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Autore: Milkyna    17/07/2022    0 recensioni
Tom avrebbe potuto avere una vita tranquilla, normale. Avrebbe potuto sposarsi con Filomena e fare il padre di famiglia, avrebbe potuto vivere grazie al suo emporio. E invece no, il destino prima l'ha gettato a terra e poi l'ha sollevato fino a fargli toccare le stelle. Peccato che le ombre non siano mai scomparse dal suo cammino...
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Filomena, Nook, Nuovo personaggio, Volpolo
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Furry, Tematiche delicate, Violenza
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Citadelle era una sorta di dea urbana per le popolazioni rurali: la grande città, con servizi rapidamente accessibili e più diversificati che nei paesini sperduti tra campagne e colline…

Citadelle era il lusso, erano i gioielli splendenti ben in mostra nelle vetrine, le atmosfere festaiole del Giorno dei Giocattoli, le grida dei bambini di fronte ai mega gelati e il vivace viavai di segretari e commercianti ogni giorno.

Ma Citadelle nascondeva anche indicibili brutture, che dal cuore dorato della città strisciavano verso i sobborghi, le periferie.

Là vivevano coloro che avevano smesso di cercarsi un posto nella società, i derelitti, gli ultimi.

C’erano vicoletti stretti e bui alle estremità di Citadelle, i quali brulicavano di topi neri e bidoni di latta ricolmi di spazzatura.

Giravano dei gran brutti musi, gente che guardava le facce estranee con un misto di famelicità e ostile diffidenza. Un postaccio.

Lo pensava anche Diamond Sun, una giovane volpe dal pelo dorato e due occhi sottili e neri, che nella vita avevano incontrato ogni genere di sconfitta.

Ogni giorno si pettinava la frangia in modi diversi, ogni giorno cambiava gli orecchini, ogni giorno si truccava gli occhi con ombretti glitterati dalle tinte aggressive, che sembravano urlare più dolore che sensualità.

Ogni giorno indossava scarpe col tacco alto, benché non uscisse praticamente quasi mai di casa.

Ogni giorno aveva addosso vestagline provocanti, leggere e lucide come seta sopraffina.

E ogni giorno, nuovi passi entravano nel suo appartamento decadente, con i muri grigi leggermente scrostati e i quadri che a stento riuscivano a coprire le macchie nere della muffa.

Questo era il mondo di Volpolo, tutto ciò che aveva conosciuto da quando era nato, otto anni prima.

Lui aveva una stanzetta tutta per sé, grigia e triste come il resto della casa, e qualche cubetto di legno con il quale giocare. Era già tanto che sua madre si ricordasse di mandarlo a prendere lo scuolabus sotto casa.

Stranamente, al bambino quella vita non pesava, almeno non apparentemente: i brutti ceffi che entravano in casa sua a qualunque ora del giorno rappresentavano per lui una ventata di novità, poiché si divertiva a… derubarli.

Tutte le volte che li sentiva chiudersi in bagno a farsi la doccia, Volpolo forzava la serratura malandata della porta con una forcina della madre e sgattaiolava all’interno cercando di non farsi vedere, e con maestria sfilava pacchetti di sigarette o soldi dai pantaloni di quegli sventurati. Aveva soltanto otto anni Volpolo, ma aveva già capito come andava il mondo, e non si faceva problemi a derubare persone per le quali non provava alcuna stima.

I pacchetti di sigarette li infilava nel suo zainetto giallo e sgualcito, sotto ai quaderni e ai libri, ben nascosti dal fazzoletto di lino e dalla merendina striminzita che sua mamma gli procurava.

Volpolo non prendeva lo scuolabus per tornare a casa, ma si recava nei cortili delle scuole medie e superiori non distanti dal suo istituto, pronto a rivendere le sigarette rubate ai ragazzi grandi, e per almeno cinquecento stelline a pacchetto.

Gli adolescenti inizialmente si sorpresero di vedere quello scricciolo di volpe gironzolare da solo all’uscita delle loro scuole, ben attento a non farsi beccare da bidelli ed insegnanti, ed all’inizio si fecero beffe di lui. Volpolo se lo ricordava bene il primo giorno di “vendita”:

“Ehi, volete fumare?” aveva esclamato, fermando un terzetto di bulletti quattordicenni.

