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Autore: nydrali    20/07/2022    1 recensioni
Isabel è una ragazza normale ... almeno fino al giorno in cui un magico talismano non la catapulta nell'Antica Roma. Riuscirà a sopravvivere e a tornare a casa?
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Talismano'
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Il fatto che avesse deciso di piovere proprio quella mattina, dopo due mesi della più caparbia siccità, era una ineluttabile prova che il mondo non voleva che lei uscisse con la gonna. Ma quando Isabel fece per ritornare in casa, determinata a levarsi di dosso quello svolazzante abominio della moda, si trovò faccia a faccia con lo sguardo finalmente soddisfatto ed orgoglioso di sua madre, e di colpo perse la parola. Riuscì solamente a borbottare qualcosa su un ombrello che aveva lasciato all’ingresso, prima di tornare ad affrontare le intemperie.
Nemmeno a dirlo, nel breve tragitto che la separava dalla scuola riuscì ad infradiciarsi fino al midollo, con quegli urticanti strumenti di tortura che sua madre chiamava collant che le aderivano addosso come una sorta di pelle morta. Pelle di pesce, per la precisione. Isabel avrebbe giurato che nemmeno Moby Dick era mai stata zuppa quanto lei in quel momento. La vista dei suoi compagni altrettanto bagnati ed altrettanto infastiditi la rallegrò solo un po’, perché il suo sguardo attento colse immediatamente un non-irrilevante dettaglio: il novanta per cento della popolazione femminile della St.George School portava i jeans. Sbuffò, imprecò contro gli occhioni luccicanti di sua madre e contro il mefistofelico inventore del nylon, quindi si diresse a passo di marcia verso il suo armadietto.
Joseph la intercettò un attimo prima che riuscisse a ricordare quella maledetta combinazione.
« 1-5-6-3 », le disse, appoggiandosi all’armadietto accanto e sorridendole divertito.
Isabel sospirò. « Grazie ». Aprì l’anta e frugò tra le migliaia di cianfrusaglie che infestavano l’antro abbastanza minaccioso del mobiletto, finché non riuscì a trovare un asciugamano che probabilmente doveva essere lì da qualche decennio. Controllò che non ospitasse muffe o funghi particolarmente nocivi, dopodiché se lo passò sui capelli fradici.
« Come mai oggi con la gonna? ».
Eccola, la domanda tanto temuta. Isabel roteò gli occhi e scrollò il capo. « Mia mamma me l’ha regalata per Natale e ieri sera mi ha fatto quasi una crisi di pianto perché non l’avevo ancora messa », spiegò, « Non ce l’ho fatta proprio a dirle di no un’altra volta ».
Jo le diede un’occhiata integrale. « Non ti sta male », commentò, « Anzi, direi che ti sta proprio bene ».
« Non è questo il punto », sbuffò Isabel richiudendo quasi con ira il povero armadietto, « Il punto è che pizzica da morire ».
« Be’, dovrai abituartici ».
« No, affatto! », protestò animatamente Isabel.
« Oh, sì, invece. Se vuoi diventare avvocato dovrai portare il tailleur, e per portare il tailleur dovrai avere le calze. Quindi … », concluse Joseph con un largo sorriso, « … se vuoi fare l’avvocato devi portare le calze ».
Isabel gli fece pat-pat sulla testa riccioluta. « Sì, certo … continua a dormire, Jo, fai la nanna ».
« Guarda che dico sul serio! », protestò il ragazzo, ma per sua fortuna la campanella lo salvò dalla risposta, certamente caustica, della sua migliore amica.
