosi Isaac e Hyoga!

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Lo so, sono passati alcuni mesi dalla mia ultima pubblicazione ma, come già accennato in precedenza, ho davvero poco tempo libero tra lavoro, impegni vari e altro.

Ho finalmente concluso la modifica del capitolo 38 di Sentimenti che Attraversano il Tempo (ci avviciniamo alla revisione completa alla quale ne succederà un’altra grammaticale) e adesso questo capitoletto, che scrissi mesi fa e che ho finito di correggere proprio oggi.

Capitoletto che si divide in tre parti e che risponde all’osservazione del Sommo Shion nell’ultima pubblicazione dei 5 Pilastri di Marduk: (il frammento dell’anima di Dégel) deve essersi legato a qualcosa, a qualcuno, per permettergli di continuare a interagire con il mondo.

Ecco, appunto!

E’ il piccolo Hyoga, ad averlo accolto!

Questa questione merita un ulteriore approfondimento. I più attenti di voi forse rammenteranno che Myrto poteva vedere l’anima di Dègel ben prima della nascita di Hyoga… come è quindi potuto succedere?

Per sommi capi, senza spoilerare troppo l’avvenire, posso dirvi che il mondo onirico in cui l’ex Aquarius e il futuro Aquarius si incontrano, non è per forza reale, perché è essenzialmente un luogo atemporale dove due anime strettamente affini, legate da una solitudine comune, si incontrano, si uniscono e prendono a vivere in simbiosi. Una sorta di “sentiero” all’Attack on Titan, per intenderci.

Il frammento dell’anima di Dègel, l’ultimo mancante, è dentro il cuore di Hyoga, ciò gli ha permesso di conservare una sorta di autocoscienza, ma per quanto? I prodromi non sono dei migliori…

E’ oltretutto un Dégel spurio, legato già alla coscienza di Camus, pur non essendone invischiato totalmente. Ovviamente gli atti mancati di Camus, il suo non ricordare, è perché la sua anima, di fatto, è ancora fratturata. Va da sé che, finché rimane tale, non potrà completarsi.

Ma completarsi significa far sparire Dégel. Per sempre…

E, per dire, vi ricordo che il corpo fisico di Dègel è ancora ad Atlantide, intatto. POTREBBE essere utilizzato.

Potrebbe, eh…

* Si censura *

Perché proprio un cigno? Beh… qui non penso servano tante spiegazioni! E poi il cigno, per antonomasia, è l’uccello monogamo per eccellenza (anche se qualche scappatella se la fanno, a onor del vero, ma dettagli, su u.u), vagheggiato come uno tra gli animali più romanticamente fedeli alla compagna… ho mantenuto questo luogo comune perché, ovviamente, cade a fagiolo per la mia storia (oltre ad essere collegato a Hyoga, alla promessa fatta a Unity, ecc…)

L’intermezzo, legato al presente, non aggiunge niente di nuovo rispetto a quanto già sapete: Camus sta raccontando del primo anno di allenamento di Hyoga, il 2003, alla sorellina e al Cigno stesso che versa, però, in gravissime condizioni. Quest’aura di mistero su cosa sia effettivamente successo, è voluta, e verrà spiegata solo nei capitoli nuovi della Melodia della Neve (quando e se riuscirò a tornare a pubblicare stabilmente, l’impresa sembra disperata).

Al solito, amo descrivere Camus in questa tenuta così fragile, ha subito un durissimo colpo nel vedere l’allievo ridotto così e sentirsi (come sempre) responsabile. E’ lampante che, rispetto al passato, dopo tutto quello che ha subito e sofferto, sia molto cambiato rispetto ad allora, ma ancora -come è degno di lui, peraltro!- fatica non poco a mostrarsi così vulnerabile agli occhi delle persone che ama, anche se è consapevole che Marta percepisca praticamente tutto di lui e, in questa circostanza particolare, lo vedrete, si sia sorretto completamente a lei per evitare di crollare.

Il “mio” Camus ha perso tantissimo nella sua vita… chi ha seguito tutte le storie lo sa. E’ ovviamente diverso dal Camus originale (non può essere diversamente) ma il suo sviluppo mi sembra coerente con tutto ciò che gli ho fatto subire. E mi piace molto, non lo nego, sono orgogliosa di dove lo stia conducendo insieme a Hyoga e a tutti gli altri. Passin passetto.

 

Dovrei aver finito con le spiegazioni necessarie, ma se avete piacere di farmi domande, o comunque di lasciare un qualche tipo di commento, di osservazione, sono sempre a vostra disposizione e ben felice di spiegarvi il mio punto di vista.

Grazie a tutti come sempre e alla prossima! :)

 

  
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