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Autore: crazy lion    12/07/2022    1 recensioni
[Danielle Steel]
Questa fanfiction si ispira al libro Il momento giusto. Non è necessario averlo letto per capirla.
Alexandra fa la scrittrice di thriller da molti anni. Ha perso il marito Miles a causa di una malattia e ha una bellissima bambina: Desirée. Nel libro, ricomincia a scrivere cinque anni dopo la morte di Miles. E se invece lo facesse prima? Se cambiasse genere e scrivesse qualcosa per sua figlia? E come si svilupperà il loro rapporto?
Disclaimer: i personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Danielle Steel. La storia non è a scopo di lucro.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Desirée
 
Alexandra si svegliò presto, quella mattina di giugno. Ancora una volta aveva sognato rendiconti bancari e bollette. Abitava nel Dorset, nella fattoria del marito, che però aveva molti debiti, e lei stava cercando di ripagarli. Aveva trovato un aiuto per la bambina in Maud, una ragazza del posto, venduto i cavalli, ma tenuto i cinque purosangue, e ipotecato la fattoria. Gli unici introiti che aveva erano quelli dei suoi vecchi libri. Miles era morto quando la loro figlia, Desirée, aveva solo cinque giorni, a causa di un tumore al pancreas che aveva intaccato il fegato e un rene. Soffriva ancora per la sua scomparsa, ma occuparsi della bambina la aiutava.
La sentì piangere dalla stanza accanto e andò a controllare.
“Desi” mormorò, e si avvicinò al lettino.
“Mamma” rispose la piccola, che smise di piangere e le sorrise.
Quando l'aveva detto la prima volta, un anno e mezzo prima, era sul seggiolone e aveva appena finito di mangiare la minestra con l'omogeneizzato. Alex era scoppiata a piangere, lacrime sia di gioia che di dolore, perché Miles non avrebbe mai sentito quella parola. Quando aveva pronunciato “Papà”, qualche giorno dopo, la donna le aveva mostrato una sua fotografia.
“Questo è papà. Non c'è più, ma ti vuole bene.”
Ma quello non era un giorno per pensare ai debiti da pagare. Era il compleanno di Desirée e lei voleva festeggiarlo al meglio.
“Buon compleanno, tesoro” le disse Alex, dopo averle cambiato il pannolino.
Glielo metteva ancora, anche se aveva deciso di toglierglielo durante il giorno entro qualche mese, in modo che la bambina si abituasse a non averlo più addosso e a dire quando le scappava.
Non fecero grandi cose, quel giorno. Camminarono per la fattoria e per le scuderie. La donna diede da mangiare ai purosangue, poi li accarezzò e li fece toccare alla figlia. Le due si sedettero sull'erba del prato e mangiarono tramezzini al prosciutto e funghi che la mamma spezzettò per la figlia. Poi andarono nel cimitero dietro la fattoria a trovare Miles.
“Ciao ciao” disse la bambina guardando la foto. “Ciao ciao papà.”
Ad Alex sfuggì una lacrima. L'aveva riconosciuto e salutato.
“Ciao Miles. Ti amo! Spero che tu sia felice in Paradiso, assieme ai miei genitori. Sto facendo di tutto per tenere la fattoria, come tu avresti voluto.”
Ogni tanto i figli di Miles, che aveva avuto da un precedente matrimonio, Madeleine e Duncan, venivano a trovarla ed erano sempre felici di giocare con la sorellastra.
Alex e la bambina tornarono in casa. Era pomeriggio e la mise a letto. Si sedette alla scrivania, davanti alla macchina da scrivere, decisa a produrre qualcosa. A diciannove anni, ora ne aveva trentaquattro, aveva scritto il suo primo libro, un thriller. Da allora, la sua carriera era decollata. Ne aveva scritti molti altri, con lo pseudonimo Alexander Green. Era stato suo padre, Eric, a consigliarle di scrivere con uno pseudonimo maschile, perché diceva che nessuno avrebbe creduto che una donna sarebbe stata così brava a scrivere thriller. Così, quando era uscita a cena con qualche uomo, aveva dovuto fingere di essere l’assistente di Alexander Green, e la casa editrice si era inventata una storia sulla vita di questo personaggio fittizio. Quando qualche uomo le chiedeva di incontrare Alexander, lei inventava delle scuse. Aveva avuto qualche relazione, sia con scrittori che non, ma erano tutte finite, a parte quella con Miles, l’unico uomo che avesse mai amato. Lo rivedeva tutti i giorni nei capelli biondi della figlia, come quelli di lui, mentre Desirée aveva preso la bellezza e gli occhi verdi della mamma.
Si era persa nei suoi pensieri e non aveva scritto nulla. Provò a scrivere qualche frase.
Lawrence camminava per la strada, di notte. Aveva dieci anni ed era sgattaiolato fuori dalla porta dopo un litigio con la madre. Ogni tanto qualche macchina si fermava e gli chiedeva se aveva bisogno di qualcosa, ma lui rispondeva sempre di no.
“Pezzo di merda!” urlò un uomo a poca distanza.
Il bambino si avvicinò. Quello che aveva urlato era incappucciato, lo vide, poi sparò all'altro. Questi crollò a terra, morto, mentre il sangue schizzava fuori dalla sua testa. Lawrence urlò e scappò, ma l'uomo lo inseguì impugnando un coltello.
Alex tirò fuori il foglio con ciò che aveva scritto, lo appallottolò e lo buttò nel cestino. Non era male, ma i suoi libri erano molto più violenti, di solito, mentre quello sembrava un thriller per ragazzi. In ogni caso, quella non era un'idea da scartare. Se la appuntò su un foglietto:
Scrivere una storia di un ragazzo che assiste a un omicidio e l'assassino gli dà la caccia.
Desirée stava piangendo, così corse a prenderla e la cullò fra le sue braccia. La cambiò e, in quel momento, suonò il campanello.
“Un momento!” urlò Alex, che stava chiudendo il pannolino della bambina, che non ne voleva sapere di rimanere ferma.
Si precipitò alla porta con lei in braccio e si sorprese nel vedere Duncan e Madeleine davanti al cancello.
“Entrate” disse, e lo aprì.
Sarebbe stato bello festeggiare il compleanno di Desi con loro. Anche loro erano biondi come il padre.
“Ciao!” Madeleine diede un bacio ad Alex e prese in braccio la piccola dopo aver chiesto il permesso. “Ciao, bellissima” le disse.