I due ragazzi presero i libri e si avviarono verso l’aula della professoressa Madisons, mescolandosi allo sciame piuttosto composito degli studenti della St.George. Joseph, in mezzo a quella calca, scompariva: era alto poco meno di un metro e sessantacinque, ed in mezzo a tanti campioni di rugby sembrava un pulcino in un serraglio di struzzi, impressione amplificata dal suo ridicolo ed amatissimo maglione giallo limone, che si toglieva solo quando era strettamente indispensabile. La sorella maggiore di Isabel, Dawn, amava ripetere che Jo era diventato suo amico perché lei era l’unica ragazza della scuola che non lo facesse sentire il nipote olivastro di Grande Puffo. Il che era una carognata bella e buona, visto che i due erano amici fin da bambini, quando Joseph non era né più alto né più basso della maggior parte dei suoi coetanei. E del resto, che colpa ne aveva lui se i suddetti suoi coetanei avevano preso la bizzarra abitudine di allungarsi, fatica che il piccolo Jo non aveva proprio voluto intraprendere? D’altro canto, Isabel doveva ammettere che Joseph sembrava davvero sentirsi maggiormente a suo agio con le ragazze più piccole di lui, che – a parte le bambine di dieci anni – non erano certo moltissime. Isabel, dal basso del suo metro e cinquantasette, costituiva una gradita eccezione.
« Buon giorno », squillò la Madisons entrando, puntuale come un orologio svizzero, al suo solito. L’anziana insegnante si diede appena il tempo di controllare i presenti che subito iniziò a sproloquiare di anacoluti e metonimie, lasciando gran parte dei suoi studenti immersi in un sobbollente brodo di noia totale. Del canto suo, Isabel poteva onestamente affermare di non essersi mai annoiata durante le lezioni della professoressa Madisons. E la ragione di tanto entusiasmo poteva essere riassunta in due, meravigliose parole: Edward Lars. La versione macho di Leonardo di Caprio. Il Dio della St.George. Il più magnifico diciottenne che l‘America avesse mai avuto l’onore di allevare. O almeno questa era la personale opinione di Isabel, che però sembrava condivisa da una buona fetta delle sue compagne di scuola, ed in particolar modo da Julia Peters.
Istintivamente, lo sguardo di Isabel passò alla sempiterna fidanzata di Edward. Oh, se solo si fosse trattata di una cheerleader dal trucco rosato, la risata oca e il davanzale rifatto! Avrebbe potuto togliersi il sano sfizio di odiarla con tutte le sue forze! Ebbene no, anche quel minuscolo piacere le era negato: Julia era semplicemente adorabile. Non particolarmente bella, era dotata però di una grazia e di una dolcezza che la rendevano immediatamente desiderabile: aveva occhi grandi, azzurri, lunghi capelli d’un caldo castano dorato sempre sobriamente raccolti, un sorriso luminoso, caldo, dolcissimo, ed uno stile modesto, da brava ragazza, che la spingeva a sfoggiare completini nei colori pastello e cappelli di maglia fatti a mano dalla nonna novantenne. Era una delle più brave delle classe, senza però essere così concentrata nello studio da poter essere classificata come una “secchiona “, e d’altro canto non aveva mai riscontrato particolari difficoltà nello sport. Era sempre gentile e disponibile con tutti, Isabel compresa, al punto che persino quella vipera di Dawn non faceva che parlar bene di lei.
« Signorina Nelson », chiamò la Madisons strappandola alle sue lugubre riflessioni, « Potrebbe gentilmente farmi un esempio di metonimia? ».
Isabel dovette scavare nella propria memoria per un paio di minuti, prima di scovare un esempio quanto meno passabile, che l’arcigna professoressa accolse con una storta di bocca. « Se lo dice lei, signorina Nelson », commentò, prima di voltarsi verso Joseph e ripetergli la domanda.
Grazie al Cielo e agli Déi benevoli che lo abitano, ben presto quella tortura ebbe fine, e Isabel poté ammirare la sublime visione di Edward che si alzava, stirava i muscoli e si avviava a passo felino verso l’uscita. Il dettaglio di Julia che lo raggiungeva sulla soglia non la disturbò più di tanto, anche perché nel frattempo Jo le su piazzò davanti ricordandole che avevano subito un’altra lezione.
« Dammi solo un attimo, Jo », ribatté lei, « Devo proprio cambiarmi, altrimenti ammattisco ».
