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Autore: muffin12    05/07/2022    5 recensioni
"Al bar non sapevo cosa prendere e mi sono presa una cotta."
(BarbyeTurica, Twitter)
CaféAU
Pairing: principale OsaSuna - secondaria SakuAtsu
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“So qualcosa che tu non saaai.”
 
Osamu era entrato in quel momento a casa. Aveva passato una mattinata intera ad assistere ad una conferenza obbligatoria di cui non gli fregava nulla, una tortura in cui vigeva la legge della firma e controfirma e contro cui nessuno studente avrebbe mai avuto possibilità di vittoria.
 
Dovette accettare mestamente la sconfitta.
 
Aveva piegato il collo con sofferenza, testa bassa e sguardo a terra in segno di sottomissione e si sedette nella zona centrale, sull’ultima sedia della fila, quella immediatamente accanto alla via d’uscita più vicina e golosa.
 
Vennero fatti sfilare come schiavi incatenati fino al foglio firme e accomodare per le successive quattro, lentissime ore per sentire un signore di seimila anni pubblicizzare il suo ultimo libro in merito all’economia.
 
O, almeno, pensava fosse sull’economia. C’era “economia” nel titolo, quindi ne era certo al 75%.
 
Appena qualche anima coraggiosa riuscì a sfilare il foglio firme dalle grinfie del professore – o tutor, più probabile – e l’aveva fatto passare tra quel pubblico obbligato con una furtività e scioltezza per cui i ladri più famosi avrebbero pagato soldi fumanti, la sala si svuotò più velocemente del previsto in gruppi organizzati, onde evitare potessero nascere stille di sospetto in quelle menti schiaviste.
 
Osamu si era infiltrato in un trio di ragazze ridacchianti giusto a metà di quella complessa operazione, e si era sbrigato a raggiungere la fermata degli autobus con lo stomaco ruggente di fame. L’ora di pranzo era praticamente arrivata e per tutta la mattinata non era riuscito a mettere niente sotto i denti.
 
Quindi, quando prese le chiavi per aprire la porta di casa, si aspettava di trovarla vuota, o al massimo silenziosa, con la cucina bella pronta per essere attivata con l’azione delle sue mani sapienti.
 
Non voleva trovarsi davanti, come prima cosa, Atsumu.
 
Un Atsumu ghignante, deridente, che allungava le vocali e utilizzava un tono di voce odiosamente cantilenante che sembrava solamente invocare scivolate sui crociati. Era una punizione per qualcosa che aveva fatto in una vita passata, senza dubbio.
 
Osamu decise di non dargli retta, chiudendo la porta dietro di lui e dandogli le spalle. “Hai già mangiato?” Domandò sistemando il suo cappotto sull’attaccapanni senza nemmeno sfiorare suo fratello con gli occhi. Sentiva il suo sguardo risentito dritto tra le scapole e se ne compiacque. “Spero di sì perché non preparo per te.”
 
Atsumu si accigliò. “Hai capito cosa ho detto?” Era scocciato, quindi non gli aveva dato la soddisfazione che aveva previsto. Perfetto.
 
“Mh-mh.” Osamu entrò in cucina e aprì lo sportello del frigorifero. Il riso avanzato dal giorno prima era lì ad aspettarlo, tra un paio di banane che cominciavano ad annerirsi e l’ultimo budino al cioccolato della confezione. Sarebbe stato una goduria una volta fritto. “Hai comprato le carote come ti ho detto di fare seimila volte?”
 
Sentì Atsumu sbuffare infastidito e non vide alcuna carota. Quel coglione l’aveva dimenticato di nuovo.
 
Decise di rimanere sul semplice e prese le uova, cipollotti e mais, perché non aveva voglia di perdere tempo per sbucciare gli edamame con lo stomaco che sembrava volersi digerire da solo da quanto brontolava.
 
Poggiò gli ingredienti sul lavello, stando ben attento a non far rotolare le uova dappertutto. “Il turno per la spesa è diventato di nuovo magicamente tuo.” Borbottò seccato. Aprì la scatoletta di mais precotto e ne scolò l’acqua di cottura nel lavandino, fino all’ultima goccia.
 
“Col cazzo! Sono tre volte che ci vado, se hai tanti problemi falla tu la spesa!”
 
Osamu non rispose nemmeno, occupato ad aprire le uova in una ciotola senza sporcare nulla di albume viscoso e filante. Inutilmente. “Metti in lista il mais, lo sto usando ora.”
 
“Ho detto che non ci vado, ogni volta il cassiere mi giudica.” Ringhiò Atsumu affacciandosi alla porta della cucina. Poggiò la spalla sullo stipite con fare imbronciato. “Mi guarda con quell’aria di sufficienza e sono costretto a fargli battere l’ennesimo pacchetto di preservativi che non userò nel breve periodo.”
 
Osamu ridacchiò. “Cazzone.” Lo prese in giro cominciando a sbattere le uova.
 
“Devo fargli capire chi comanda.” Mormorò convinto. Poi fece una smorfia. “Omi-kun non sembra voler cedere, mi ci vorranno anni prima di riuscire ad aprirne uno.”
 
“Usalo con qualcun altro.” Osamu prese una padella e versò un po’ d’olio, cominciando a tagliare i cipollotti per il soffritto.
 
“Perché dovrei usarlo con qualcun altro quando ho la mia anima gemella sott’occhio?” Atsumu fece un verso di scherno. “Davvero, Samu, sei stupido?”
 
Ah, lui?
 
Sakusa sembrava invocare la pazienza che non aveva ogni volta che Atsumu entrava nel café, stringendo le nocche fino a sbiancarle e respirando lentamente. Riconosceva il metodo zen quando ne vedeva uno, lo usava anche lui prima degli esami e ogni volta che non poteva picchiare Atsumu perché la mamma era troppo vicina per prenderli entrambi a ciabattate.
 
C’era anche da dire che Sakusa sembrava cominciare a cedere, almeno a giudicare dalla profonda gradazione di rosso che raggiungevano ogni volta le sue orecchie quando parlava con suo fratello e che, nell’ultimo periodo, sembrava camminare fino al suo collo e alle sue guance. Osamu beccò più volte Suna documentare appassionato l’avvenimento. Ogni giorno, aumentava la stima della percentuale di interesse di Sakusa per Atsumu basandosi solo sull’intensità del rossore che raggiungeva.
 
“Comunque, so qualcosa che tu non sai e quel qualcosa riguarda Sunarin.”
 
Quella era un’altra situazione.
 
Osamu raddrizzò le orecchie e il collo sembrò girarsi leggermente di propria iniziativa, scattando velocemente e ritornando nella posizione iniziale quasi nello stesso momento. Non voleva dare soddisfazione a suo fratello, avrebbe preferito tagliarsi la mano e tanti saluti al suo progetto futuro di ristorante.
 
Atsumu, anima malvagia, ghignò.
 
Osamu sapeva che aveva la vista libera sulla sua schiena. Poteva scorgere sicuramente l’irrigidirsi delle sue spalle e i movimenti della mano più meccanici e meno sciolti, ma Osamu riuscì a non emettere alcun suono.
 
“È una cosa molto personale.” Sentì sussurrare suo fratello e Osamu digrignò i denti. Mise la padella sul fuoco e, dopo qualche secondo, sentì l’olio sfrigolare leggermente. Buttò i cipollotti con più forza del necessario, facendone slittare qualche scheggia dritta sul pavimento.
 
“Ti vedo nervoso, c’è qualcosa che non va?”
 
“Non hai gli allenamenti?” Ringhiò Osamu raccogliendo la verdura da terra e buttandola nel cestino.
 
