Citadelle era una sorta di dea urbana per
le popolazioni rurali: la grande città, con servizi rapidamente accessibili e
più diversificati che nei paesini sperduti tra campagne e colline…
Citadelle era il lusso, erano i gioielli
splendenti ben in mostra nelle vetrine, le atmosfere festaiole del Giorno dei
Giocattoli, le grida dei bambini di fronte ai mega gelati e il vivace viavai di
segretari e commercianti ogni giorno.
Ma Citadelle nascondeva anche indicibili
brutture, che dal cuore dorato della città strisciavano verso i sobborghi, le
periferie.
Là vivevano coloro che avevano smesso di
cercarsi un posto nella società, i derelitti, gli ultimi.
C’erano vicoletti stretti e bui alle
estremità di Citadelle, i quali brulicavano di topi neri e bidoni di latta ricolmi
di spazzatura.
Giravano dei gran brutti musi, gente che
guardava le facce estranee con un misto di famelicità e ostile diffidenza. Un
postaccio.
Lo pensava anche Diamond Sun, una giovane
volpe dal pelo dorato e due occhi sottili e neri, che nella vita avevano
incontrato ogni genere di sconfitta.
Ogni giorno si pettinava la frangia in
modi diversi, ogni giorno cambiava gli orecchini, ogni giorno si truccava gli
occhi con ombretti glitterati dalle tinte aggressive, che sembravano urlare più
dolore che sensualità.
Ogni giorno indossava scarpe col tacco
alto, benché non uscisse praticamente quasi mai di casa.
Ogni giorno aveva addosso vestagline
provocanti, leggere e lucide come seta sopraffina.
E ogni giorno, nuovi passi entravano nel
suo appartamento decadente, con i muri grigi leggermente scrostati e i quadri
che a stento riuscivano a coprire le macchie nere della muffa.
Questo era il mondo di Volpolo, tutto ciò
che aveva conosciuto da quando era nato, otto anni prima.
Lui aveva una stanzetta tutta per sé,
grigia e triste come il resto della casa, e qualche cubetto di legno con il
quale giocare. Era già tanto che sua madre si ricordasse di mandarlo a prendere
lo scuolabus sotto casa.
Stranamente, al bambino quella vita non
pesava, almeno non apparentemente: i brutti ceffi che entravano in casa sua a
qualunque ora del giorno rappresentavano per lui una ventata di novità, poiché
si divertiva a… derubarli.
Tutte le volte che li sentiva chiudersi
in bagno a farsi la doccia, Volpolo forzava la serratura malandata della porta con
una forcina della madre e sgattaiolava all’interno cercando di non farsi
vedere, e con maestria sfilava pacchetti di sigarette o soldi dai pantaloni di
quegli sventurati. Aveva soltanto otto anni Volpolo, ma aveva già capito come andava
il mondo, e non si faceva problemi a derubare persone per le quali non provava
alcuna stima.
I pacchetti di sigarette li infilava nel
suo zainetto giallo e sgualcito, sotto ai quaderni e ai libri, ben nascosti dal
fazzoletto di lino e dalla merendina striminzita che sua mamma gli procurava.
Volpolo non prendeva lo scuolabus per
tornare a casa, ma si recava nei cortili delle scuole medie e superiori non
distanti dal suo istituto, pronto a rivendere le sigarette rubate ai ragazzi
grandi, e per almeno cinquecento stelline a pacchetto.
Gli adolescenti inizialmente si
sorpresero di vedere quello scricciolo di volpe gironzolare da solo all’uscita
delle loro scuole, ben attento a non farsi beccare da bidelli ed insegnanti, ed
all’inizio si fecero beffe di lui. Volpolo se lo ricordava bene il primo giorno
di “vendita”:
“Ehi, volete fumare?” aveva esclamato,
fermando un terzetto di bulletti quattordicenni.
“E questo marmocchio che cosa vuole?”
aveva domandato il kappa, continuando a masticare rumorosamente la sua cicca.
“Smamma, lattante, ché mammina ti
chiama!” sghignazzò il capetto, un orso dall’aria truce.
