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Autore: nydrali    20/07/2022    0 recensioni
Isabel è una ragazza normale ... almeno fino al giorno in cui un magico talismano non la catapulta nell'Antica Roma. Riuscirà a sopravvivere e a tornare a casa?
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Talismano'
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Isabel non era mai stato un asso in scienze, ma del resto sapeva che non sarebbe mai andata a lavorare in un osservatorio astronomico o tanto meno avrebbe mai vinto un Nobel per la chimica, eppure c’era una cosa di cui era assolutamente certa: nel cielo che stava osservando non c’era il Grande Carro. Lo stava fissando da quasi dieci minuti, scorrendo con lo sguardo in lungo ed in largo, e sebbene le costellazioni fossero chiarissime, come se nessuna nube o luce artificiale le offuscasse, il Grande Carro proprio non si vedeva.
Fu soltanto in un secondo momento che si rese conto di un altro, quanto meno inquietante, dettaglio: come diamine faceva a vedere il cielo? Non era forse in camera sua, sotto un solido tetto? Isabel rifletté un attimo sulle varie alternative, ed infine decise che era proprio il caso di alzarsi e guardarsi attorno.
« Oh … merda … ». Di solito Isabel non era volgare, ma quella volta l’unica affermazione logica e pertinente era proprio “ oh, merda “: qualsiasi altra cosa sarebbe suonata riduttiva. Del resto, che altro si poteva dire di fronte ad una campagna verde, perfetta, mossa da dolcissime colline e con un piccolo villaggio medioevale in lontananza?
 
« Il trucco sta tutto nell’espirare con calma. Così: inspirare, espirareeeee, inspirare, espirareeeee … ». Era quasi mezz’ora che Isabel tentava di calmarsi. Aveva pianto, strillato, tremato, chiamato aiuto e poi pianto ancora; al momento aveva deciso che fare l’isterica non serviva ad un bel niente e stava provando a vincere il panico che le attanagliava la base dello stomaco.
« … inspirare, espirareeeee … okay, sono calma », concluse infine, anche se sapeva perfettamente che non era vero. Del resto, aveva smesso di piangere e di strillare e probabilmente per quella sera era quanto di meglio potesse pretendere da sé stessa.
« Vediamo di ragionare », si impose, sedendosi sull’erba, le spalle a quel dannatissimo villaggio che – non c’era altra spiegazione – doveva per forza essere un frutto della sua malata fantasia. « Allora, che cosa stavo facendo? », provò a ricordare: dovette concentrarsi per un momento, ma alla fine riuscì a rammentare sé stessa al telefono con Jo, mentre assorta esaminava il ciondolo. « Il ciondolo! », esclamò, portando una mano al collo: il pendente era lì, leggero come una piuma nonostante la mole. Isabel se lo sfilò e lo osservò al fioco chiarore delle stelle.
« Non dirmi che … », mormorò, alzando si scatto gli occhi al cielo. Controllò decine di volte, dandosi della pazza, dell’isterica e della credulona, ma alla fine dovette arrendersi al fatto che le stelle racchiuse in quella pietra erano identiche alle costellazioni aliene che le brillavano sulla testa. « No, andiamo, Isabel, non essere ridicola. Si tratta soltanto di una banale coincidenza! », si disse, ma senza riuscire a convincersene del tutto.
Dopo un attimo, sospirò, arrendendosi. « Okay, non è una coincidenza. Ma allora? Che cosa diavolo mi è successo? », si domandò, senza curarsi di parlare ad alta voce: non c’era nessuno nel raggio di miglia, e se anche gli abitanti del villaggio l’avessero sentita, non le importava. Dopotutto, il villaggio era un frutto della sua fantasia.
« Oh, cacchio! », sbottò, crollando a pancia in su sull’erba fresca e folta. Chiuse gli occhi, imponendosi di pensare. Allora, che cosa sapeva? Sapeva che stava osservando il ciondolo, che di colpo si era sentita strana, come lontana, distante, e che subito dopo si era addormentata. Quando aveva aperto gli occhi era in compagnia dei frutti malati della sua fantasia e di un cielo che a rigor di logica non doveva esistere.
Senza accorgersene riprese a piangere: che cosa cavolo le era successo? Voleva la sua mamma, voleva suo papà, le bastava persino sua sorella, qualcuno maledizione! Qualcuno che la riportasse indietro! Non pretendeva Edward, anche Julia o Joseph sarebbero andati più che bene! Diamine, anche la Madisons sarebbe andata più che bene! Che diavolo era successo?
« Non ci credo, non è possibile … », mormorò tra i singhiozzi: dove cavolo era finita? « Certe cose non succedono. Non può essere vero. Certe cose non succedono. Non succedono e basta e tutto questo non è vero », prese a ripetere ossessivamente, rifiutando di accettare l’idea balzana ed improbabile che fosse finita da qualche altra parte, particolarmente lontano da casa. Un “ qualche parte “ dove le stelle erano diverse e il tempo si era fermato qualche centinaio di anni prima.
Strinse forse le palpebre e si tappò le orecchie. « No, no, no! Non è vero, non è possibile! », gridò, il più forte possibile. Gridò finché ebbe aria nei polmoni, e poi continuò comunque a gridare. Puntini rossi le apparvero davanti agli occhi, le gambe si fecero molli e lei cadde in avanti, bocconi, senza forze, senza smettere di gridare. Perché a lei? Perché? E, soprattutto, com’era possibile? Che cosa le era successo?
Isabel si raggomitolò su sé stessa e, per quanto si vergognasse e cercasse di fermarsi, scoppiò in un pianto dirotto. Le stelle ancora ammiccavano lucenti in cielo, quando infine – stremata e tremante – crollò in un sonno senza sogni.
 