Dopo aver salutato anche Duncan, Alexandra li fece accomodare al tavolo della cucina. I due fecero gli auguri a Desirée, che si trovava bene tra le braccia di Madeleine, benché non la vedesse spesso.
“Volete qualcosa da mangiare?” domandò Alex.
“Sì, grazie” disse Duncan.
Lei tirò fuori patatine e arachidi salate e le mise in due ciotole. I tre mangiarono e ogni tanto Madeleine dava un'arachide alla bambina, oppure le spezzava una patatina per fargliela mangiare. Intanto, Alex aveva messo in forno una torta al cioccolato, del quale si sentiva il profumo in tutta la cucina.
“Dov'è tuo marito?” chiese a Madeleine.
“A casa. Ha detto che era giusto che fossimo solo noi fratelli e te.”
Aveva ancora al dito l'anello con il brillante che li fidanzato le aveva regalato per il fidanzamento, cosa che Miles aveva trovato volgare. Ad Alex piaceva, anche se non avrebbe mai voluto che Miles spendesse così tanti soldi per lei.
“Io sono fidanzato” disse Duncan. “Si chiama Ariel e ha venticinque anni.”
“Quando ce la presenterai?” le chiese la sorella.
“Quando le cose saranno più serie.”
I tre conversarono del più e del meno e i due fratellastri di Desirée scattarono un'infinità di foto con le loro Polaroid.
“E' bellissima” continuavano a dire. Poi Madeleine andò a giocare con lei.
 
 
 
“Ma che belle bambole!”
“Pincipesse” disse la piccola.
Principesse, tesoro,” la corresse la ragazza, “si dice così.”
Ma Desirée non riusciva ancora a pronunciare la r.
“E dove vivono, queste belle principesse?”
“Tello” rispose la bambina.
“Più principesse in un castello? Wow! E i loro principi?”
“Quetti.”
La bambina le mostrò che, oltre alle Barbie, aveva anche tanti Ken, tutti vestiti in jeans e maglietta.
“Non sembrano dei principi, ma comunque sono belli” disse Madeleine. “Li facciamo sposare?”
Decisero con che Barbie abbinare un Ken. La bambina aveva anche delle piccole bamboline.
“Oh, i loro figli!” esclamò Madeleine.
Ne fecero avere uno a una coppia e due a un'altra.
“La mamma avrà da fare con i bambini.”
“Latte” disse Desirée.
“Sì, deve dare al bambino il latte.”
Giocarono tutto il pomeriggio. Prepararono un finto tè per le bambole, mentre Alex parlava in cucina con Duncan.
“Vuoi tè?” gli chiese la piccola.
“No. Sono, uhm, allergico al tè.”
“Ergico?” chiese la bambina.
“Vuol dire che non può berlo perché gli fa male” le spiegò Alex.
“Oh” rispose la piccola.
“E dai, Duncan, non essere così serio” lo rimbrottò la sorella. “Non lo sei mai, ti piace divertirti, e non è vero che sei allergico al tè.”
Si riferiva al fatto che a Duncan piaceva passare molto tempo con gli amici.
“E va bene, Desirée, dammi il tè.”
La bambina, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro, gli passò una tazzina e un cucchiaino, entrambi di plastica.
“Cotta” lo avvertì.
“Scotta? Nessun problema.” Sorrise per quel verbo sbagliato. “Mmm, è buonissimo!”
Per cena mangiarono la torta al cioccolato, era così buona che la finirono. Poi Duncan e Madeleine se ne andarono, non volendo guidare con il buio. Alexandra e la bambina li salutarono con calore.
“Grassie giocato con me” disse la bambina a Madeleine.
Lei dovette trattenersi dal ridere per quella frase sconnessa.
“Figurati, è stato bellissimo.”
La bambina e Alexandra andarono a letto presto. Era stata una bella giornata per entrambe.
 
 
Desirée aveva due anni e mezzo ed era nella fase dello “spannolinamento”. Alexandra le teneva il pannolino di notte, ma glielo toglieva la mattina, in modo che la piccola le dicesse quando le scappava. Quel giorno erano in macchina. La piccola era seduta sul seggiolino.
“Andiamo a Londra, una città” le spiegò la mamma.
Anche se aveva venduto l'appartamento londinese, avrebbe soggiornato in un albergo a Bayswater, un quartiere della città. Il viaggio durò tre ore. Quando disse chi era il receptionist le diede la chiave con il numero della camera.
“Deve salire le scale fino al terzo piano, o se vuole c'è l'ascensore.”
“Grazie.”
Per non far fare le scale alla bambina, visto che erano tante, prese l'ascensore.
“Ora premiamo il bottone e andiamo su.”
Alex prese in braccio la bambina e le fece schiacciare il pulsante. Desirée rise di cuore quando sentì l'ascensore salire.
“Magia” disse.
Sua madre sorrise.
“Certo, è una magia che ha creato una fata.”
La camera era la 402. L'hotel era enorme. Non fu facile trovarla nel dedalo di corridoi, ma quando alla fine Alexandra vi arrivò davanti, tirò un sospiro di sollievo. La aprì. Era spaziosa, con un letto matrimoniale e un bagno con la doccia.
“Wow!” esclamò. “Desi, devi andare in bagno?”
“No, non mi cappa.”
“Tesoro, abbiamo fatto un viaggio di tre ore, ti scappa per forza.”
“Non mi cappa!” insistette la piccola.
“Facciamo così: andiamo in bagno, io chiudo gli occhi e vediamo che succede, d'accordo?”
La bambina accettò. Andarono in bagno e la mamma le tirò giù i pantaloncini e le mutandine, poi la mise sul water. Si girò e chiuse gli occhi e la bambina fece la pipì.
“Visto? Ti scappava.”
“Mamma ragione” disse la p piccola.
“Sì.”
Alexandra rimase in stanza con la piccola fino all'ora di pranzo, giocando con dei cubi di legno. La bambina si divertì a fare e a distruggere torri.
“Mamma, posso avee la mia bambola pel favole?”
“Certo.”