“No, mi spiace, non posso proprio dirti nulla.”
 
“Tsumu, sto per lanciarti qualcosa che farà molto male.”
 
“Non insistere! Vorrei davvero renderti partecipe, ma non posso, ho giurato!”
 
“Vattene affanculo e lasciami cucinare.” 
 
“Ok, se proprio non riesci a trattenere la curiosità, sappi che è una cosa che non ha mai fatto prima.”
 
Osamu chiuse gli occhi stretti ed inspirò lentamente. Non poteva tirargli il coltello e ucciderlo, mamma non l’avrebbe mai perdonato. Papà si sarebbe infastidito per le spese non preventivate del funerale e lo avrebbe ammazzato per un’offerta 2x1, sicuramente. “Ti prego, vattene.”
 
“Ingrato.” Sogghignò Atsumu andando a prendere il borsone in camera. “C’è una sorpresa per te sul tavolino!”
 
Non gli interessava. Non gli interessava nulla di quello che gli aveva lasciato Atsumu, che continuò a ridacchiare in maniera malvagia finché la porta d’ingresso non si chiuse dietro il suo muso a punta, lasciandolo finalmente tranquillo.
 
Non si godette il riso come avrebbe voluto.
 
Il pensiero che quell’idiota di suo fratello fosse riuscito a minare la sua stabilità mentale portandolo a pensare a Suna, come se non lo facesse già anche troppe volte al giorno, lo irritava enormemente.
 
Lavò le stoviglie con più violenza del necessario, sprecando una quantità ingente di acqua e pulendo la cucina intera da schizzi randagi sfuggiti per la troppa veemenza.
 
Quando passò davanti il tavolino del soggiorno, lo sguardo si posò su una ciotola in plastica – perché il cristallo era roba da ricconi e da persone che non si tiravano dietro qualsiasi cosa – ripiena di caramelle. Caramelle grandi, piene, incartate con involucro invitante e dorato.
 
Le riconobbe: le vendeva il café. Erano poggiate in un barattolo dalla forma strana sul bancone, ben visibili a chiunque entrasse.
 
Significava solo che suo fratello aveva passato la mattinata a molestare Sakusa.
 
Osamu si buttò sul divano e ne prese una, un sorrisino soddisfatto sulla faccia. La scartò e ne rivelò l’interno bianco e pastoso, dall’odore dolce di zucchero e aroma alla lavanda.
 
Senza nemmeno un pensiero, la buttò nella bocca e cominciò a masticare con gusto, impegnando le fauci con quella che pensava fosse una sottospecie di mou.
 
Non lo era.
 
Non avvertì subito un sapore acre, non potendo aspettarsi nulla del genere, né le piccole bolle che gli si formarono in bocca e che uscirono lentamente, raggruppandosi agli angoli delle labbra. Quando lo fece, si sbrigò ad ingoiare e correre a sciacquarsi la bocca, sputando una quantità di acqua e sapone industriale e raggiungendo un nuovissimo grado di vendetta nei confronti di suo fratello.
 
“Lo ammazzo.” Ansimò continuando a pulirsi la lingua con le dita. “Lo faccio fuori e butto il corpo in un burrone.”
 
Sarebbe tranquillamente sopravvissuto alla galera. I suoi amici lo avrebbero visitato sicuramente, sarebbero stati i primi a testimoniare a suo favore davanti al giudice. Sarebbe stato più difficile far capire alla mamma che era accaduto per un bene superiore, ma sicuramente papà sarebbe riuscita a convincerla. Non gli avrebbero più rivolto la parola, ma ne avrebbero guadagnato tutti in tranquillità.
 
Il sapone. Quello stronzo aveva modellato una mattonella di sapone alla lavanda e lo aveva incartato come fosse una caramella.
 
L’avrebbe pagata, cara e dolorosa.
 
Osamu ritornò a grandi falcate nel soggiorno, la bocca ancora cattiva dal sapore di detergente e l’animo nero fumante di rabbia. Prese la ciotola per buttarne il contenuto, ma si bloccò ad un passo dal secchio.
 
Forse era solo una, pensò riflessivo. Forse l’aveva mischiata tra le caramelle normali e lui aveva avuto solo sfortuna.
 
Poggiò la ciotola sul piano della cucina studiandola con concentrazione. L’aspetto generale era omogeneo, dolcetti dall’aspetto invitante che campeggiavano, tondi e grassi, in attesa solo di essere assaporati.
 
Lentamente, cauto, prese un’altra caramella.
 
La scartò e la mise velocemente in bocca.
 
 
*
 
 
“Ti prego toglimi questo sapore orrendo dalla bocca.”
 
Se Sakusa lo guardò da dietro il bancone, per una volta con la mascherina sotto il mento ma con un mezzo sorriso derisorio assolutamente odioso che spuntò sulla sua faccia appena lo scorse entrare dalla porta con la faccia schifata e l’espressione disperata, Suna alzò un sopracciglio interrogativo.
 
Era il primo pomeriggio e, di solito, non entrava nel café a quell’ora infame, né correva sbraitando ordini come un indemoniato tormentato. Ma il sapore del sapone rivestiva tutto: la lingua ne era appestata, il palato foderato, i denti portavano tracce malefiche tra le incanalature più strette e, nonostante si fosse lavato con il dentifricio alla menta sei volte e avesse quasi finito il collutorio – che prometteva alito fresco e pulizia pressoché totale. Fottuto bugiardo -, sentiva la sua intera bocca pastosa e cerata, una sensazione bruttissima che era aggravata solo dal sapore fallace di lavanda detergente che non voleva sparire.
 
Aveva voglia di scartavetrarsi tutto all’interno e non poteva farlo. Soprattutto se voleva ancora possedere una bocca.
 
“Qual è il tuo problema?” Domandò Suna avvicinandosi al bancone, accasciandosi sul piano simile a un foglio di carta volante, come se la forza gravitazionale stesse finalmente avendo la meglio dopo una giornata passata a combatterla.
 
Sembrava quasi non avesse la spina dorsale e Osamu era tentato di toccare la sua schiena per vedere se riuscisse a scorgere i dossi delle vertebre da sopra la sua maglia. Quasi.
 
Strinse le mani a pugno e bloccò le dita in una morsa. Non poteva pensare cose del genere in quel momento.
 
“Miya.” Rispose Sakusa al suo posto, gentilezza non richiesta e non apprezzata, e poteva sentire scherno puro nella sua voce.
 
Osamu non gradì. “Voi due stronzi vi meritate a vicenda.” Gli ringhiò in faccia, con l’unico risultato di incattivire ancora di più la sua espressione di cauto dispetto e malvagia soddisfazione. “Sapevi tutto, vero?”
 
“Devo andare a lezione.” Non ridacchiò quando lo disse, ma era abbastanza malevolo da fargli digrignare i denti. Lo vide togliersi il grembiule di servizio di dosso e prendere lo zaino da terra, segno che si stava preparando per andare via da prima che Osamu si presentasse sbraitando richieste di aiuto.
 
Sakusa si rivolse a Suna, sistemandosi la mascherina fin sopra il naso. “Kuroo sta per arrivare, Tsukishima è nel retro con Kageyama e se non escono entro cinque minuti vai a vedere se devi smaltire qualche cadavere.” Fece qualche passo e mormorò a bassa voce. “Non voglio che il locale puzzi di morto.”
 
“Sì mamma.” Sakusa si accigliò leggermente e Osamu si sentì un po’ meglio. “Manda i miei saluti a papà.”
 