« Come vuoi, ci vediamo in classe », le gridò dietro Joseph, mentre lei già schizzava in direzione del suo armadietto. Le occorse un minuto intero per poter ricordare quella stramaledettissima combinazione, ed altri cinque per riuscire a far ricomparire i pantaloni della tuta che aveva abbandonato lì … bah, forse un paio di mesi prima, ma chi poteva dirlo? Corse in bagno, chiudendosi in una toilette meno lercia delle altre e con un immenso sospiro di sollievo si levò le collant. Accolse come una manna dal cielo il tessuto morbido e caldo della tuta e andò a darsi un’occhiata allo specchio. Certo, la camicetta bianca ed il gilet porpora stonavano disgraziatamente con il grigio tortora della tuta, ma Isabel decise che avrebbe affrontato le critiche modaiole delle sue compagne, piuttosto che costringersi di nuovo dentro quei terribili reticolati di nylon. Tanto che c’era si diede anche una ravvivata ai capelli scuri, senza però ottenere alcun risultato, soddisfacente o meno: sebbene fossero appena mossi – e quindi in teoria domabili – i suoi capelli sembravano dotati di una volontà propria, che li spingeva a ribellarsi a qualsiasi acconciatura che non fosse la coda da cavallo o, in mancanza d’un solido nastrino, una cascata folta e indocile di ciocche nere, ognuna cresciuta in una direzione diversa.
Tanto valeva lasciar stare, così Isabel corse a seppellire gonna e collant nelle profondità del suo armadietto e raggiunse gli altri in classe, dove la professoressa Greenside stava già distribuendo degli amabili test a sorpresa. Grazie al cielo il buon Jo aveva dei bigini belli e pronti, che si offrì cavallerescamente di condividere con lei, salvandola da una cocente e sicura insufficienza.
Il suono della campanella fu accolto da un coro di disperazione e sollievo: disperazione perché il tempo era assolutamente troppo poco per terminare il compito, sollievo perché potevano passare oltre.
All’uscita, Peter Nunn le si avvicinò, stringendosi al petto il poco coraggio che aveva assieme ad una montagna di libri. Peter era un ragazzo alto, magrissimo, con un gran naso foruncoloso e stopposi capelli rossi e, fin dal primo giorno di scuola, era follemente innamorato di Isabel.
« Co… co… come t… t… ti è and… and… andato il com… com… », balbettò.
« Il compito? Non male », rispose distrattamente lei, cercando con lo sguardo la sagoma di Jo fra la calca dei ragazzi che sciamava fuori dall’aula. Voleva ringraziarlo per i bigini, ma il piccoletto sembrava svanito nel nulla.
« Non ce l… l… l’asp… asp… aspet… aspettavamo, eh? », continuò Peter. Solitamente lui non balbettava così tanto, ma Isabel - coi suoi grandi occhi scuri, il suo viso dai tratti fini ed i suoi lunghi capelli neri - riusciva sempre a metterlo in agitazione. Quando era con lei, Peter non poteva a fare a meno di sembrare un perfetto idiota. « Mag… mag… magari do… dopo… ».
In quel momento Isabel scorse il maglione giallo dell’amico fra la selva di t-shirt sbiadite e divise da football. Jo le fece cenno di raggiungerla e lei annuì.
« Ci vediamo, Peter », salutò in fretta, allontanandosi. Il povero ragazzo, piantato in asso, riuscì a mala pena ad alzare una mano in un cenno di saluto di cui la ragazza non si accorse minimamente.
« Come è andata? », le chiese Jo non appena lo raggiunse.
« Ti amo. Ecco come è andata », sorrise Isabel seguendolo verso il fondo del corridoio.
Il resto della giornata trascorse pigramente e grigiamente, com’è giusto che sia una giornata di pioggia in aprile, e quando infine Isabel si riavviò verso casa sembrava passata un’eternità. Joseph la accompagnò per un tratto, raccontandole l’ultima puntata di “ Smallville “, che lei si era persa per colpa di quella peste di sua sorella.