Alex la tirò fuori da un borsone che si era portata. Non si sarebbe fermata molto a Londra, solo un giorno o poco più, ma voleva che la bambina vedesse un po' la città. Camminò per le strade di Londra, tra i turisti, ascoltando molte lingue diverse, molte delle quali non capirono. Un pallido sole brillava e tutte le persone avevano gli occhiali, non abituate alla presenza di quell'astro. La madre la portò a Covent Garden, dove si fermarono in un bar e la piccola mangiò un'enorme fetta di torta al cioccolato come la mamma. L'eccesso di zuccheri fece addormentare la bambina fra le braccia della madre, che tornò in albergo e la mise a letto. Scese per la cena all'hotel e mangiarono patatine fritte e un hamburger, come se fossero state al McDonalds. Alex non sapeva cosa fare: Londra era piena di bei musei, ma la bambina si sarebbe stancata di vederli. Aveva prenotato l'albergo per un giorno e mezzo. Il giorno dopo la portò a vedere il Tamigi.
“Fiume! Fiume!” esclamò la bambina.
“Sì, è un fiume. Si chiama Tamigi.”
Dopo un'altra passeggiata andò verso la metropolitana per far fare un giro alla piccola. Dopo essere andata sulle scale mobili, la ragazza prese un biglietto per andare a Notting Hill. La bambina aveva in mano una macchinetta e ci giocava. Salirono sulla metropolitana e trovarono un posto dove sedersi. Davanti a loro c'era una donna.
“Brava” le disse in spagnolo.
Si riferiva alla bambina che giocava con la macchinetta.
“Gracias” rispose Alex.
Sua madre, Carmen, era spagnola e, anche se erano passati anni, Alex aveva mantenuto allenata quella lingua parlandola ogni volta che poteva o leggendo thriller in quella lingua. A tre anni era bilingue.
“De nada” rispose la signora. “Se quedan en Londres?”
Le aveva chiesto se si sarebbero fermate a Londra. Alex rispose che quello sarebbe stato l'ultimo giorno lì. Poi si addormentò e si svegliò di soprassalto quando sentì l'altoparlante che diceva che erano in una stazione distante da Notting Hill.
“Merda!” esclamò.
Scese dalla metropolitana e salì su un autobus dopo aver acquistato un biglietto.
“Devo arrivare al capolinea per tornare indietro” le disse l'autista.
“Siamo fuori Londra, vero?”
“Sì.”
Alex sospirò e si sedette. L'autobus era vuoto. La bambina cominciò a lamentarsi.
“Buona, sta' buona” le sussurrò la mamma con dolcezza.
L'autobus si fermò vicino a un quartiere. Il vecchio cartello recitava Brath Hill. Alex scese per sgranchirsi le gambe.
“Tra cinque minuti riparto, se non sale nessuno disse l'autista.
“D'accordo, grazie.”
Entrò a Brath Hill. Un motorino e una macchina passò con lentezza e si allontanò. Una moto passò a gran velocità, quasi investendole. Poi ne arrivò un'altra.
“Ma guarda che bella donna!” esclamò un uomo con i capelli neri e gli occhi verdi. “E ha anche una bambina.”
“Prendiamole” disse il suo compagno.
Alex provò a scappare, in fondo era appena entrata nel quartiere, non avrebbe dovuto fare molta strada per uscire, ma i due la presero per le spalle e la girarono di forza. Lei stringeva fra le braccia Desirée, ma uno dei due uomini gliela strappò dalle braccia e salì su una moto.
“No!”
Alex si lanciò su di lui sferrandogli un calcio alla schiena. Il cuore le batteva fortissimo, aveva paura che la violentassero o che facessero del male alla piccola. Non aveva idea che quel quartiere fosse così pericoloso. Perché l'autista non l'aveva avvertita?
L'uomo lasciò andare la bambina, che cadde a terra.
“Lasciamole stare” disse il primo uomo che avevo parlato. “Troveremo qualcun'altra con cui fare sesso. Qui è pieno di prostitute.”
Ripartirono con le moto, mentre la bambina piangeva. Con il cuore a mille, la mamma la prese in braccio e le cantò una ninnananna, tornando all'autobus. Non seppe come fece a trattenere le lacrime. Tornò all'hotel, prese la macchina e ritornò in campagna, alla sua fattoria, il più velocemente possibile. Ormai si era fatto pomeriggio. Mentre guidava doveva stare attenta, perché le mani le tremavano e più di una volta rischiò di fare un incidente. Una volta nella sua abitazione, scoppiò in pianto con la bambina e poi telefonò a Madeline e le raccontò quello che era successo.
“Io e mio marito stavamo venendo a trovarti, aspettaci.”
Quando la vide, Madeleine abbracciò Alexandra e la bambina. Il marito andò a giocare con la bambina.
“Oggi ho avuto così paura!”
Alex singhiozzava tra le braccia di Madeleine, mentre le due erano in cucina. Alexandra aveva chiuso la porta in modo che la bambina non la sentisse piangere.
“Lo posso solo immaginare.”
Madeleine le accarezzò i capelli e il viso e le asciugò le lacrime con un fazzoletto. Le preparò un bagno caldo e, mentre lei si rilassava nella vasca, Madeleine le preparò dei vestiti puliti, aprendo l'armadio con il permesso della padrona di casa. Alex riuscì a trovare un po' di calma nel tepore dell'acqua, poi si lavò i capelli e uscì. Si asciugò e si infilò gli abiti che Madeleine aveva scelto per lei. Si trattava di un paio di jeans lunghi, una maglietta a maniche corte e un maglioncino.
“Grazie” sussurrò.
Madeleine e il marito rimasero con lei e la bambina per la notte, dormendo sul divano.
Desirée, che aveva già dimenticato quanto successo, dormì senza problemi nella usa cameretta, svegliandosi una sola volta per essere cambiata, ma fu Madeleine a pensarci. Voleva che Alex si riposasse. Ma Alexandra non dormì mai. Continuò a fare incubi su quello che era successo. Sognava che le portassero via la bambina, che rapissero anche lei, la violentassero e la picchiassero. Madeleine le aveva raccontato che quel quartiere era malfamato, e che era stata fortunata che lei e la piccola ne fossero uscite indenni.
Il giorno dopo Alex si sentì meglio. Nonostante gli incubi, ora stava meglio, e solo vedere il sorriso della sua piccola le risollevò il morale.
“Potete andare, sto meglio” disse a Madeleine e al marito.
“Sei sicura?” chiese l'uomo.
“Sì, va tutto bene. Grazie per avermi calmata e fatto compagnia.”
“Figurati, tesoro” disse Madeleine.
I due se ne andarono dopo poco. Mentre Desirée giocava con le costruzioni nello studio della mamma, che la teneva d'occhio, Alex si mise davanti alla scrivania e prese la sua macchina da scrivere.