“Mia madre ha da fare ora.” rispose
Volpolo, piombando improvvisamente in una serietà che impressionò i tre ragazzi
più grandi.
In quel momento, Volpolo aprì lo zainetto
e tirò fuori tre pacchetti di sigarette nuovi di zecca.
“Ma dove le hai prese ‘ste paglie,
cugino?” gli domandò il terzo dei bulletti, un dromedario dall’aria sfatta.
Volpolo sorrise e assunse l’aria più
innocente del mondo:
“Le ho rubate a degli stronzi.”
Il gruppetto indietreggiò.
“Oh, raga, ma da dove salta fuori ‘sto
ragazzino?” domandò il dromedario ai suoi compari, sottovoce.
“Non lo so, è stato partorito ieri e già
va in giro con le ciminiere…” borbottò l’orso, che non riusciva a provare una
rancorosa ammirazione per il marmocchietto insolente.
“E allora? Che facciamo?” domandò il
kappa.
“Le comprate le sigarette o no? Fanno
cinquecento stelline a pacchetto.” li esortò Volpolo, sempre con un sorriso
angelico sul volto.
“Sì sì, le prendiamo, fanculo.” ringhiò il capo dei bulli, che
aveva un vero e proprio vizio del fumo ed era stato bocciato già due volte.
Volpolo si mise a ridere, le parolacce
dei più grandi le trovava esilaranti.
“Ciao cugini!” li salutò, scimmiottando
l’intercalare del dromedario.
Aveva guadagnato
1500 stelline e a quel pensiero si mise a saltellare allegramente, zainetto in
spalla, come qualunque altro bambino della sua età.
Era già l’una e mezza inoltrata quando
Volpolo rientrò a casa. C’era bel tempo ed era appena iniziata la primavera, e
il bambino non aveva voglia di chiudersi nel suo triste appartamento. Tra
l’altro, aveva già pranzato, con un sandwich al tonno e una lattina di cola
pescati da un distributore automatico.
Sospirando, il bambino entrò in casa. Stranamente
non c’era nessuno di estraneo, soltanto lui e la mamma.
Già, la mamma… Se ne stava seduta in sala
da pranzo, con la testa tra le zampe.
“Ciao mamma!”
Non ebbe risposta.
“Non stai bene?”
In quel momento, il volpacchiotto la
vide: una bottiglia di whisky completamente vuota.
“Ho finito l’alcol.”
Diamond non era completamente conscia di
essere una madre, dal momento che con il suo stile di vita stava letteralmente
parassitando l’infanzia di Volpolo, il quale alternava momenti giocosi a
momenti di pragmatismo quasi cinico.
“Devo andare a comprartelo io?” le
chiese, e la sua vocina allegra assunse un retrogusto amaro, quasi rancoroso,
impercettibile per una donna allo sfascio come Diamond.
“Non dire sciocchezze, non lo vendono
l’alcol ai bambini.” mugugnò la donna, sistemandosi meglio sul tavolo.
Volpolo la lasciò a macerare nei suoi lieti pensieri e si chiuse in camera,
dove cominciò a disegnare. ADORAVA disegnare, ricopiando le forme delle foglie
e dei fiori, oppure inventandosi personaggi di fantasia. Quei brevi momenti di
gioia gli permettevano di scappare da una realtà che gli faceva schifo, e nel
silenzio della sua triste cameretta poteva finalmente piangere, una lacrima
alla volta, stando bene attento a non bagnare il foglio bianco.
Le 1075 stelline
che gli erano avanzate dopo il pranzo erano rimaste nello zainetto, non le
aveva consegnate alla mamma, perché lei i soldi li buttava via, non faceva
nulla per togliersi dalla sporcizia. Questo lo aveva capito perfino lui, un
bambino di seconda elementare solo e disperato.
La svolta, nella vita di Volpolo, si ebbe
un tragico pomeriggio autunnale.
Come sempre, il ragazzino aveva cercato
di sgraffignare i soldi dal portafoglio degli uomini che visitavano casa sua,
ma quella volta gli era andata male, malissimo.
Uno di loro se n’era accorto e aveva
fatto il diavolo a quattro:
“Moccioso schifoso, cosa credevi di fare,
eh?!”