A riprova che il tempo era decisamente contro di lei, le nuvole si diradarono e comparve un tiepido sole proprio mentre stava imboccando il vialetto di casa. Sua madre per fortuna era al lavoro, così non scoprì il suo tradimento e non vide la figliola nascondere in bagno la gonna e le calze ancora zuppe. Con un sospiro di sollievo Isabel si liberò anche della camicetta e si infilò una tuta comoda e parecchio informe che usava in casa. Agguantò un pacchetto di biscotti salati e si lanciò sul divano, atterrando con un una certa grazia proprio accanto al tavolino con l’abatjour e il telecomando. « Dio sia lodato! », esclamò, stirandosi come un gatto davanti al camino ed accendendo il televisore. Capo a dieci minuti si stava annoiando: non era mai stata il tipo da zapping, e per di più quel pomeriggio sembrava che i programmi di qualità si fossero organizzati per scioperare in massa. Sbuffando, spense lo schermo e si sdraiò a pancia in su fissando il soffitto candidamente intonacato.
« Che pizza », sospirò. In una giornata normale sarebbe corsa al parco, per giocare con Kik, il suo golden retriever, oppure si sarebbe spalmata sul divano a chiacchierare al telefono con Maria, la sua migliore amica che l’anno prima si era trasferita a Miami. Però quel giorno aveva piovuto, perciò il parco era una specie di campo minato con subdole sabbie mobili e pozzanghere profonde quanto il Triangolo delle Bermuda, mentre Maria aveva gli allenamenti di atletica, perciò non sarebbe ritornata a casa prima di sera.
Sospirando, Isabel si alzò e si trascinò fino alla libreria più vicina, dove sua sorella amava ammucchiare libri che di rado sfogliava. Lasciò scorrere lo sguardo sui titoli, sempre più depressa man mano che l’elenco di “amori ribelli” e “passioni infuocate” si allungava. Alla fine, stabilì che doveva urgentemente trovare un ragazzo a Dawn e abbandonò l’idea di leggere un libro.
Di aprire il libro di Economia non se ne parlava nemmeno – piuttosto la morte – perciò Isabel si approntò a fare quello che faceva di solito in situazioni simili: infilò il cappotto e le scarpe ed andò da Zia Dag.
Superare il giardino avrebbe richiesto un’attrezzatura subacquea, perciò Isabel fece la strada più lunga, passando dalla strada, ma in ogni caso non le occorsero più di due minuti per raggiungere l’amato rifugio. Bussò un paio di volte e subito le rispose un abbaiare potente. « Buono, Zanna, sono io », esclamò la ragazza, e immediatamente il latrato si zittì. Un istante ancora e la porta si spalancò.
« Ciao, piccola. Che succede? », esclamò Zia Dag, appoggiandosi allo stipite della porta.
« Noia », sospirò la ragazza.
« Oh, numi del cielo! Rimediamo subito, non temere! Entra, entra! », esclamò, premurosa, la donna.
Isabel non aveva mai conosciuto nessuno come Zia Dag. Ovviamente quell’amabile signora non era davvero sua zia, ma visto che persino il pastore la chiamava così, lei aveva sempre trovato naturale quel titolo. Zia Dag aveva qualcosa come ottant’anni, ma nessuno – nemmeno il più cinico dei farabutti – avrebbe mai potuto azzardarlo. Tanto per cominciare era alta, dritta e forte, con un fisico snello e, per quanto fosse incredibile, atletico. Una volta era venuta a prendere Isabel a scuola in sella alla sua Ducati, chiusa in una tuta da motociclista e con il casco abbassato, e alcuni dei ragazzi le avevano fischiato dietro ammirati. Poi Zia Dag si era tolta il casco e a quei poveretti allupati era venuto un infarto. Perché, certo, aveva ancora i capelli rosso fuoco, però si vedeva che non era una ventenne. A guardarla, in effetti, sembrava una bella donna di cinquantacinque anni. Sessanta, se proprio si era bastardi.
« Allora, piccola mia, come mai tanto tedio? », le domandò, andando a preparare la sua spettacolare cioccolata. Isabel accarezzò distrattamente Zanna, un Rottweiller docile come un agnellino, e si abbarbicò sulla sponda del grande divano che troneggiava in salotto. « Maria è ad atletica e oggi ha piovuto », riassunse.
« Tragico! Davvero tragico! », commentò Zia Dag, seria. « E perché non sei fuggita da Jo? ».