“Magari potrei scrivere un thriller su Brath Hill, per incanalare lì le mie emozioni.”
Ma non ci riuscì. Scrisse e cancellò la prima frase per quelle che le parvero quindicimila volte.
Lasciamo perdere.
Chiamò Bert, quello che l'aveva aiutata con l'editing del suo primo romanzo e che per lei era come un padre. Gli raccontò cos'era successo e che non riusciva a scrivere.
“Dai tempo al tempo” le disse lui. “Ritornerai a scrivere quando sarai pronta.”
“E come faccio a sapere quando lo sarò?”
“Lo saprai, te l'assicuro.”
Poi le disse che gli dispiaceva per quello che le era successo e che doveva essere stato terribile. Alex pianse ancora e a Bert ci volle una mezz'ora buna per calmarla. Per fortuna Desirée non pianse, troppo presa dai suoi giochi. Alex si mise a letto e si portò dietro la bambina, che mise sotto le coperte con lei, e le due si addormentarono abbracciate. Si svegliarono per pranzo.
Ci vollero diversi giorni per Alex per calmarsi del tutto. Ne parlò con Bert, Madeline, la sua amica Fiona che venne anche a trovarla e Rose Porter, la sua agente, e farlo la aiutò a sfogarsi e a buttare fuori tutta la paura e la frustrazione che provava. Per fortuna non era sola in casa, c'era Daisy con lei.
 
 
Altri nove mesi erano passati e Alex era riuscita a ripagare tutti i debiti. Il conto in banca non diminuiva più e lei non rischiava un attacco d'ansia ogni volta che trovava una bolletta nella cassetta della posta.
Quella mattina Alex si svegliò verso le otto e mezza. La bambina stava ancora dormendo. Era strano, di solito era mattiniera. In ogni caso, la lasciò dormire perché quel giorno sarebbe stato difficile per lei, anche se sperava che i dottori ci avrebbero messo poco.
Desi si svegliò mezz’ora dopo. Finita la colazione, la mamma la guardò intensamente negli occhi.
“Desirée, ho bisogno che tu sia forte oggi, okay? Lo sei sempre, ma oggi lo devi essere ancora di più.”
La bambina rifletté per alcuni secondi, con la testa fra le mani, poi rispose:
“Okay mamma, ma perché?”
“Dobbiamo andare a fare il vaccino.”
La bambina non fece nessuna domanda, come se sapesse di cosa si trattava, ma Alex ne dubitava.
“Mamma, voglio quello” disse la bambina.
Aveva scelto dal suo guardaroba un vestitino rosa molto carino.
“Okay principessa.”
La aiutò a indossarlo.
“Dobbiamo farlo?” chiese la piccola.
Aveva tre anni e tre mesi e pochi giorni dopo avrebbe iniziato l'asilo, ma prima la scuola aveva richiesto che la bambina, come accadeva con tutti, facesse il vaccino.
“Sì, dobbiamo, è importante.”
“Ma cos'è il vaccino?”
Ecco, alla fine l’aveva chiesto.
“Una puntura che ti faranno per proteggerti dalle malattie” le spiegò la mamma in modo semplice.
L'ambulatorio medico era lontano dalla fattoria ma sempre in campagna, per fortuna. Ci misero mezz'ora ad arrivare. La sala d'attesa era gremita. Alex si avvicinò al bancone dietro il quale erano sedute tre segreterie: due intente a rispondere al telefono, una a scrivere qualcosa al computer. Fu sei ad accorgersi di Alex.
“Buongiorno” disse a entrambe.
Le conosceva perché venivano sempre lì quando Desirée aveva bisogno della pediatra.
“Ciao Sylvie” la salutò Alexandra.
La donna era francese, sulla cinquantina, con i capelli neri e qualcuno bianco e un bel sorriso.
“Siamo qui per fare il vaccino a Desirée. L'ho prenotato giorni fa.”
Aveva telefonato la prima volta e le avevano risposto che non c'era posto e di riprovare la settimana seguente. Per fortuna aveva trovato uno spazio libero. La segretaria scrisse il nome e il cognome della bambina al computer.
“Oh, sì, ecco qui la prenotazione. Andate nella stanza accanto, un'infermiera farà tutto.”
In quel momento la pediatra uscì dal suo studio.
“Ciao!” la salutò con calore la bambina.
La donna, sulla quarantina, aveva uno dei visi più dolci che Alex avesse mai visto.
“Ciao” le disse. “Sai che puoi chiamarmi per nome, vero?”
“Sì, Julia, lo so.”
Si sorrisero.
“Un'infermiera ti farà il vaccino, ma se vuoi resterò anch'io lì con te e la mamma, tanto non ho pazienti al momento.”
“V-va bene.”
“Dovrai essere coraggiosa, piccola” continuò la donna. “Ma durerà pochi secondi, stai tranquilla.”
“Poi ti porto a mangiare il gelato” le promise la mamma.
Entrarono in una stanza dalle pareti tappezzate di disegni.
“Tutti i bambini che vengono qui ne fanno uno” spiegò l'infermiera che avrebbe dovuto fare il vaccino a Desirée. “Se vuoi puoi farlo anche tu, Renée.”
“Desirée” la corresse la bambina, con un'espressione accigliata sul visetto.
“Desirée. Scusa, tesoro.”
“Sbagli sempre.”
“Desi!” la rimbeccò la mamma.
“Cosa c'è? Ho solo detto la verità.”
L'infermiera la fece sedere su una seggiola bassa, apposta per la sua età, e le chiese quale fosse il braccio he usava di più.
“Il destro.”
“Bene, allora lo faremo sul sinistro.”
Le domandò di appoggiare il braccio su un supporto coperto di carta, che abbassò in modo che fosse alla sua altezza. Poi prese un ago e disse:
“Desirée, ci sono degli scoiattoli su quella parete. Li conteresti per me, mentre ti faccio il vaccino?”
“Va ben.” Guardò alternativamente la mamma e la pediatra, con l'aria di chi è spaventato a morte, poi osservò il disegno con gli scoiattoli.
“Uno, due, tre, quattro, cin… ow!” gridò la bambina, quando l'ago le si conficcò nel braccio.
Ma durò solo un momento.
“Ecco, abbiamo finito.”
La bambina si alzò e andò dalla mamma.
“Ora mangiamo il gelato?”
Lei le sorrise.
“Sì, come ti avevo promesso.”