“Mandaglieli da solo.” Sibilò camminando fuori dal locale e Suna ridacchiò, esilarato. “Stavolta non ha negato.” Gongolò togliendo il cellulare dalla tasca dei jeans e armeggiando con dita sicure, probabilmente per bloccare la certosina opera di registrazione che aveva attivato da chissà quanto tempo, in attesa del momento perfetto.
 
“Devo sapere chi è papà?” Domandò comunque Osamu confuso, certo al 75% di non volerlo sapere davvero quell’informazione.
 
Suna lo schernì. “Se non lo capisci da solo, a cosa hai assistito tutto questo tempo?” Lo vide allacciarsi meglio il grembiule e gli fece cenno ai tavoli con il capo, armeggiando con l’armamentario del caffè. “Mettiti seduto, cerco di portarti qualcosa.”
 
Osamu aveva appena mangiato. Non aveva proprio fame, ma il sapone gli aveva rimescolato lo stomaco ed aveva distrutto ogni ricordo piacevole del riso fritto nella sua bocca, mettere qualcosa sotto i denti era quanto di più ideale potesse essere offerto in quel momento.
 
Suna si presentò dopo pochi minuti con un mocaccino fumante, coperto di tanta panna da sembrare una montagna e una spolverata di cacao e granella di nocciole, insieme a una fetta di cheesecake dorata con una decorazione di caramello che, da sola, valeva tutto il sapone ingoiato. “Wow.” Alitò Osamu prendendo la forchetta da dolce e affondando nella crema. “Hinata si è dato da fare.”
 
Non vide Suna irrigidirsi leggermente prima di mettersi seduto accanto a lui, troppo preso a portare in bocca quel trionfo di golosità.
 
Bastò un morso e ne fu incantato.
 
La crema al formaggio era arricchita con cioccolato fondente, addomesticato e addolcito con piccoli croccanti di zucchero caramellato. La doppia consistenza era accattivante, appagando la sua gola con morbidezza e solidità, spingendolo a prenderne ancora. Il biscotto alla base era ben formato, accostandosi al sapore carico della crema con gentilezza.
 
Ma la cascata di caramello in cima era un capolavoro.
 
Zucchero e sale combattevano nella sua bocca, stupendolo per quella nota di forte sapidità che non si aspettava ma che si sposava magnificamente con tutto, rendendo il cioccolato meno stucchevole e i croccantini più attenuati, la dolcezza netta che si scontrava con il suo antagonista naturale e si univano in qualcosa di meraviglioso.
 
Era un contrasto, non un dolce. Era accattivante e comodo al tempo stesso, lo svegliava e lo rilassava in egual maniera, sentiva il sangue vibrare nelle vene e il respiro rallentare di piacere.
 
Prese un sorso di mocaccino, avvicinando il bicchiere grande al naso. Il vapore bollente lo colpì prima con l’odore del cacao, curioso e goloso, poi con quello del caffè, caldo e tostato. La panna in cima era una coccola graditissima, morbidezza smorzata da nocciole a grana grossa.
 
Era perfetto.
 
Era l’accostamento più vicino al miracolo che avesse mai assaggiato, così completo da farlo commuovere.
 
Chiuse gli occhi, gemendo oscenamente.
 
“Chi sta scopando?” Domandò una voce trafelata spezzando la magia mentale di Osamu, annunciandosi con lo scampanellio della porta di entrata. “Gente, a me avete detto che non potevo!”
 
Kuroo ci mise pochissimo a scorgere Osamu con un cucchiaino in bocca, quasi sbavando. Suna gli scoccò uno sguardo annoiato e Kuroo ghignò malevolo. “Porn food è sempre porno.” Specificò, alzando le sopracciglia allusivo. “Anche se fra un po’ diventa porno vero.”
 
“Hinata non c’è.” Sibilò Suna e Osamu lo guardò confuso per quel cambio di umore.
 
Le spalle di Kuroo caddero sconfitte. “Maledizione, così non riuscirò mai a convincerlo a venire oggi.” Brontolò scuotendo la testa, sistemando la borsa su una spalla e controllando lo stato del locale. Dopo aver constatato la calma piatta del primissimo pomeriggio, domandò. “Tsukki? Di solito arriva puntuale.”
 
“Nel retro con Kageyama.” La voce di Suna era talmente tranquilla che ci volle un po’ affinché Kuroo assorbisse realmente l’informazione. Quando lo fece, spalancò gli occhi e corse nella zona dipendenti. “Merda, perché li avete lasciati soli?” Mormorò con aria agitata, sbattendo la porta con più forza del necessario.
 
Si sentì un trambusto soffocato da strati di mura e vani, fino a che non venne riacquistata la tranquillità originale. “Starà bene?” Chiese Osamu non realmente interessato. Suna rispose con un alzata di spalle incurante. “Ti piace?”
 
“Cazzo, è la cosa più buona che abbia mai mangiato!” E lo era davvero, coprendogli la bocca come un manto e lasciando un ricordo di caramello salato e cioccolato ad ogni boccone.
 
Suna non lo stava guardando. Manteneva il contatto fisso con il cellulare e mordeva il labbro inferiore, solo l’angolo, la punta dei canini che affondava spietata. Osamu toccò la gamba della sua sedia con un piede, troppo forte per poter essere frainteso. Suna sospirò e lo guardò. “Cosa?”
 
“Da quando c’è roba del genere?” Si mise una cucchiaiata di panna in bocca e non notò la smorfia leggera sul suo viso.
 
“Che ti è successo?” Borbottò invece Suna accasciandosi sul tavolino, braccia conserte e testa affondata. “Di solito non fai il matto così.”
 
Osamu riacquistò le giuste priorità. “Quel grandissimo cazzone!” Ringhiò, ricordando con la mente il sapore amaro del detergente, ormai sparito per lasciare il posto a quella meraviglia. “Ha scambiato le vostre caramelle con del sapone solido!”
 
Suna batté le palpebre, confuso. “In che senso?”
 
“Invece di fare qualcosa di produttivo - fare la spesa, pagare le bollette, vendere il suo corpo alla scienza per capire perché cazzo il suo cervello è così vuoto -, ha preso una mattonella di sapone alla lavanda e ci ha fatto delle caramelle!” La sua voce salì di qualche ottava e Suna ridacchiò, più divertito che indignato come avrebbe dovuto essere, almeno per rispetto del suo orgoglio ferito. “Le ha incartate in modo che non mi accorgessi di nulla finché non le avessi masticate! E IO L’HO FATTO!”
 
“Hai mangiato una caramella di sapone?” Sogghignò Suna, raddrizzandosi e cominciando a dondolare sulla sedia.
 
Osamu borbottò qualcosa, fumante di rabbia. “Non ho capito, l’hai mangiata?”
 
“Ho finito la fottuta ciotola.” Mormorò vergognoso, girando la testa e guardando verso la finestra.
 
Suna rimase zitto qualche lunghissimo secondo. “Sei serio?”
 
“Non pensavo le avesse sostituite tutte, ok?” Sbottò facendolo scoppiare a ridere. Era una bella risata, secca e sorpresa. Si sentì arrossire e non solo per l’imbarazzo. “L’ho sottovalutato, lo ammetto, le ho finite perché credevo che potessi trovare caramelle effettive e non … surrogati malvagi con l’aroma di lavanda, smettila di ridere!
 
“Hai mangiato il sapone!” Singhiozzò Suna, gli occhi stretti e le lacrime che si formavano agli angoli. Dovette riportare la sedia composta, con tutte le gambe a terra, perché mantenere l’equilibrio ridendo come un invasato stava diventando difficile. “Hai mangiato una mattonella intera di sapone! Quanto sei deficiente?”
 