« Perché è mercoledì », spiegò la ragazza, certa che la donna comprendesse: era universalmente noto che la madre di Jo il mercoledì lavorava fino a tardi, per cui il piccolo ragazzo doveva occuparsi dei tre, pestiferi, fratellini.
« Ah, già! È vero! E così l’hai abbandonato in mano al nemico, eh? Crudele, piccola mia. Saggio, ma crudele », commentò la donna, allungandole una tazza fumante di densa cioccolata calda.
« Lo so. Mi dispiace », rispose istintivamente Isabel.
« Ti dispiace? E perché? », esclamò Zia Dag, « È assolutamente magnifico! ».
Isabel ridacchiò ed iniziò a sorseggiare la sua cioccolata. « Bene, Zia Dag. Che cosa mi proponi per oggi? ».
L’anziana signora rifletté un momento, mentre – apparentemente non visto – Zanna approfittava della sua cioccolata abbandonata incautamente su un tavolino del salotto. « Credo che oggi ti farò vedere una cosa che tengo in soffitta ».
Il sorriso di Isabel si allargò a dismisura: la soffitta di Zia Dag era il posto più incredibile del pianeta. Ci si trovava di tutto, dai paraventi giapponesi ai siluri tedeschi della seconda guerra mondiale, dai sesterzi Romani ai volantini del Moulin Rouge. Che diamine! C’era persino una statua a grandezza naturale della Regina Vittoria! « Su, avanti, vieni con me! », la incitò la donna, avviandosi su per le scale.
« Dove metto questa? », domandò Isabel alludendo alla tazza.
« Appoggiala per terra: ci penserà Zanna e finirla », tagliò corto Zia Dag, scomparendo al piano superiore. Isabel non esitò un attimo ad obbedirle e a raggiungerla. La donna stava aprendo una botola che portava al solaio, riempiendosi di polvere che cadeva dal soffitto. Tossì un poco, si spolverò appena e chiese alla ragazza di passarle la scala a pioli che teneva provvidenzialmente a portata di mano.
Salirono, senza badare alla poca stabilità del loro sostegno, giungendo in un ampio locale dal soffitto basso e dalle imposte chiuse. Avanzando a tentoni, Zia Dag spalancò la più vicina, illuminando la soffitta, ingombra d’oggetti d’ogni genere praticamente fino al soffitto.
« Molto bene », esordì, « Vediamo dove l’ho messo ». Era la frase di rito, e subito Isabel si illuminò, ben sapendo che stava per seguire una lunga ricerca che probabilmente si sarebbe protratta per tutta la serata. Ma con sua grande delusione, questa volta Zia Dag scovò quasi subito l’oggetto in questione, sepolto sotto una bandiera australiana ed un paio di volumi settecenteschi del Kamasutra.
« Eccolo qui! », esclamò la donna, e si bloccò. Per un attimo parve esitare, come soprafatta da un qualche ricordo lontano. Isabel la vide accarezzare qualcosa che teneva nel palmo della mano con malinconia, quasi tristezza. Fu però solo un momento: Zia Dag rizzò la testa, annuì come per convincersi di qualcosa e si voltò di scatto per mostrare alla sua giovane vicina la sua scoperta.
Si trattava di un ciondolo d’argento lucente, filigranato con infinita grazia a forma di stella, con al centro una grande pietra ovale d’un blu intenso. Era a dir poco magnifico, elegante oltre ogni dire, nonostante fosse di dimensioni piuttosto ragguardevoli: in effetti, era grande quanto il palmo della donna.
« Bellissimo! », esclamò, sbalordita, Isabel.
« Aspetta di vederlo alla luce. Vieni », la invitò Zia Dag, portandosi sotto la finestra. Isabel rimase a bocca aperta, quando si rese conto che l’anziana donna aveva ragione: la pietra al sole pareva prendere vita, rilucendo come se al suo interno fosse stato racchiusa una scheggia di cielo notturno, con miriadi di stelle che ammiccavano perfette e splendenti.
« Incredibile! », riuscì solo a mormorare.