Andarono in una gelateria lì vicino che faceva gelato artigianale. Alex prese un cono con fragola e cioccolato, Desirée una coppetta con nocciola e cioccolato. Mentre mangiavano, sedute a un tavolino fuori dal locale, si sorridevano.
“Mamma?”
“Sì?”
La sua espressione era cambiata di colpo. Desirée si fece scura in volto.
“E se non mi trovo bene all'asilo?”
“L'asilo non è obbligatorio, se proprio non ti troverai bene ti terrò a casa. Ma perché dovresti trovarti male?”
“Non lo so, magari ci saranno dei bambini cattivi.”
“Sono sicura che non sarà così. Oggi è venerdì. Vedrai che lunedì andrà tutto bene.”
Rassicurata dalle parole gentili della mamma, Desirée le sorrise e ricominciò a mangiare il suo gelato.
Passarono il weekend guardando i cartoni e l'ultima sera ordinarono una pizza in una pizzeria da asporto.
Il lunedì arrivò presto.
“È oggi, è oggi, è oggi!”
Un piccolo uragano piombò nella stanza di Alex e si mise a saltare sul letto.
“Sì, oggi inizi l'asilo. Ma come mai sei così contenta?”
“Perché tu mi hai detto che va tutto bene.”
“Certo che andrà tutto bene, ne sono convinta.”
Poi la aiutò a vestirsi. Le fece indossare un vestitino giallo lungo fino ai piedi e una camicetta rosa. Le aveva già preparato una borsa con un cambio, nel caso le fosse servito. Dopo colazione partirono.
“E se i compagni mi odiassero?” sussurrò Desirée, ma abbastanza forte affinché la madre la sentisse.
“Quando tornerai, mi racconterai quanti amici ti sei fatta oggi, ci sommetto.”
Il cartello davanti all'asilo recitava Tiny Tots.
“Cosa vuol dire tots, mamma?”
“Tot, in alcuni dialetti inglesi, significa bambino.”
Quando entrarono, nel grande salone c'erano già molti bambini, di diverse età, dai due ai cinque anni, che giocavano. Quando Alex aveva iscritto la bambina all'asilo, la segretaria le aveva detto che i primi giorni sarebbero stati di inserimento, quindi la bambina sarebbe rimasta un paio d'ore e poi sarebbe tornata a casa.
“Spero che questo non sia un problema, se lei lavora” le aveva detto la donna.
“No, non si preoccupi, lavoro da casa.”
Lavoro aveva pensato. Quanto mi piacerebbe che fosse vero.
Certo, stava dietro ai cavalli, ma non era come scrivere.
“A cosa pensi, mamma?”
Desirée non si era ancora avvicinata ai bambini per giocare.
“A niente di importante, tesoro. Su, vai.”
Si erano accordate, quel weekend: la mamma sarebbe rimasta lì entrambe le ore dell’inserimento, per tutta la settimana. Dalla seguente, quando la bambina avrebbe iniziato l'asilo alle otto, come quel giorno, e avrebbe terminato alle sedici, la madre sarebbe stata a casa.
“Se mi chiedono che lavoro fai, cosa dico?” le domandò la piccola, guardando gli altri bambini.
“Che faccio la scrittrice, ma che il mio primo libro deve ancora uscire. Non dire la verità.”
In quei giorni Alex aveva cercato di spiegare alla figlia perché aveva usato uno pseudonimo maschile, cos'era uno pseudonimo e perché nessuno, proprio nessuno, avrebbe dovuto venire a sapere che lei era Alexander Green. Desi aveva capito.
“So tenere un segreto” le aveva risposto.
Ma poi aveva confessato alla mamma che non si era aspettata una cosa del genere.
Si avvicinò ai bambini che le sembravano della sua età, mentre la mamma prendeva posto a un tavolo lì vicino.
“Se ha del lavoro da fare, può tranquillamente” le disse una maestra. “I giorni di inserimento lasciamo che i bambini stiano tutti insieme, dalla prossima settimana li divideremo in classi.”
“Capisco. Grazie.”
Desirée stava giocando con altri bambini a inseguirsi a carponi su dei cuscinoni morbidi.
“Vuoi giocare con un orsetto?” le chiese una bambina. “Mi chiamo Melody.”
“Io Desirée, ma puoi chiamarmi Desi.”
“Hai un nome strano, non l'l’ho mai sentito.”
“Anch'io non ho mai sentito una bambina con il nome Melody, ma mi piace.”
“Sì, anche a me il tuo.”
Melody la portò via dai cuscinoni e la fece sedere per terra, poi corse al cesto dei giocattoli e tornò con due orsetti polari di peluche. Desi se ne innamorò perdutamente. Uno inseguiva l'altro e viceversa.
“Mi sembra un po' a disagio” disse Alex a una maestra.
Dopo aver giocato con Melody, la bambina era tutta sola.
“Ti prego, Melody, diventa la mia amica del cuore” disse la bambina e Alex la sentì.
“Madre in apprensione, vero?” chiese l'insegnante ad Alex.
“Ehm…” La donna si schiarì la voce. “Sì, abbastanza. È sbagliato?”
“No, è perfettamente normale i primi giorni, ma vedrà che la sua bambina troverà qualcun altro con cui giocare.”
Ora si era messa a divertirsi con le costruzioni.
Alex provò a scrivere. Si era portata il computer e cercò di concentrarsi, ma la confusione e l'ispirazione assente la fecero desistere.
“Non hai scritto niente, mamma?”
Le due ore erano volate e madre e figlia si stavano dirigendo all'uscita.
“No, come sempre.”
“Ci riesci, vedrai.”
La mamma le sorrise.
Quando arrivò la seconda settimana, i primi due giorni Desirée corse a giocare con gli altri bambini, tanto che Alex si domandò perché non piangesse, come facevano alcuni, quando dovevano lasciare le madri. Ma il terzo giorno la piccola crollò. Scoppiò in singhiozzi e Alex la prese in braccio. La piccola allacciò le mani al suo collo.
“Non voglio stare qui, mamma, portami a casa!” la pregò.
“Vedrai che ti divertirai.”
Dopo qualche bacio, alcune carezze e altre rassicurazioni, la bambina andò a giocare.
Quel giorno venne messa in classe con i bambini della sua età. La maestra, che si chiamava Linda, diede a ognuno un foglio e dei pastelli.
“Disegnate quello che volete.”
Desi disegnò lei e la mamma.