“E questo marmocchio che cosa vuole?” aveva domandato il kappa, continuando a masticare rumorosamente la sua cicca.

“Smamma, lattante, ché mammina ti chiama!” sghignazzò il capetto, un orso dall’aria truce.

“Mia madre ha da fare ora.” rispose Volpolo, piombando improvvisamente in una serietà che impressionò i tre ragazzi più grandi.

In quel momento, Volpolo aprì lo zainetto e tirò fuori tre pacchetti di sigarette nuovi di zecca.

“Ma dove le hai prese ‘ste paglie, cugino?” gli domandò il terzo dei bulletti, un dromedario dall’aria sfatta.

Volpolo sorrise e assunse l’aria più innocente del mondo:

“Le ho rubate a degli stronzi.”

Il gruppetto indietreggiò.

“Oh, raga, ma da dove salta fuori ‘sto ragazzino?” domandò il dromedario ai suoi compari, sottovoce.

“Non lo so, è stato partorito ieri e già va in giro con le ciminiere…” borbottò l’orso, che non riusciva a provare una rancorosa ammirazione per il marmocchietto insolente.

“E allora? Che facciamo?” domandò il kappa.

“Le comprate le sigarette o no? Fanno cinquecento stelline a pacchetto.” li esortò Volpolo, sempre con un sorriso angelico sul volto.

“Sì sì, le prendiamo, fanculo.” ringhiò il capo dei bulli, che aveva un vero e proprio vizio del fumo ed era stato bocciato già due volte.

Volpolo si mise a ridere, le parolacce dei più grandi le trovava esilaranti.

“Ciao cugini!” li salutò, scimmiottando l’intercalare del dromedario.

Aveva guadagnato 1500 stelline e a quel pensiero si mise a saltellare allegramente, zainetto in spalla, come qualunque altro bambino della sua età.

Era già l’una e mezza inoltrata quando Volpolo rientrò a casa. C’era bel tempo ed era appena iniziata la primavera, e il bambino non aveva voglia di chiudersi nel suo triste appartamento. Tra l’altro, aveva già pranzato, con un sandwich al tonno e una lattina di cola pescati da un distributore automatico.

Sospirando, il bambino entrò in casa. Stranamente non c’era nessuno di estraneo, soltanto lui e la mamma.

Già, la mamma… Se ne stava seduta in sala da pranzo, con la testa tra le zampe.

“Ciao mamma!”

Non ebbe risposta.

“Non stai bene?”

In quel momento, il volpacchiotto la vide: una bottiglia di whisky completamente vuota.

“Ho finito l’alcol.”

Diamond non era completamente conscia di essere una madre, dal momento che con il suo stile di vita stava letteralmente parassitando l’infanzia di Volpolo, il quale alternava momenti giocosi a momenti di pragmatismo quasi cinico.

“Devo andare a comprartelo io?” le chiese, e la sua vocina allegra assunse un retrogusto amaro, quasi rancoroso, impercettibile per una donna allo sfascio come Diamond.

“Non dire sciocchezze, non lo vendono l’alcol ai bambini.” mugugnò la donna, sistemandosi meglio sul tavolo.

Volpolo la lasciò a macerare nei suoi lieti pensieri e si chiuse in camera, dove cominciò a disegnare. ADORAVA disegnare, ricopiando le forme delle foglie e dei fiori, oppure inventandosi personaggi di fantasia. Quei brevi momenti di gioia gli permettevano di scappare da una realtà che gli faceva schifo, e nel silenzio della sua triste cameretta poteva finalmente piangere, una lacrima alla volta, stando bene attento a non bagnare il foglio bianco.

Le 1075 stelline che gli erano avanzate dopo il pranzo erano rimaste nello zainetto, non le aveva consegnate alla mamma, perché lei i soldi li buttava via, non faceva nulla per togliersi dalla sporcizia. Questo lo aveva capito perfino lui, un bambino di seconda elementare solo e disperato.

La svolta, nella vita di Volpolo, si ebbe un tragico pomeriggio autunnale.

Come sempre, il ragazzino aveva cercato di sgraffignare i soldi dal portafoglio degli uomini che visitavano casa sua, ma quella volta gli era andata male, malissimo.