“Come facevo a sapere che nessuna di quelle era una caramella?”
 
“Le potevi leccare!” Osamu chiuse la bocca di scatto, gli occhi spalancati e il cervello che, effettivamente, gli suggeriva che quella non era proprio un’idea da buttare.
 
Mentre l’alba della comprensione fioriva sul suo viso, Suna rise solo di più, scuotendo la testa senza capacitarsi.
 
Osamu si imbronciò, prendendo un’altra forchettata di dolce. Non riuscì a rimanere offeso troppo a lungo, la dolcezza sapida di quella meraviglia riusciva a rimetterlo al mondo dopo ogni morso. “Puoi prendermi per il culo quanto vuoi, devi solo riempirmi di questa.” Mugugnò a bocca piena, indicando il piatto quasi vuoto con la tristezza negli occhi. “Non capisco come abbia fatto Tsumu a scoprire questo posto, non ha così gusto.”
 
“Cosa, geloso che sia arrivato prima?” Gli occhi di Suna brillavano di ilarità e, Osamu ne era sicuro, una malizia che lo colpì piacevolmente. Sogghignò, sorseggiando il mocaccino. “Ti avrei salvato dalla sua presenza caotica.”
 
“Avresti salvato Sakusa, anche se non so se sarebbe stato accettato.” Rispose prontamente, ricominciando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia, il sorriso che non abbandonava il viso. “Io lo avrei comunque visto alle lezioni.”
 
Ecco, quella era un’informazione nuova e inaspettata.
 
Osamu aggrottò le sopracciglia, rimanendo con il cucchiaino di panna e granella di nocciole a metà strada tra il bicchiere e la bocca. “Lezioni?”
 
“Lezioni.” Confermò Suna, il sopracciglio alzato. “Siamo compagni di corso.”
 
Lo avrebbe ucciso e sarebbe diventato finalmente figlio unico.
 
Osamu aveva più volte fantasticato sul prendere la faccia di suo fratello e sfracellarla contro il muro più vicino, ma mai in maniera così urgente come in quel momento.
 
Avrebbe potuto conoscere Suna molto prima di quando era accaduto effettivamente, avrebbe passato più tempo con lui, avrebbe …
 
“Sono venuto anche a casa vostra un po’ di volte.” Suna prese il cellulare e cominciò a smanettare distratto. “Per i gruppi di studio.”
 
“Atsumu è morto.” Sibilò Osamu alzandosi di colpo, facendosi guardare da un Suna più confuso che sconvolto. “Mi verrai a trovare in carcere?”
 
Lo vide alzare le spalle incurante, scattando una foto veloce della sua faccia rabbiosa. “Sicuro.”
 
 
*
 
 
Quando suo fratello tornò quella sera, un’espressione beata sul viso e troppo concentrato a molestare chissà chi sul cellulare per prestare attenzione ad altro, ad Osamu venne voglia di tirargli qualcosa dritto in faccia. Era un impulso che sembrava possederlo parecchie volte al secondo, in quel periodo.
 
“Dimmi quello che sai.” Gli ringhiò addosso ottenendo la sua stupita attenzione.
 
“Cosa?” Mormorò Atsumu distratto, il telefonino che vibrava di nuovo. Rivolse lo sguardo sullo schermo e mise su una faccia così schifosa che gli fece venire le carie.
 
“Su Suna.” Precisò sibilando, avvicinandosi per togliergli il borsone dalla spalla con gesto secco e buttarlo per terra senza alcun pensiero, portandolo quasi di peso sul divano. Lo scaraventò sulla seduta sformata e si fece guardare malissimo. “Dimmi quello che volevi dirmi oggi.”
 
Atsumu batté un paio di volte le palpebre, confuso. Il cellulare vibrava come impazzito, ma suo fratello lo scrutava come se cadesse dal mondo delle favole, tentando di ragionare su qualunque cosa fosse successa.
 
Poi, finalmente, comprese. E sogghignò malevolo. “Di’ un po’, com’era la torta?”
 
“Che c’entra la torta?” Come faceva a sapere della cosa più buona che avesse assaggiato da quando era venuto al mondo, considerando gli snack rubati sotto il naso stesso di Atsumu che, notoriamente, avevano il sapore di più perfetta compiacenza dell’intero universo? “Non cambiare argomento, parla!”
 
“Non l’hai capito, eh?” Atsumu schioccò la lingua con fare soddisfatto, adagiandosi sui cuscini del divano come un pascià. “L’avevo detto a Omi che non ci saresti arrivato.”
 
“Risparmiami i tuoi fallimenti, cosa intendi?”
 
“Ti farà piacere sapere che i miei fallimenti mi hanno portato ad un numero di telefono.” Gongolava, lo stronzo. Osamu strinse le mani a pugno, sentendo i palmi prudere per il fastidio. “Cosa ci ha messo vicino? Cappuccino o cioccolata calda?”
 
“Mocaccino. Aspetta, cosa ne sai?”
 
“So tutto.” Sussurrò con aria che pensava fosse misteriosa. “So ogni cosa di quel posto. Ogni orario. Ogni rischio.”
 
Osamu sbuffò. “Non ho preso il rischio del giorno, Hinata aveva lasciato la torta in cucina.”
 
“Il rischio di Sunarin per me è stato una bustina confezionata di patatine classiche e un brik di succo di frutta alla pera.” Continuò a parlare Atsumu alzando la voce per coprire le sue ultime parole, calcando sui toni per attirare attenzione. “Patatine in busta e succo di frutta, Samu. Non torta al cioccolato e mocaccino.”
 
“Cioccolato e caramello salato e non era il rischio di Suna.” Specificò secco, mentre Atsumu ridacchiava esilarato. “Addirittura salato, che sfigato. Lo devo dire a Omi.” E prese di nuovo il cellulare, cominciando a digitare qualcosa a quello che ormai sapeva fosse Sakusa.
 
Osamu lo sfilò dalle sue mani e se lo mise all’interno dei pantaloni. “Samu, che schifo!” Suo fratello lo guardava orripilato e oltraggiato insieme. “Dovrai ricomprarmelo, perché col cazzo che lo toccherò di nuovo.”
 
“Parla, bastardo.” Ringhiò Osamu, avvicinandosi di un passo. “Dimmi che c’entra la torta e ti pesterò per non avermi detto che eri compagno di corso di Suna.”
 
“Vorresti dire o.”
 
“So perfettamente quello che ho detto.” Sibilò, cominciando a scrocchiare il collo minaccioso. “Ti pesterò comunque.”
 
“Senti, non vedo perché dovrei dirti le cose!” Atsumu si alzò in piedi con fare aggressivo, uno scatto fulmineo che gli fece fare un passo indietro d’istinto. “Ti piace Sunarin, lo capisco e non lo capisco, ok, ma fa qualcosa! Non puoi aspettare che le cose ti cadano dal cielo come un cazzo di predestinato, non funziona così!”
 
Osamu si zittì, limitandosi a fissarlo confuso.
 
“Sono settimane che entro in quel locale con la speranza che sia il giorno giusto per ottenere qualcosa da Omi, una gentilezza, un interessamento, anche un cazzo di complimento sulle mie scarpe di merda e tu hai la vita facile e nemmeno te ne accorgi!”
 
Non era così. O, almeno, non del tutto.
 
Suna era … Suna.
 
Era la prima persona con cui aveva parlato quando era entrato per la prima volta nel café. Avevano legato subito, immediatamente, complici anche Atsumu e i suoi tentativi falliti di seduzione, ma non pensava che … che cosa?
 