“Non ho il papà” disse alla maestra. “È andato in cielo.”
La piccola divenne triste.
“Mi dispiace, tesoro. Perché non vieni a ballare con noi?”
Linda accese lo stereo e subito partì una canzoncina allegra che parlava della storia di un topolino che faceva amicizia con un gatto. Tutti ballarono al ritmo della musica. Poi andarono in salone con gli altri bambini e Desi si divertì a giocare con le bambole, i peluche e i cuscinoni. Si nascose in un cuscino fatto a tunnel, ma prima avvertì i compagni di non passarle sopra. Rimase lì, accoccolata, per minuti interi. Quello divenne il rifugio sicuro dove nascondersi quando voleva stare sola.
Ogni volta raccontava alla madre tutto quello che faceva, anche le corse in giardino, il fatto che andava sull'altalena, o che si lasciava scivolare lungo lo scivolo.
“Sono felice che l'asilo ti piaccia tanto” le disse la mamma.
 
 
 
Erano passate quattro settimane da quando Desirée aveva cominciato l'asilo. Era ottobre e cominciava a far freddo. Alex, seduta alla scrivania con la macchina da scrivere davanti a sé, provò a ricominciare quel thriller che poi aveva cestinato, ma non ci riuscì. Provò a mettersi al computer, ma anche in quel caso non ottenne nessun risultato. Rimase lì, a fissare lo schermo e la pagina bianca di Word, senza essere in grado di scrivere nemmeno una lettera.
Fu quando andò a prendere Alex che le venne una folgorazione. E se, invece di un thriller, avesse scritto una storia per la sua bambina? Certo, non sarebbe mai stata pubblicata, ma almeno avrebbe scritto qualcosa. Nei giorni che seguirono dipanò i fili della trama, creò i personaggi e scelse per loro dei nomi italiani, perché, chissà qual era il motivo, le suonavano meglio di quelli inglesi. Quando tutto fu pronto, e nel momento in cui nella sua testa la storia aveva preso forma, si mise a scrivere. Lavorò per tutta la mattina al computer e alla fine si ritrovò con sette pagine scritte. Rimase a bocca aperta. Non scriveva da così tanto tempo che non le sembrava vero di essere riuscita a farlo di nuovo, e soprattutto con un genere che non era il suo. Chiamò subito Bert e Rose Porter per raccontare loro cos'era accaduto ed entrambi le dissero che era stata molto brava.
“Non importa se non verrà pubblicata, Alex” la rassicurò Rose. “L'importante è che tu l'abbia scritta e che a tua figlia piaccia. Pensi che tornerai a scrivere thriller?
“Non lo so. Un giorno, forse. Ma adesso non ho la testa per quello.”
La sera, quando la bambina fu a letto e le ebbe raccontato, con la sua solita parlantina, quello che aveva fatto all'asilo, la mamma le parlò della storia che aveva scritto.
“Per me?” chiese la bambina a occhi sbarrati.
“Sì, tesoro, tutta per te. La vuoi sentire?”
“Sì!”
Alex andò nel suo studio, la stampò e tornò in camera della figlia. Si sedette vicino al letto e cominciò a leggere.
“Francesca si alzò riposata, quella mattina di giugno. La scuola era finita e i genitori le avevano dato due settimane di tempo per riposarsi prima di cominciare a prepararsi per l'università.
“Meno male!” si disse la ragazza.
Quell'anno aveva sostenuto gli esami di quinta superiore e aveva sudato sangue per riuscire ad arrivare a prendere un buon voto. 87 era soddisfacente e lei si sentiva contenta così, anche se altri suoi compagni, che avevano preso voti più alti, secondo lei se li sarebbero meritati più bassi, visto il comportamento che avevano avuto.
Decise di restare in pigiama e scese per la colazione. Mangiò latte e cereali e poi, vedendo che era una bellissima giornata di sole, si decise a togliersi il pigiama, anche se stava molto comoda così, e ad uscire. Si pettinò i capelli rossi e lunghi fino a metà schiena e si guardò allo specchio. I suoi occhi azzurri erano spenti, come sempre. Prima di uscire si cambiò indossando una comoda tuta da ginnastica, si infilò calze e scarpe e andò fuori. Il sole era caldo, ma spirava un vento fresco che la proteggeva dalla calura estiva.
Camminò per un po' per i campi circostanti, fino ad arrivare a una radura che prima non aveva mai visto. Si sedette sotto un albero e inspirò il profumo dell'erba tagliata, un odore che le era sempre piaciuto. Abitava in una località di mare. Infatti, vicino alla radura non c'era un bosco, come tanti si sarebbero aspettati, bensì la laguna.
“Avrei potuto mettermi il costume e fare il bagno.”
Fu allora che vide qualcosa avvicinarsi a lei. Era un animale strano, bianco, con un corno al centro della fronte.
“Un unicorno?” chiese ad alta voce. “Ma quelli esistono solo nei film o nei libri!”
“Be', se sono qui significa che esisto” disse l'unicorno.
“Tu parli?” domandò Francesca, sbigottita.
“Certo che parlo! Cosa credevi, che fossi muta?”
“Ah, sei una femmina. No, pensavo facessi solo nitriti e basta.”
“Non è così.”
A Francesca pareva tutto assurdo. Gli unicorni non potevano esistere davvero. Batté le palpebre più volte, per rendersi conto se quella fosse la verità o meno, ma la femmina di unicorno non si muoveva, era sempre lì, a un metro e mezzo da lei circa, e la guardava con i suoi grandi occhi penetranti. Francesca urlò per la frustrazione, spaventando l'unicorno che corse via.
“No, aspetta!”
Arrancò per raggiungerlo, e lo trovò all'entrata di una caverna nella radura.
“Volevi che andassi via e l'ho fatto” disse l'unicorno.
“No, non lo volevo. Il mio era un grido fatto perché non potevo credere a ciò che stavo vedendo. Questa è la tua casa?”
“Sì. Entra.”
Era così buio, nonostante la luce che entrava da fuori. L'unicorno la condusse fino alla fine della caverna.
“Come ti chiami?” chiese la ragazza.
“Astra e tu?”
“Francesca. Ho diciannove anni.”
“Mi piace il tuo nome.”
“E a me il tuo. Ma dormi per terra?”
“No.”
Fu solo allora che la ragazza scorse un giaciglio fatto di erba e capì che era lì che riposava.
Qui dentro non si vede niente pensò.