Uno di loro se n’era accorto e aveva fatto il diavolo a quattro:

“Moccioso schifoso, cosa credevi di fare, eh?!”

Era successo un pandemonio. Volpolo era sgusciato via da quel pastore tedesco rognoso, e questo aveva cominciato a urlare come un pazzo, ad afferrare oggetti a caso ed a scaraventarli per tutta la casa. Diamond, allarmata dalle grida, era andata incontro al losco individuo e questi le aveva tirato uno schiaffo in pieno volto.

“Hai addestrato bene tuo figlio, complimenti!” le aveva detto, con feroce ironia.

La volpe dorata non capiva.

“Cosa intendi?” gli aveva chiesto.

“NON FARE LA FINTA TONTA CON ME! QUEL MOCCIOSO MI HA RUBATO DEI SOLDI!” aveva urlato l’uomo, ancora più forte.

Gli occhi neri di Diamond si allargarono, e si mise a chiamare Volpolo con voce tremante.

Il bambino si era attaccato al telefono ed aveva chiamato la polizia. Stava già arrivando.

Inutile dire che a quella scena il pastore tedesco perse completamente la bussola: spintonò violentemente Diamond e questa batté la testa contro il muro del corridoio. Poco gli importava, voleva solo andarsene da lì prima dell’arrivo degli sbirri.

Volpolo lo vide correre via come un’ombra marrone e nera, e un brivido gli percorse la schiena.

Era finita, forse era finita davvero quell’orribile vita. Gli pareva di essersi risvegliato dopo un lungo torpore.

Quando i poliziotti arrivarono sul posto, trovarono Volpolo immobile, inginocchiato accanto alla madre che intanto perdeva sangue dalle tempie. Le aveva bagnato la fronte con dell’acqua fredda, non sapeva fare altro.

“E ora?” aveva chiesto alla poliziotta che gentilmente lo aveva preso per la zampa; la ragazza si era ammorbidita parecchio di fronte a quegli occhioni di onice brillante, dolci e profondi come un rotolo di liquirizia.

“Ora ti accompagneremo dalla tua vicina, la signora Emiliana. Si prenderà cura lei di te, e nel frattempo noi penseremo alla tua mamma.”

“Le comprerete l’alcol?” domandò Volpolo, con la speranza di sentirsi rispondere di “no.”

La giovane poliziotta lo guardò a lungo, domandandosi che razza di traversie potesse aver affrontato un ragazzino così piccolo.

“No, tesoro, le compreremo le medicine buone che la faranno stare meglio.”

Purtroppo, quei propositi fiabeschi si scontrarono velocemente con la realtà: Diamond era stata portata all’ospedale di Citadelle, dal momento che il colpo alla testa era stato serio, anche se non letale. Una volta qui, aveva atteso di sentirsi un po’ meglio ed era scappata con il favore delle tenebre e un camice rubato durante un cambio turno tra colleghi infermieri.

Nessuno l’aveva più trovata. Non era più tornata nel Vicolo Buio di Citadelle.

Non era tornata a riprendersi suo figlio, l’unica cosa buona che aveva fatto in vita sua.

Sparita, inghiottita dalla terra, fuggita con qualcuno o con i soli spettri del suo passato.

Volpolo, dal canto suo, non avrebbe potuto vivere per sempre con Emiliana, che era una tartaruga di buon cuore ma parecchio avanti con l’età, impossibilitata a stare dietro ad un giovanotto come il volpino.

Così… Si aprirono per lui le porte dell’orfanotrofio.

Volpolo era figlio di padre ignoto e sua madre aveva rotto i ponti con tutta la sua famiglia, la quale era irrintracciabile.

Si decise di allontanarlo da Citadelle, di farlo crescere nell’orfanotrofio Raggio di Sole, distante cinquanta chilometri da lì.

Leafy era una perla nella campagna, un posto verde e incontaminato, sarebbe stato l’ideale per un bambino traumatizzato come il volpacchiotto.

Così, accompagnato dalla stessa poliziotta che lo aveva rassicurato, il bambino dal pelo arancione salutò Citadelle e tutto il dolore che gli aveva arrecato, e con solo una leggera esitazione, salì i gradini del treno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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