Che gli piacesse?
 
Suna gli piaceva. Eccome se gli piaceva. Aveva lasciato gli occhi sulle sue gambe dall’inizio, sulla sua faccia subito dopo, poi sulla sua testa. Furba, ironica, silenziosa e sottile.
 
Era la prima persona che cercava quando entrava nel locale, poteva ammetterlo. Molte volte era l’unica.
 
Sapeva perfettamente i suoi orari di lavoro, ogni momento era buono per passare del tempo con lui, a chiacchierare, a discutere, in silenzio, mentre studiava o quando Suna voleva solo riposarsi un po’. Si toglieva il grembiule e si accasciava sulla sedia subito accanto a lui, avvicinandola e toccando la spalla con la sua.
 
Gli piacevano quei momenti. Gli faceva venire voglia di poterli avere anche fuori di lì, lontano da impegni lavorativi e orari castranti.
 
“La torta non era di Hinata, coglione.” Osamu batté gli occhi, sentendo nitida la voce di Atsumu dopo secondi in cui alle sue orecchie era solo mormorio confuso. “L’ha fatta Suna, l’ha fatta per te. Era il suo rischio del giorno e ha passato tutta la mattina a tentare di accostare una bevanda che andasse bene.”
 
Cioccolato e caramello salato.
 
Zucchero puro tagliato con cristalli di sale e cacao amaro.
 
Battute salaci e piccole gentilezze silenziose.
 
“Era buonissima.” Mormorò Osamu, sentendo il cuore battere agitato, una nuova consapevolezza che si faceva strada nella sua mente. “Era la cosa più buona che avessi mai mangiato.”
 
Atsumu si calmò, lo sguardo leggermente corrucciato. Ad Osamu non importava.
 
Era più preoccupato per le considerazioni fulminee che gli stavano attraversando il cervello.
 
Il primo sguardo che cercava, lo scherzo condiviso, lui sempre presente.
 
C’era mai stata una volta in cui non aveva trovato Suna nel café?
 
Era capitato. Aveva scelto di non entrare per niente, decidendo che non aveva voglia di spuntini quel giorno. Una ricerca inconsapevole che lo aveva spinto a riprendere la macchina e tornarsene a casa, lasciandolo il resto della giornata contrariato e indispettito.
 
Non avevano ancora scambiato il numero, allora.
 
Quando lo fecero, dipese da Osamu: era più facile continuare prendere in giro Atsumu anche quando non potevano vedersi. In quel momento, comprese che Atsumu era solo il mezzo per poter avere un suo contatto esterno, qualcosa di lui che esisteva al di fuori del café, che poteva avere senza doverlo condividere con colleghi e clienti.
 
Nel cellulare erano solo loro due: una chat privata in cui parlavano di tutto, si conoscevano, si scoprivano.
 
Zucchero puro tagliato con cristalli di sale e cacao amaro.
 
Parole allusive e domande personali mascherate d’indifferenza.
 
“Ti sta prendendo un colpo?” Lo voce di Atsumu non era fastidiosa, in quel momento. Riusciva a scorgerla appena, troppo preso dal mettere insieme tutto.
 
Aveva studiato spesso al café. Agli inizi delle lezioni ma, soprattutto, alla fine, quando si stava avvicinando l’esame, il bisogno di un posto tranquillo e comodo dove potersi concentrare.
 
Ricordava gli spuntini distribuiti tra le ore, piccole pause che Suna lo obbligava a prendere per non affaticarsi troppo, per riprendere energie, il pretesto perfetto per smettere di lavorare e potersi rilassare qualche minuto.
 
C’era sempre quel bisogno di fondo, quello della sua compagnia e, adesso riusciva a vederlo, lo aveva accompagnato per tutto il tempo.
 
Tutto il fottutissimo tempo.
 
“Senti, non voglio vederti collassare, non saprei farti rinvenire.”
 
“Che ore sono?” Lo bloccò Osamu, prendendo il telefono di suo fratello da dentro i pantaloni e guardando l’orario. “Perfetto, è ancora aperto.”
 
“Che stai dicendo?” Atsumu venne zittito dal cellulare lanciatogli in grembo. Seguirono versi schifati. “Devi ricomprarlo, non lo tocco!”
 
“Ha vibrato tutto il tempo, Sakusa si starà chiedendo perché lo ignori. Dove sono le chiavi della macchina?”
 
“È profondamente sbagliato masturbarti con Omi che mi manda i messaggi, porco!”
 
“Non rompere il cazzo e dammi le chiavi!”
 
Atsumu le prese nelle tasche dei pantaloni e gliele lanciò. “Non fare danni e sbrigati.” Gli disse mentre apriva la porta. “Manca poco alla chiusura, ma se ti fai vedere ti fanno entrare!”
 
 
*
 
 
Quando arrivò, la serranda era quasi del tutto chiusa. Rimaneva una striscia aperta, quel tanto che permetteva di bloccare la porta da avventori notturni e rimanere a sistemare in tranquillità. La luce infati era ancora accesa e Osamu poteva sentire la voce di Kuroo che filtrava ovattata, la sua risata ragliante che spezzava la calma della sera.
 
Si abbassò, cercando di farsi notare dal piccolo spazio lasciato libero dalla porta a vetri.
 
Poteva vedere Kuroo e Tsukishima al bancone del bar, intenti a fare qualcosa con la schiuma di latte con aria concentrata e risate occasionali. Bussò sul vetro forte, riuscendo ad ottenere l’attenzione di entrambi.
 
“Osamu-san, è chiuso.” Sogghignò malefico Tsukishima, tirando su gli occhiali sul naso e guardandolo con occhi dispettosi. “Non conosci l’orario? Oh, aspetta, lo sai perfettamente.”
 
Grandissimo bastardo.
 
Kuroo allargò il suo sorriso e Osamu socchiuse gli occhi, sospirando. “C’è Suna?” Domandò, perché arrivare al punto era in quel caso la decisione migliore. “Devo parlargli.”
 
“Sembra che sia l’unica cosa che facciate.” Continuò Tsukishima incrociando le braccia. “È una conversazione particolare?”
 
“Magari deve chiedergli se può allentare la presa dalle sue palle.” Kuroo si inserì e Osamu si sentì sconfitto prima ancora di essere riuscito ad ottenere qualcosa.
 
“Oppure di stringerle in altra maniera.”

“Woohoo! Tsukki!” Kuroo scoppiò a ridere con quella sua risata ragliante e Tsukishima inorgoglì il suo ghigno malefico.
 
Osamu non voleva parlare con loro. Almeno non con loro due insieme.
 
L’accoppiata Kuroo-Tsukishima era fatta dai demoni più stronzi esistenti per far scoppiare a piangere la persona media e capitava, con suo sommo dispiacere, nell’unico pomeriggio in cui non erano presenti né Sakusa né Akaashi per riuscire ad appianare gli animi.
 
Non pensava di dirlo, ma quasi gli mancava Sakusa. Quel Sakusa che solo poche ore prima lo aveva preso in giro impunemente per il sapone mangiato. Lo stesso Sakusa che gli aveva fatto vibrare i pantaloni con i messaggi che mandava a suo fratello.
 
Avrebbe sistemato tutti con un sibilo felino e qualche insulto ben piazzato in meno di cinque secondi, poi lo avrebbe deriso personalmente, ma almeno gli avrebbe permesso di entrare in relativa rapidità.
 
Sbuffò, perché quelle risate stavano durando un po’ troppo per i suoi gusti e il suo orgoglio non era così integro da poterle sopportare a lungo. “Ragazzi, aprite questa cazzo di porta.”
 