“Ce ne sono altri come te?”
“No, sono l'unica, e sono immortale.”
“Oh!” Questo non se l'era proprio aspettato. “E non ti senti sola?”
Lei si sarebbe sentita così, se fosse stata l'unica sulla faccia della terra.
“No, ho fatto amicizia con altri animali che sono qui, come gli uccelli, i gatti, qualche cane che si allontana dal padrone o i topi.”
“Che schifo” commentò la ragazza.
I topi le avevano sempre fatto ribrezzo.
“Girano di notte, e quando mi sveglio li trovo in giro.”
“Ti andrebbe se ti prendessi una sella? Così potremmo volare insieme.”
Non tutti gli unicorni avevano le ali ma questa sì.
“Non so, nessuno mi ha mai cavalcato prima. Sei la prima umana da cui mi faccio vedere.”
“Perché proprio io? E come fai con gli altri umani che arrivano qui?”
“Mi rendo invisibile, guarda.”
In un batter d'occhio, non la vide più.
“Dove sei?”
“Eccomi.” E tornò normale. “Ho scelto di mostrarmi a te perché hai un sorriso triste.”
“Un sorriso triste?”
“Hai quell'espressione… il sorriso non ti arriva agli occhi, così ho pensato ti servisse un'amica. Non ho scelto te perché mi fai pena o cose del genere, ma soltanto perché mi sembrava avessi bisogno di qualcuno accanto.”
“In effetti non ho amici, ma non ho voglia di parlare di questo adesso” tagliò corto Francesca. Conosceva ancora troppo poco Astra per raccontarle tutto. “Ho fame, anche se ho fatto colazione.”
“Vieni con me.”
Astra la guidò vicino a un albero di pesche e Francesca, che sapeva arrampicarsi, ne prese alcune e cominciò a mangiare, mentre Astra brucava l'erba. Era rilassante sentirla masticare. Le pesche erano deliziose.
“Ti piacerebbe se ti procurassi una sella?” le chiese di nuovo. “Per volare insieme.”
“Non sei ancora pronta, ci conosciamo poco. Fra qualche mese, magari.”
“D'accordo.”
Astra aveva una voce dolce e melodiosa, che a Francesca piaceva tantissimo.
Rimase con lei per ore. Camminarono insieme per la radura fino all'acqua, che aveva lo stesso colore ambrato del sole al tramonto e poi tornarono nella grotta, dove rimasero a scambiarsi sguardi in silenzio. Era bello anche non parlare, a volte, perché il silenzio valeva più di mille parole.
“Ora devo tornare a casa, i miei genitori saranno già arrivati.”
“Quando tornerai?”
“Domani, te lo prometto.”
“Va bene.”
Astra la sfiorò con il muso.
“Mi ha fatto piacere conoscerti” disse Francesca.
“Anche a me, a domani.”
La ragazza uscì dalla grotta e corse a casa.
“Mamma, papà, sono qui!” gridò mentre entrava, e appoggiò le chiavi in un piattino di vetro sopra una mensola del salotto, dove c'erano già quelle delle macchine dei genitori.
“Ciao tesoro!” esclamò Elena, sua madre.
“Dove sei stata?” le chiese suo padre, che si chiamava Tiziano.
“In giro per campi. Il pranzo è già pronto?”
“Hai fatto bene a goderti la natura” le disse la mamma. “No, abbiamo appena buttato la pasta.”
“Allora vado a farmi una doccia.”
Mentre era sotto il getto d'acqua calda, Francesca ebbe il tempo di riflettere. Non aveva mai avuto animali perché entrambi i suoi genitori, a differenza sua, erano allergici al pelo. Ma adesso aveva Astra, che oltre a essere un animale era anche molto intelligente. Per il momento avrebbe tenuto segreta la cosa.
Andò da lei ogni giorno per tutta l'estate. A volte si sedevano sotto un albero a rimanere in silenzio, altre Francesca le saliva in groppa e Astra, appurato che non ci fossero altri umani in vista, cavalcava con lei sopra, mentre la ragazza si teneva al suo collo.
“Per questo parlavo della sella” le disse alla fine dell'estate. “Perché mi verrebbe più facile cavalcarti.”
“Va bene, allora.”
Francesca sorrise: finalmente Astra si era fidata di lei e aveva accettato. Quell'estate avevano parlato di tante cose: della scuola di Fra, come amavano chiamarla i suoi genitori, della sua famiglia, di cosa voleva fare la ragazza all'università - aveva scelto lingue come indirizzo –, del fatto che Astra, rendendosi invisibile, era anche andata in acqua e aveva esplorato tutto il paese, arrivando anche sulle colline e fra i boschi.
“Ma qui mi piace di più” disse a Francesca quel giorno.
Nel pomeriggio la ragazza guidò fino al maneggio dov'era stata per un anno e mezzo, prima che tutto andasse a rotoli. Fu strano rivedere il direttore e tutti gli insegnanti tranne la sua. Chiese una sella, disse che le serviva grande, la più grande che avevano.
“Perché ne hai bisogno?” le domandò Giulio, il direttore.
“Per un cavallo che voglio comprare in un altro maneggio” mentì. “È alto e ha la schiena molto grande.”
“Questa può andare bene?” chiese a Francesca, staccandola da un supporto.
Lei la osservò per qualche istante.
“No, mi serve più grande.”
Astra era alta come un cavallo, ma era molto più lunga.
“Questa?”
“È perfetta!”
Pagò il direttore e tornò alla radura. Trovò Astra che brucava l'erba.
“Ecco la sella” le disse.
Astra la studiò.
“Mi sembra possa andare. Prova a mettermela.”
Francesca gliela appoggiò sulla schiena e poi strinse il sottopancia. La sella aderì alla perfezione al corpo di Astra.
“Wow!” esclamò la ragazza, incredula.
Aveva anche una maniglia per tenersi.
“Dai, voliamo” disse Astra.
“Sul serio?”
“Sì. Ora ci conosciamo bene, che aspetti? Sali.”
Lei lo fece e Astra prese quota in velocità. All'inizio a Francesca girò la testa, ma poi si abituò.
“Ancora più veloce!” esclamò.
“L'hai voluto tu” disse Astra e schizzò come un fulmine.
Francesca urlò di felicità. Non credeva che cavalcarla sarebbe stato così bello. Era una sensazione stranissima, come andare sulle montagne russe, solo che era meglio.