« Che ti dicevo? », sorrise Zia Dag. Ancora una volta esitò, ma subito allargò un luminoso sorriso, « Me l’ha regalato un mio ammiratore quando ancora vivevo al Cairo », si affrettò a spiegare, senza curarsi di ricordarle che lavoro facesse lì. In effetti, era stata una spia, ed una di quelle brave, almeno a sentir lei. « A proposito del Cairo! Devo avere da qualche parte l’uniforme di quel colonnello inglese? Come si chiamava? », borbottò, iniziando a frugare fra i bauli.
Trovata l’uniforme, Zia Dag decise che doveva assolutamente farle vedere il sasso con incisioni che aveva trovato sotto le piramidi, dopodiché le venne in mente di quel fucile che aveva rubato a quel tenente nazista di cui – nemmeno a dirlo – non si ricordava il nome, sebbene avesse ben chiaro in mente quanto fosse abile sotto le lenzuola. Non riuscì a trovare l’arma in questione, ma in compenso scovò una maschera tribale africana, che le fece venire in mente la copia cinquecentesca della Divina Commedia che doveva proprio avere lì da qualche parte ( con un collegamento logico tra le due cose che sfuggì completamente alla povera Isabel ), ma che non riuscì a rinvenire, anche se nel cercarla scovò l’abito da sposa che aveva indossato al suo terzo matrimonio, e che era convinta di aver perso a Rio de Janeiro qualcosa come cinquant’anni prima. Quando Isabel si azzardò a chiederle cosa ci facesse a Rio, Zia Dag si lanciò in una complessa spiegazione che comprendeva un elefante, cinque uova di Pasqua andate a male ed un triciclo di legno ( che, per altro, doveva essere lì da qualche parte ). Non del tutto convinta, Isabel preferì lasciar perdere, e quando infine diede un’occhiata all’orologio, scoprì che era ora di cena.
« Dio! Ce l’abbiamo fatta! Abbiamo superato il pomeriggio! », esclamò, raggiante.
« Visto, che ti avevo detto? Dai, su, scendiamo, prima che tua madre mi denunci alla protezione civile per rapimento ». Uscire dalla soffitta di Zia Dag era sempre un po’ doloroso, ma quella volta Isabel non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene, perché l’anziana donna le mise in mano qualcosa non appena raggiunsero il pian terreno. Con sua grande meraviglia, Isabel si rese conto che si trattava del ciondolo d’argento.
« Non posso! È tuo! », protestò Isabel.
La donna aveva un’aria seria e grave. « No, tienilo tu. È tempo che me ne sbarazzi », disse semplicemente.
Isabel tentò ancora in ogni modo di rifiutare, ma Zia Dag fu irremovibile, così che infine la ragazza dovette cedere e accettò di metterselo al collo, scoprendo inoltre che – nonostante la mole – era incredibilmente leggero. Promise a Zia Dag di tornare a trovarla al più presto e si affrettò a casa, dove sua sorella Dawn la accolse con un mugugno non meglio traducibile, immersa com’era in una delle sue letture preferite. Isabel tentò di sbirciare il titolo del volume, ma quando colse le parole “giovane segretaria” tra le molte che affollavano la copertina, si sentì di colpo indisposta e corse in cucina.
Sua madre era intenta a preparare la cena. « Apparecchia la tavola », le ordinò brevemente dopo averle allungato un bacio da dietro una spalla. Alice Nelson era una donna alta, elegante, con una grande passione per le scarpe: ne aveva decine e decine, accuratamente riposte in una enorme scarpiera della sua cabina armadio. Quel giorno portava un paio di decolleté color panna con un sottilissimo tacco di sette centimetri.
« Ma Dawn sta leggendo! Perché non l’hai chiesto a lei! », protestò automaticamente Isabel, mettendosi in bocca un boccone del ripieno che Alice stava frullando.
« Dawn ha steso i panni », rispose Alice, ed in quel momento la voce di suo marito, Frank, risuonò dal salotto.
« Sono a casa ».
« La porta! », gridarono in coro Dawn, Alice e Isabel, ma inutilmente: uno schianto sonoro riverberò per tutta la casa.