“Ti è piaciuta la torta.” Kuroo camminò fino a lui, accovacciandosi per trovarsi faccia a faccia. Era diventato serio, anche se quel sorriso leggero rimaneva stampato sulla sua faccia a nascondere quello che pensava davvero.
 
Osamu ringhiò. “Lo sai. C’eri.” Era entrato e aveva fatto una battuta che aveva capito solo in quel momento.
 
Si sentì un idiota per esserci arrivato evidentemente per ultimo, dal momento che anche Tsukishima lo schernì con un verso che chiedeva pugni. “Fammi entrare.”
 
Kuroo assottigliò ancora di più quegli occhi lunghi e naturalmente stretti, valutandolo. Osamu non era disposto a stare sotto quello studio. “Kuroo, devo parlargli. È importante.”
 
Lo valutò per qualche altro secondo, poi sembrò vedere qualcosa nella sua faccia. Che cosa non lo sapeva, ma Osamu avrebbe preso qualunque cosa gli potesse offrire. La porta venne aperta e Osamu scivolò sotto la serranda, entrando nel locale e cominciando a camminare. “È nel retro.” Lo informò Tsukishima vedendolo prendere la strada per il bagno.
 
Osamu lo guardò di sbieco e aggiustò la traiettoria, passando dietro il bancone per prendere la porta secondaria che sapeva portava all’area dei dipendenti.
 
Non fece in tempo a varcare la soglia che Tsukishima lo bloccò. “Ah, Osamu-san, una cosa.” Osamu lo guardò confuso e Tsukishima sogghignò. “Non fate nulla davanti al re delle meringhe, potreste bloccargli la crescita.”
 
Quindi c’era Kageyama con Suna. Perfetto. “Oppure insegnategli qualcosa, ha il cervello mononeuronico e gli sarebbe utile ampliare le sue conoscenze.” Continuò montando il latte per un altro cappuccino.
 
Osamu non rispose, limitandosi ad arricciare il naso di disgusto e varcando la porta.
 
Non era mai stato nel retro del locale. Non ce n’era mai stato bisogno, era un cliente. Non sapeva bene cosa avrebbe potuto trovare, ma c’erano solo dei ripiani in acciaio pieni di prodotti: scatole di varie dimensioni, sacchi con etichette ben in evidenza, sicuramente delle varie tipologie di caffè.
 
La luce era una striscia di neon che rischiarava a freddo tutto, gli scatoloni troppo grandi per poter rientrare negli scaffali erano poggiati a terra, sistemati filo muro, insieme alle casse in legno chiuse.
 
Davanti ai prodotti, concentrato a catalogarli con attenzione, c’era Kageyama. Poteva vederlo guardare truce la cartella piena di fogli che teneva in una mano, la penna nell’altra ad indicare qualcosa tra gli scaffali, l’espressione sempre più arrabbiata.
 
“Manca lo zucchero.” Lo sentì sbottare con sicurezza, come se non ci fosse alcun dubbio. “Doveva stare qua e non c’è.”
 
“Lo zucchero sta dietro.” La voce di Suna, distratta e annoiata, si sentì forte e chiara da dietro uno scaffale particolarmente pieno.
 
Osamu fece un passo, uno solo, e venne notato immediatamente da Kageyama. “Non possono entrare i clienti.” Lo informò con un’occhiata laterale, riportando subito l’attenzione sulla sua ricerca. “Osamu-san, come sei entrato?”
 
“Cercavo Suna.” Sentì il diretto interessato ridacchiare e davvero, sembrava non avere l’intenzione di fare nulla per dargli una mano.
 
“Rimane un posto per i non addetti ai lavori.”
 
“Ma lui è l’assaggiatore ufficiale.” Mormorò Suna e Osamu avanzò sicuro, trovandolo seduto su una cassa di legno di dimensioni ragguardevoli, le gambe a ciondolare e il fidato cellulare sulla mano. “È un dipendente ufficioso.”
 
Kageyama lo scrutò per un secondo, poi alzò le spalle e continuò a catalogare. “Sicuro che lo zucchero sta dietro?”
 
“Forse è meglio che esci.” Tentò Osamu, venendo fulminato da un’occhiataccia che non si aspettava. “Non voglio stare qui tutta la notte.” Sibilò Kageyama, che giustamente aveva di meglio da fare che rimanere a lavoro oltre l’orario di chiusura. “Vai via tu.”
 
Il problema era che Osamu non era un tipo da prendere ordini facilmente, men che meno da uno con la faccia inutilmente incazzata come Kageyama. Veniva da un faccia a faccia osceno con suo fratello, che aveva il potere di attivargli i nervi con una parola scarsa nemmeno fossero collegati con un interruttore, si era sorbito le prese in giro di Kuroo e Tsukishima e gli giravano discretamente le palle, sicuramente alimentate dalla risatina malefica di Sakusa che, occasionalmente, gli rimbombava in testa e, davvero, la sua pazienza era agli sgoccioli. Non voleva prendersela con Kageyama quando, alla fine, stava facendo solo il suo lavoro, ma un’altra risposta del cazzo e sarebbe scoppiato.
 
Non fece in tempo nemmeno ad aprire la bocca che finalmente Suna intervenne. “Faccio io, puoi tornare in sala.”
 
“È il mio turno.”
 
“Vuol dire che farai il mio la prossima volta.” Osamu vide Kageyama spostare lo sguardo tra lui e Suna, più volte. Poi la sua espressione si schiarì di comprensione e arrossì leggermente. “Sì, ok, sparisco.” Mormorò, passandogli vicino a scoccandogli un’occhiataccia che Osamu non era sicurissimo di meritare.
 
La porta si chiuse e rimasero solo loro due.
 
Suna ridacchiò ancora e poggiò il cellulare su quella seduta improvvisata, mettendo le mani dietro il corpo e dondolando le gambe. “Allora, carissimo cliente.” Cominciò, la voce perfetta per prendere in giro le persone. “Hai violato la sacra soglia dell’area dipendenti, c’è un motivo?”
 
“Diversi, in realtà.” Leccò il labbro inferiore e si avvicinò, guardando Suna senza vederlo davvero.
 
Non aveva organizzato un discorso.
 
Osamu non organizzava mai i discorsi, non aveva mai dovuto risolvere situazioni tali da dover organizzare un discorso, non aveva mai pensato di farlo per gli esami e, sicuramente, la seduta di laurea si sarebbe sviluppata allo stesso modo. Avrebbe scritto la sua tesi, l’avrebbe studiata fino all’ultima virgola e poi si sarebbe scordato tutto nel momento clou, facendo andare la lingua come se l’argomento fosse la sua seconda natura, privo del filo logico su cui si era concentrato fino a quel momento ma con risultati sicuramente più soddisfacenti.
 
In quel momento, però, la lingua sembra non voler collaborare.
 
Sembrava incollata al palato, la sentiva densa e piena, un corpo estraneo che non riconosceva. E lui, con la sua lingua, aveva un ottimo rapporto. Perfetto, quasi, se non fosse stato per tutte le volte che la ustionava assaggiando cibi veramente troppo caldi.
 
Aprì appena la bocca e la rinfrescò d’aria, portando la lingua di nuovo al labbro inferiore, spingendolo forte contro i denti.
 
Non aveva organizzato un discorso e non sapeva che cosa dire.
 
Ma era pienamente consapevole di cosa dovesse succedere.
 
“La torta era buona.” Sputò di getto, sentendo quel muscolo inerme nella sua bocca scandire a fatica le parole. Si schiarì la gola e ingoiò un po’ di saliva che si era raggruppata sul palato molle. “Molto buona.”
 