“A ottobre comincerò l'università” gridò per farsi sentire sopra il sibilo del vento. “Ciò significa che avrò lezione la mattina e anche il pomeriggio e potrò venire da te soltanto la sera, per un po'.”
“Mi dispiace.”
“Anche a me, ma non posso fare altro, purtroppo. Spero solo di farmi degli amici.”
“Non ne avevi alle superiori?”
Francesca sospirò.
“Sono stata bullizzata per cinque anni. Mi tiravano pezzi di carta e di gomma addosso, mi dicevano che facevo schifo, che puzzavo, cose così.”
“Che cattivi. Mi dispiace per quello che hai passato. Ma non hai proprio nessun amico adesso?”
“No, nessuno.”
“Ti senti molto sola?” le domandò con dolcezza.
“Sì, ma sicuramente ne troverò all'università. Lì, in teoria, la gente è più matura e meno idiota.”
Astra fece un brontolio simile a una risata e anche Francesca rise con lei.
“Non ne hai mai parlato con gli insegnanti o i tuoi genitori?”
“Sì, ma alle assemblee nelle quali si parlava di questo i miei compagni negavano sempre.”
Le raccontò anche che aveva fatto equitazione per un anno e mezzo, con un'insegnante che si era spacciata per una psicologa quando invece non lo era ed era stata licenziata.
“Ma era brava, mi trovavo bene con lei, perciò quando questo è successo non sono più voluta andare a cavallo.”
“Peccato. E che effetto ti ha fatto tornarci? Grazie per la sella, a proposito.”
“Figurati. Be', è stato strano, ma non ho guardato i cavalli per non mettermi a piangere.”
Le spiegò che ne aveva montati due: Tornado e Oliver. Li aveva amati moltissimo e se li avesse rivisti ci sarebbe stata male per non poterli cavalcare ancora.
“Capisco” disse Astra e alzò la testa per guardarla.
Francesca le sorrise.
Una volta a terra, la ragazza si sentiva meglio. Era stato bello sfogarsi con Astra e parlarle dei suoi problemi passati. Vedeva ancora i suoi demoni davanti a lei, il suo passato che la tormentava, la sua autostima che si abbassava sempre di più a causa dei bulli, ma ora non le facevano più così paura.
Con l'inizio dell'università, Fra poté andare da Astra solo la sera, prima di tornare a casa. Si inventava che il treno era arrivato in ritardo, oppure che aveva avuto un guasto, o che l'aveva perso, affinché i genitori non si insospettissero e non pensassero chissà che cosa.
Quando stavano insieme volavano anche sopra la laguna, e quando tornò la primavera la femmina di unicorno la portò nell'acqua, anche se Francesca era vestita. Nuotò con lei che sorrideva e rideva.
“Hai fatto il bagno vestita?” le chiese la mamma quando la figlia tornò a casa gocciolante.
“Sì. È stato figo!”
“Vai a cambiarti. Sei strana, sai?” le disse il papà.
Lei si fece una doccia e si cambiò.
Parlò con Astra del fatto che ormai erano amiche da tempo, sapevano tutto l'una dell'altra, persino i loro gusti personali in fatto di cibo. C'erano delle erbe che ad Astra piacevano di più rispetto ad altre, e Francesca adorava la cioccolata fondente ma non troppo.
“Vorrei presentarti ai miei genitori” le disse. “Ti senti pronta?”
“Sì” le rispose Astra, senza alcuna esitazione.
Quella domenica, Tiziano e la moglie decisero di fare una passeggiata. C'era il sole e sarebbe stato uno spreco rimanere in casa. Francesca, che era in testa, li guidò fino alla radura e fu così che i suoi genitori videro Astra.
“Un unicorno? Ma…” disse la mamma.
“Ma non esistono” concluse il papà.
“Invece sì, Io e Astra ci siamo conosciute l'estate scorsa. Ho aspettato a presentarvela perché sapevo che non ci avreste creduto.”
Eppure era lì, davanti ai loro occhi, e superata la timidezza iniziale li salutò con la voce.
“Parla?” chiese Elena.
“Sì, parlo.”
I genitori di Francesca non potevano credere a ciò che vedevano. Astra si rese invisibile, poi tornò normale.
“È così che mi nascondo dagli umani” spiegò.
Poco dopo i genitori di Francesca cominciarono a starnutire e si gonfiarono loro gli occhi.
“Non è colpa tua, sono allergici al pelo” disse la ragazza ad Astra.
Tornarono a casa dopo che la ragazza ebbe abbracciato l'unicorno.
“Pazzesco!” esclamò il papà, mentre prendeva l'antistaminico contro l'allergia, lo stesso della moglie.
“Già, lo era anche per me, ma ora ci ho fatto l'abitudine. È da lei che vado la sera, prima di tornare a casa. Mi dispiace avervi mentito, ma non potevo proprio dirvelo, lei non era pronta e anche io.”
A letto, quella notte, Francesca pensò che era proprio fortunata: aveva trovato in Astra un'amica e una confidente, le aveva confessato cose che aveva riferito a pochissimi, e si era fatta alcuni amici all'università. Astra era contenta per lei e anche i genitori. E lei, se lo sentiva, sarebbe rimasta amica di quell'unicorno per sempre.”
A favola terminata, Alex aveva perso la voce. Prese una bottiglia dalla sua scrivania e bevve avidamente. Quando ritrovò la voce domandò a Desi:
“Ti è piaciuta?”
“Moltissimo, mamma, grazie.”
Dopo poco si addormentò. Alex le diede un bacio sulla testa e andò a letto anche lei. Nonostante la morte di Miles, la loro vita non era poi così male. Anche se soffriva per la morte del marito, aveva con sé il loro regalo più prezioso, il dono migliore che la vita le avesse fatto. E chissà, ora che aveva scritto quella favola, magari ne avrebbe buttate giù altre, sempre per la figlia, per allenarsi. E poi, non sapeva ancora quando, sarebbe tornata a essere Alexander Green, ma per ora voleva solo concentrarsi su Desirée. Si alzò e andò a controllarla. Dormiva profondamente. Rimase a guardare il suo faccino rilassato e il petto che si alzava e abbassava per ore, ma alla fine crollò, domandandosi quali altre avventure e sorprese avrebbe riservato loro la vita.
 
 
 
NOTA:
Brath Hill non esiste. L’ha inventato la mia amica cussolettapink per una sua storia e mi ha dato il permesso di utilizzarlo.
   
 
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