« Ops », si scusò, come ogni santissimo giorno, Frank.
Isabel saltellò in salotto. « Papà, c’è da apparecchiare la tavola », informò.
« Va bene, tesoro », sorrise innocentemente lui.
« Isabel! », la sgridò Alice dalla cucina, ma la ragazza sgattaiolò via prima che il padre capisse di essere stato beffato. Dawn le fece l’occhiolino dal divano e le lanciò una caramella che Isabel scartò ed ingoiò mentre si chiudeva in camera sua.
Fece appena in tempo a lanciarsi sul letto che il suo cellulare prese ad intonare la marcia di Radetzky.
« Pronto », esclamò
« Oh, finalmente! », l’accolse la voce di Joseph, « È tutto il giorno che provo a chiamarti. Ma dove sei finita? ».
« Da Zia Dag », rispose Isabel, prendendo in mano il magnifico ciondolo ed ammirandolo, ancora incredula che ora appartenesse davvero a lei, « Avevi bisogno di qualcosa? ».
« Una corda solida ».
« Hai deciso di legare i tuoi fratelli? ».
« No, ho deciso di impiccarmi », sospirò il ragazzo, apparentemente disperato, « Tu non hai idea di che cosa è successo questo pomeriggio ».
« Non dirmi che Anthony si è dato di nuovo fuoco ai capelli! ».
« No, peggio! Migliaia di migliaia di volte peggio! ».
Isabel saltò sul letto. « Non dirmelo! È tornata! », esclamò, disperata.
« Sì! », gemette Joseph. « Proprio oggi! E mia mamma non mi ha detto niente! ».
« Che donna subdola e crudele! », commentò Isabel, che ben comprendeva la disperazione del suo amico: il ritorno di sua nonna era una catastrofe seconda solo alle cavallette. Aveva sessantacinque anni ed era profondamente convinta che in pratica ogni azione umana fosse un peccato capitale contro Dio. Andavi all’università? Ecco che peccavi di superbia, volendo indagare i misteri della natura imposti dal Signore. Compravi del pane? Ebbene, saresti bruciato all’Inferno, perché soccombevi ai piaceri della carne! Osavi guardare la tv? Ma non sapevi che è il veicolo del Demonio?
« Vuoi che ti ospiti? », si offrì Isabel, preoccupatissima per la salute mentale del povero Jo.
« No, grazie, mi sono già organizzato », la rassicurò lui, « Volevo solo avere qualcuno con cui sfogarmi ».
Isabel sospirò e si lasciò scivolare a pancia in su tra le coperte. « Okay, sono pronta, sfogati », gemette.
Joseph non se lo fece ripetere due volte e per la mezz’ora successiva elencò con puntigliosità quasi maniacale le singole battute – acide e morbosamente pie – della sua santissima nonna, arrivando a definirla il “ Quinto Cavaliere dell’Apocalisse “.
Isabel ci provò davvero, con tutto l’impegno di cui era capace, ad ascoltarlo, ma dopo i primi dieci minuti di sproloqui su maledizioni e punizioni divine, semplicemente non riuscì ad impedire alla sua mente di volarsene da tutt’altra parte. In particolare, volò da Zia Dag. Non aveva mai conosciuto nessuno come lei. Prendeva terribilmente sul serio sciocchezze come la noia di un pomeriggio o la tragedia di un orsetto investito da una bicicletta, ed era capace di ridere fragorosamente o di sorvolare su tragedie vere e proprie e questioni importanti come guerre o crimini perpetrati a dieci metri da casa sua.
Fece dondolare il ciondolo, ammirandone rapita la lucentezza incredibile: non aveva mai sentito parlare di una pietra simile ad una scheggia di cielo stellato.
Assalita da un’improvvisa fitta di curiosità, si alzò e corse al computer. Mentre Joseph continuava a sproloquiarle in un orecchio di come sua nonna avesse condannato le sue letture ( i fumetti di Spiderman ) perché lo portavano ad adorare un falso dio, Isabel si diede da fare per trovare un qualche accenno su una pietra simile su internet. Ma per quanto cercasse riusciva ad imbattersi solo in multinazionali cinesi che producevano mobili e monili decorati con piccole stelle. Niente di vagamente simile all’oggetto che reggeva in mano, comunque.