“Lo so, sei quasi venuto sulla sedia.” Scoccò uno sguardo malevolo a Suna, vedendolo gongolante su quella cassa di legno.
 
“Non hai capito.” Tentò di nuovo, lentamente. “La torta. Era buona.”
 
Suna batté le palpebre. “Ok.” Si bloccò un attimo e Osamu pensò di aver vinto. “Non capisco, ne vuoi un’altra fetta?”
 
“La torta, cazzo, la torta!” Ringhiò, perché non riusciva a dire altro e Suna non voleva collaborare. “Era fottutamente buona!”
 
“Non ti incazzare con me senza motivo, hai litigato di nuovo con tuo fratello?”
 
Osamu inspirò pesantemente, espirando poi forte di bocca.
 
Non era mai stato bravo a esternare cose. Non era Atsumu.
 
Lavorava di gesti, di pensieri, di sguardi. Era a suo agio in quel modo, facendo capire senza dover parlare, ma Suna, al solito, aveva ribaltato la situazione in una maniera che non si aspettava.
 
“Quando è stato il tuo rischio del giorno?” Domandò piano e vide Suna muovere la mano d’istinto, tentando di prendere il cellulare. “Fermo.” Lo bloccò, avvicinandosi e afferrandogli forte il polso. Suna lo guardò stupito. “Lascia perdere il telefonino e rispondimi. Quando è stato il tuo turno?”
 
Lo vide raddrizzarsi, scostando il braccio dalla sua presa. Adesso era seduto, la schiena curva in avanti e gli occhi puntati sulla cover del telefonino. “Oggi. Ma perc-”
 
“E in cosa consisteva?”
 
Suna aggrottò lo sguardo, scrutandolo. “Non capisco il bisogno di tutte queste domande.” Tentò di scendere dalla cassa ma Osamu lo bloccò di nuovo. Suna sbuffò. “Samu, che sei venuto a fare?”
 
“So che non era la torta -”
 
“Non hai chiesto il rischio del giorno, mi sembra, perché avrei dovuto portartelo?” 
 
“- ma l’hai fatta per me.”
 
Quello lo zittì del tutto. Lo vide stringere le labbra e indurire lo sguardo, farsi più severo. Provò a scivolare di lato, sfuggendo alla sua presenza ma Osamu si mise tra le sue gambe immobilizzandolo. “So che l’hai fatta per me perché me l’hanno detto.”
 
“Chi?” Ringhiò Suna e Osamu avrebbe preferito mangiare vermi saltellanti presi a manciate direttamente dal fango piuttosto che ammettere che il suo idiota di gemello gli avesse aperto gli occhi. “E ci ho creduto perché era quanto di te potesse esserci in un fottuto dolce.”
 
Lo vide guardarlo serio, il respiro così piatto che sembrava non respirasse affatto. Aveva la bocca stretta in una linea, gli angoli leggermente all’ingiù e quegli occhi scrutarlo dentro come a volerlo avvelenare. “Ti ho riconosciuto, là dentro.” La voce gli uscì bassa ma decisa. Un sussurro che nel silenzio del magazzino, rotto solo dal ronzio del neon, sembrava urlato. “Eri tu in ogni ingrediente, in ogni accostamento e mi è piaciuto così tanto che non volevo smettere di mangiarlo.”
 
Suna aprì poco le labbra, forse per parlare, forse per altro, ma Osamu lo zittì. “Il sale e lo zucchero, cioccolato fondente e croccanti di caramello, tutto. Eri tu e non so nemmeno spiegarlo, ma dentro di me l’ho capito prima che Atsumu mi dices-”
 
“Atsumu?” Chiese a bruciapelo e Osamu si morse la lingua, sentendo la faccia in fiamme. Lo vide sogghignare lentamente e capì che era fottuto. “Te l’ha dovuto spiegare Atsumu?”
 
“Non è andata così!”
 
“Atsumu? Seriamente? Atsumu?” E scoppiò a ridere, scuotendo la testa e guardandolo esilarato. “Oh mio Dio, non ne usciremo mai.”
 
Era bello.
 
Lo aveva sempre saputo, dalla prima volta in cui gli aveva poggiato gli occhi addosso, ma vederlo lì, a prenderlo in giro senza vergogna, sapeva che bello era solo la punta dell’iceberg.
 
Gli occhi erano ancora più stretti, le palpebre quasi chiuse su quelle pupille talmente chiare da sembrare vetro colorato, le ciglia ad incastrarsi e bagnarsi di lacrime involontarie. Il viso divenne rosato, non sapeva se per la situazione o per la sua spiegazione sconclusionata, ma il sangue colorava appena la pelle e, anche sotto la luce fredda del neon, sembrava illuminarlo di calore e piacere. La bocca era stirata, aperta, a scoprire denti bianchi e accenni di lingua che non lo facevano pensare bene.
 
Sì, bello non era abbastanza.
 
Era stupendo, formidabile, acuto, fantastico.
 
Si avvicinò a lui e prese le sue labbra, le braccia ad ingabbiarlo e la bocca ferma sulla sua, il suo odore che entrava nel naso e gli faceva girare la testa.
 
Non aveva previsto un discorso, Osamu era una di quelle persone che si muoveva di pancia. Baciarlo era quanto di più naturale e istintivo potesse accadere.
 
Suna rispose immediatamente, lasciandolo entrare e prendendo la sua lingua, inspirando forte ed avvicinandosi con il torace, alzando le braccia per portare le mani sulle spalle, sul collo, sulle guance.
 
Era meglio di come potesse immaginare, appassionato e subdolo, la lingua a stuzzicare infida ed accenni di denti a calmarlo, spingendolo a rallentare, sentendoli aguzzi sulle labbra un solo secondo prima di aprire più la bocca, cercando di farsi più vicino.
 
Osamu girò appena la testa approfondendo il bacio, le guance incavate per cercare di sentirne di più, le mani che abbandonavano la cassa e lo prendevano per i fianchi, portandoselo addosso e sentendo i polpacci costretti d’improvviso dalle gambe di Suna, facendogli sbattere le ginocchia al legno scheggiato.
 
Era un po’ scomoda quella posizione, ma era troppo preso da Suna per far caso a cazzate del genere.
 
Non sapeva quanto tempo l’aveva voluto, come un completo idiota. L’urgenza lo aveva preso nel momento in cui capì, finalmente, di essergli morto dietro da quando lo aveva conosciuto, quella mattina in pigiama e i ragionamenti rallentati.
 
Ed era tutto, adesso, era tutto quello che non aveva visto fino a quel momento, tutto dietro le sue palpebre schiacciate, sotto i palmi delle sue mani, contro il naso e la bocca e il bacino che cercava e pretendeva. “Dio.” Ansimò un secondo solo, prima di ritornare di nuovo sulle sue labbra sottili e morderle, gonfiandole un po’ di più, un rosso più scuro che voleva assaggiare ancora, ancora, ancora. “Dio, dobbiamo fermarci.”
 
“Tu sei matto.” Suna lo afferrò per le guance e se lo riportò addosso, andando avanti di fianchi e stringendo la presa sui suoi polpacci, schiacciandolo contro di lui e il legno della cassa. “Ci hai messo secoli a capire, stronzo, adesso che ti ho sotto mano non ti lascio andare.”
 
Osamu rise e lo abbracciò per la vita, rallentando il bacio in qualcosa di più languido, saliva più controllata e denti dietro le labbra. “Non possiamo rimanere qui.”
 