Era successo un pandemonio. Volpolo era
sgusciato via da quel pastore tedesco rognoso, e questo aveva cominciato a
urlare come un pazzo, ad afferrare oggetti a caso ed a scaraventarli per tutta
la casa. Diamond, allarmata dalle grida, era andata incontro al losco individuo
e questi le aveva tirato uno schiaffo in pieno volto.
“Hai addestrato bene tuo figlio,
complimenti!” le aveva detto, con feroce ironia.
La volpe dorata non capiva.
“Cosa intendi?” gli aveva chiesto.
“NON FARE LA FINTA TONTA CON ME! QUEL
MOCCIOSO MI HA RUBATO DEI SOLDI!” aveva urlato l’uomo, ancora più forte.
Gli occhi neri di Diamond si allargarono,
e si mise a chiamare Volpolo con voce tremante.
Il bambino si era attaccato al telefono
ed aveva chiamato la polizia. Stava già arrivando.
Inutile dire che a quella scena il
pastore tedesco perse completamente la bussola: spintonò violentemente Diamond
e questa batté la testa contro il muro del corridoio. Poco gli importava,
voleva solo andarsene da lì prima dell’arrivo degli sbirri.
Volpolo lo vide correre via come un’ombra
marrone e nera, e un brivido gli percorse la schiena.
Era finita, forse era finita davvero
quell’orribile vita. Gli pareva di essersi risvegliato dopo un lungo torpore.
Quando i poliziotti arrivarono sul posto,
trovarono Volpolo immobile, inginocchiato accanto alla madre che intanto
perdeva sangue dalle tempie. Le aveva bagnato la fronte con dell’acqua fredda,
non sapeva fare altro.
“E ora?” aveva chiesto alla poliziotta
che gentilmente lo aveva preso per la zampa; la ragazza si era ammorbidita
parecchio di fronte a quegli occhioni di onice brillante, dolci e profondi come
un rotolo di liquirizia.
“Ora ti accompagneremo dalla tua vicina,
la signora Emiliana. Si prenderà cura lei di te, e nel frattempo noi penseremo
alla tua mamma.”
“Le comprerete l’alcol?” domandò Volpolo,
con la speranza di sentirsi rispondere di “no.”
La giovane poliziotta lo guardò a lungo,
domandandosi che razza di traversie potesse aver affrontato un ragazzino così
piccolo.
“No, tesoro, le compreremo le medicine
buone che la faranno stare meglio.”
Purtroppo, quei propositi fiabeschi si
scontrarono velocemente con la realtà: Diamond era stata portata all’ospedale
di Citadelle, dal momento che il colpo alla testa era stato serio, anche se non
letale. Una volta qui, aveva atteso di sentirsi un po’ meglio ed era scappata
con il favore delle tenebre e un camice rubato durante un cambio turno tra
colleghi infermieri.
Nessuno l’aveva più trovata. Non era più
tornata nel Vicolo Buio di Citadelle.
Non era tornata a riprendersi suo figlio,
l’unica cosa buona che aveva fatto in vita sua.
Sparita, inghiottita dalla terra, fuggita
con qualcuno o con i soli spettri del suo passato.
Volpolo, dal canto suo, non avrebbe
potuto vivere per sempre con Emiliana, che era una tartaruga di buon cuore ma
parecchio avanti con l’età, impossibilitata a stare dietro ad un giovanotto
come il volpino.
Così… Si aprirono per lui le porte dell’orfanotrofio.
Volpolo era figlio di padre ignoto e sua
madre aveva rotto i ponti con tutta la sua famiglia, la quale era
irrintracciabile.
Si decise di allontanarlo da Citadelle,
di farlo crescere nell’orfanotrofio Raggio di Sole, distante cinquanta
chilometri da lì.
Leafy era una perla nella campagna, un
posto verde e incontaminato, sarebbe stato l’ideale per un bambino
traumatizzato come il volpacchiotto.
Così, accompagnato dalla stessa
poliziotta che lo aveva rassicurato, il bambino dal pelo arancione salutò
Citadelle e tutto il dolore che gli aveva arrecato, e con solo una leggera
esitazione, salì i gradini del treno.