« Non capisco … ».
« Cosa? Te l’ho detto! Stavo andando in bagno e lei … ».
« No, non sto parlando di tua nonna, Jo. Parlo di questo », scosse il capo la ragazza, raccontando all’amico del regalo di Zia Dag e del fatto che non trovasse nessun riferimento ad una gemma simile.
« Può darsi che siano semplicemente impurità. Forse è un opale o qualcosa del genere con dei cristalli di sabbia all’interno. O forse è solo della plastica con della polverina dorata ».
« Non è plastica! », protestò subito Isabel, « E non sono nemmeno cristalli di sabbia. È la pietra che è fatta così. Solo che non so che cosa sia », commentò, assorta, avvicinando il ciondolo alla lampada. Lo osservò più da vicino, scorrendo col dito lungo la filigrana argentea. I suoi occhi furono nuovamente catturati dall’ammagliante bellezza della gemma, blu come la notte, con quel bagliore di minuscole stelle che la rendevano quasi palpitante, quasi viva.
« Dio, Jo, giurerei che stanno barbagliando, come le stelle vere. Ammiccano, rilucono, guizzano ».
« Va bene, Isabel, che cosa ti sei bevuta da Zia Dag? », ridacchiò Joseph all’altro capo del telefono.
Ma Isabel non lo ascoltava. Era come se quelle schegge di stelle la stessero ipnotizzando: si sentiva lontana, distante, quasi osservasse la vita da dietro uno schermo. Tutto ciò di cui era certamente conscia erano quelle piccole stelle, quel cielo non più grande del pugno d’un bimbo, e quel loro baluginio ammagliante di costellazioni che proprio non riusciva a riconoscere…
 
La porta sussultava, tanta era la violenza con cui qualcuno stava bussando. Zia Dag avanzò nel buio della sala, Zanna che scivolava silenzioso al suo fianco, gli occhi fissi sull’uscio scosso con forza. Allungò la sinistra sulla maniglia. Nella destra reggeva la rivoltella con cui aveva sparato al leone che aveva ucciso Gabriel, il suo primogenito. Fece scattare silenziosamente il cane. Si appoggiò al legno tempestato di colpi e domandò a voce stentorea: « Chi diavolo è? ».
« Jospeh! Sono Joseph! Mi apra! Presto! ».
Zia Dag lasciò sfuggire di colpo il fiato che aveva involontariamente trattenuto. Sorrise di sollievo, nascose la rivoltella in un cassetto del mobiletto d’ingresso ed aprì la porta. Joseph entrò come un tornado, quasi travolgendola.
« Che diamine ha fatto, eh? Lei lo sa, vero? Me lo dica, avanti? Non capisce che non può farlo? Sono tutti preoccupati! Persino Dawn! Ma lei non è scappata, giusto? Anch’io lo so! Ero al telefono! Quelle stelle, giusto? Avanti, me lo dica! Lei non aveva il diritto di … ».
« Ehi! », lo interruppe lei, gridando con tanta forza che Zanna si spaventò e corse a nascondersi in cucina. Joseph arretrò come se fosse stato schiaffeggiato e per un attimo rimase a fissarla a bocca aperta, senza fiato. « Che cazzo stai blaterando? Fai una frase completa, che cavolo! Non ci si capisce niente! ».
« Io … io … io … ».
« Eh, buona notte! », sospirò lei, richiudendo la porta, « Su, siediti ». Il ragazzo non si mosse. « È un ordine! Siediti! », ripeté con veemenza ed il ragazzo si lasciò cadere sul divano, come un automa, senza staccarle gli occhi di dosso. « Molto bene, Jo », annuì lei, accomodandosi sulla poltrona di fronte a lui, « E adesso spiegami cosa è successo ».
Joseph dovette trarre un paio di respiri profondi prima di riuscire a calmarsi quel tanto che bastava per comporre una frase di senso compiuto. « Isabel è scomparsa ».
   
 
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