“Lo dici tu.” Suna leccò la cucitura del suo sorriso cercando di spingere, venendo accolto con un sospiro soddisfatto. Si prese il suo tempo per memorizzare la sua bocca – l’arcata interna dei denti, il palato duro, la morbidezza viscida dell’interno delle guance –, staccandosi un secondo per sussurrare roco. “Battezziamo ogni fottuto tavolo.”
 
“Ci sono gli altri sopra.” Questo sembrò congelarlo, gli occhi aperti con forza e il sogghigno abbandonato a favore di una smorfia terrorizzata. “Quanti sono?” Domandò corrugando le sopracciglia, come se la risposta avrebbe potuto gettare le basi per un raggiro in piena regola della situazione.
 
“Beh, Kageyama e ho lasciato Kuroo e Tsukishima a fare qualcosa con la macchina del caffé.”
 
“Merda.” Imprecò nel momento stesso in cui terminò di parlare e Osamu ridacchiò, affondando il naso nel suo collo. “Siamo fottuti.”
 
“Io mi sono già immolato per venire qui.” Lasciò un bacio tenero all’incavo del collo, sulla pelle tenera che si formava naturalmente con la clavicola e lo sentì rabbrividire leggermente.
 
“Pensi davvero che ti lasceranno in pace?” Lo spinse piano per il mento fino a riportarlo davanti la sua faccia. “Non uscirai di qui vivo.” Lo disse sulla sua bocca, alito caldo e umido e invitante e cazzo, sarebbe morto volentieri.
 
“È omicidio preterintenzionale.” Sussurrò serio, guardando i suoi occhi lucidi e sentendo la sua risata prima ancora delle sue labbra, ricominciandolo a baciare senza smontare il sorriso. “È illegale.”
 
“È illegale che ci sia voluta una fottuta torta a farti smuovere qualcosa.” Lo spinse allo sterno per allontanarlo, l’aria piccata ma divertita. “Ti rendi conto? Cibo!
 
“Il cibo è la chiave di tutto.”
 
“Sei vergognoso, farti spiegare le cose da Atsumu.” Scosse ancora la testa e ricominciò a ridere di fronte alla sua faccia distrutta. “Non so se voglio uscire con te dopo questa cosa.”
 
“Dovrai farlo, anche solo per sbattergli in faccia che lui con Sakusa non riesce a combinare nulla.”
 
“Hai capito adesso perché non ho mai voluto avvelenare il tuo milkshake?” Portò una mano dal suo sterno al suo addome, le unghie che passavano lente sul cotone spesso della felpa. Lo sguardo gli si illuminò di malizia. “Per questo e per il pacco da sei.”
 
“Non sai ancora se ho gli addominali.”
 
“Ti gratti la pancia troppe volte quando sei stanco e ho l’occhio lungo.” Gli fece l’occhiolino e Osamu sbuffò una risata, cercando di pensare a quando aveva dato spettacolo. “Andiamo, dovremo uscire prima o poi.”
 
“Facciamo poi.” E lo baciò di nuovo, l’intenzione di muoversi ben lontana.
 
 
*
 
 
“E sono riusciti ad uscire!”
 
“Kuroo-san, così va bene il latte?”
 
“Dobbiamo sanificare l’intero magazzino, non voglio esserci quando dovremo riferirlo a Sakusa-san.”
 
Kuroo cominciò a battere le mani sotto lo sguardo confuso di Kageyama, iniziando cori da stadio che non trovarono il seguito che sperava. Kageyama passò gli occhi da Kuroo a loro, cercando di non soffermarsi sulle facce arrossate e sulle bocche gonfie, i capelli sicuramente indecenti. Tsukishima li guardava schifato e basta.
 
“State sprecando tutto il caffè della scorta?” Domandò Suna con nonchalance, avvicinandosi per guardare i disegni che stavano creando con la schiuma di latte sui cappuccini. “Questo sembra una farfalla. Chi l’ha fatta?”
 
“Una farfalla?” Tsukishima si avvicinò con sguardo corrucciato, l’espressione oltraggiata di chi veniva offeso nel profondo. “Volevo fare un culo.”
 
“Ti è uscito malissimo, rifallo.”
 
“Kuroo-san, va bene così?”
 
Kuroo si avvicinò all’opera di Kageyama e schioccò la lingua. “Non ci siamo, mancano le palle.”
 
Osamu si permise di intervenire. “Cosa state facendo?” Domandò, allungando il collo per vedere da sopra la spalla di Kageyama. Là, sulla cima cremosa del cappuccino, si ergeva fiero un fallo evidentemente disegnato con il solo ausilio della schiuma, un sano lavoro di polso e di esperienza. Effettivamente, i testicoli mancanti lo rendevano simile al corpo di un pesce, brutto come la fame e senza coda e pinne.
 
“Facciamo disegni discutibili.” Ridacchiò Kuroo. Tsukishima si rimise di buona lena a scaldare altro latte, ben deciso a disegnare i suoi glutei personali. “L’hai mai fatto?”
 
“Perché avrebbe dovuto, non ha mai lavorato in una caffetteria.” Mugugnò Suna sedendosi su uno sgabello alto, le braccia appoggiate al bancone.
 
“Gli hai permesso di fare di tutto, mi aspettavo un giorno o l’altro di trovarlo alla cassa.”
 
“Non l’ho mai fatto.” Si inserì Osamu, perché se Kuroo avesse iniziato Tsukishima gli sarebbe andato sicuramente dietro e la sua dignità era stata calpestata precedentemente in modo indiscutibilmente orrendo per poterne sopportare ancora. “Mi fai vedere come si fa?”
 
Suna gemette e Kuroo sogghignò, gli occhi brillanti di sfida. “Sicuro. Prendi una tazza e riempila, ti insegno a disegnare un cazzo enorme.”
 
Osamu sbuffò ma fece come gli era stato ordinato, preparando caffè e latte montato per la sua futura discutibile opera d’arte.
 
Mentre il macchinario lavorava, scoccò uno sguardo a Suna, accasciato sul bancone ed intendo a guardarlo.
 
Sorrise.
 
Non avevano parlato per niente, erano stati soli troppo poco tempo nel magazzino, ma di una cosa Osamu era certo.
 
Lo avrebbe portato ad un appuntamento nel momento in cui fossero riusciti ad uscire dal locale, avrebbe comprato cibo da asporto e lo avrebbero mangiato al parco, sulle altalene per i bambini invece di un ristorante con sedute comode, ma l’orario non gli permetteva chissà quale tentativo di stupore.
 
Gli occhi di Suna si strinsero e poté vedere un affetto che, in quel momento, riuscì a riconoscere. Gli era stato rivolto tantissime volte ma non gli aveva mai dato la giusta considerazione.
 
Il caffè uscì e Osamu si girò per controllare il tutto, la lingua sul labbro per cercare tracce del suo sapore.
 
Era ancora là, notò con sollievo. Poteva ancora assaggiarlo.
 
Si avvicinò a Kuroo e lo guardò spingere il latte montato nel caffè, trasformando il tutto in cappuccino e iniziando la sua magia.
 
Ma Osamu non riusciva ad ascoltarlo, troppo concentrato sul ragazzo che inspirava e sorrideva promesse seduto sullo sgabello, gli occhi stretti e i capelli a circondargli il viso.
 
Sarebbero usciti da lì e sarebbero stati insieme senza far nulla, vagando per la città senza scopo e senza meta. Avrebbe dovuto avvertire Atsumu, pensò con un pezzo di mente. Si sarebbe sorbito prese in giro a manetta e gli avrebbe chiuso il telefono in faccia.
 
Ma non gli interessava.
 
Adesso era tutto suo.




 
   
 
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