Si svegliò all’alba, rimanendo per un istante a fissare il sole che sorgeva da dietro le colline. Le occorse un minuto prima di ricordare dove si trovava e quello che era accaduto, ma fortunatamente non ricadde nel panico isterico della sera prima. Doveva rimanere tranquilla: le era successo qualcosa di completamente assurdo, incredibile persino, e il panico non sarebbe certo servito a renderlo più comprensibile. Ma del resto… sua mamma, suo papà, Dawn, Jo… il loro semplice pensiero le faceva pungere le lacrime agli occhi e lei dovette lottare a lungo per non ripiombare in un pianto disperato. Si levò a sedere e si impose di riflettere razionalmente.
« Bene … allora, innanzitutto devo di capire dove sono », stabilì, anche se il problema poteva anche essere non dove ma quando. Le balzò infatti alla mente che potesse semplicemente essere finita indietro nel tempo e che le stelle aliene fossero quelle dell’altro emisfero terrestre.
« C’è un solo modo per scoprirlo ». Si alzò in piedi e si mise a camminare verso il villaggio. La campagna era bella da mozzare il fiato, coi prati di un verde perfetto ed i boschi fitti, dagli alberi alti, secolari, evidentemente frutto del caso di natura e non del lavoro dell’uomo. Era un posto vergine, o almeno quella era l’impressione che dava. Ad un certo punto uno scoiattolo le attraversò la strada, scomparendo in cima ad una quercia. Isabel rimase sbalordita: non sembrava minimamente spaventato da lei!
Scese una collina particolarmente ripida e finalmente giunse nelle vicinanze del villaggio. La prima cosa che la colpì fu che non si trattava di un villaggio medioevale. Certo, lei non era una storica o un’archeologa, però quello non era medioevale. Le case erano di legno, bianche di calce, coi tetti alti e… le si mozzò il fiato in gola. Un uomo era uscito da una delle case e si stava avviando verso uno dei campi coltivati dietro il villaggio con una zappa in mano. E, che le venisse un colpo, quell’uomo era vestito da antico Romano.
 
« Va tutto bene. Va davvero tutto bene ». Per quanto lo ripetesse, Isabel non riusciva proprio a convincersene. Si era lasciata cadere seduta sull’erba, incapace di proseguire d’un altro passo, e stava da quasi mezzora cercando di dare un senso a quella situazione che di senso non ne aveva proprio.
Era finita nell’Antica Roma. E che cavolo! Non era possibile! La gente non finiva nell’Antica Roma così, per caso. Anzi, la gente non finiva nell’Antica Roma punto e basta! Certe cose accadevano solamente nei film di Hollywood e nei libri che leggeva Dawn. E magari nemmeno in quelli.
Si passò una mano tra i capelli perfino più scompigliati e ribelli del solito e sentì le lacrime pungerle nuovamente gli occhi. Le ricacciò orgogliosamente in gola: no, aveva pianto fin troppo. Certo, era sotto shock, ma se cedeva di nuovo al panico non avrebbe ottenuto un bel niente. Doveva rimanere lucida e cercare una soluzione.
« Guardiamo il lato positivo: ora so dove e quando sono. È già qualcosa. Adesso devo solo scoprire come tornare indietro, e presto ». Prese in mano il ciondolo e lo esaminò ancora una volta. Le stelle incastonate nella pietra continuavano ad ammiccarle maliziose, ma per quanto le fissasse non riuscì a provare niente di simile a quel senso di torpore e lontananza che aveva sentito quando era stata scaraventata laggiù.
« Quando torno devo proprio dirne quattro a Zia Dag », stabilì, rimettendosi in piedi. Ora si trovava di fronte ad un bivio: o si dirigeva al villaggio e vedeva cosa poteva ricavarne, oppure… già, oppure cosa? Cosa poteva fare?
« Rifletti, Isabel, rifletti », si impose. Che cosa le serviva? Sì, a parte la mamma e un caffè forte, che cosa le serviva?
« Il modo per tornare a casa », rispose a sé stessa. Bene, e come poteva trovare questo modo? Lei non ne aveva idea, quindi doveva chiedere. Ma a chi? Chi poteva saperne qualcosa in proposito? Non voleva finire nelle mani di qualche stregone che le suggerisse un salasso per spurgarsi simili idee balzane dal sangue! No, aveva bisogno di qualcosa di meglio, qualcosa di più obiettivo… come un libro! « Sì, libri! », esclamò. Un trattato sulle gemme o leggende o cose del genere.
Sì, eccole allora le due possibilità: o il villaggio o mettersi in marcia nella speranza di incappare in una grande città dove consultare una biblioteca o qualcosa del genere in merito alle proprietà magiche delle pietre con le stelle.
« E vada per la grande città », concluse, voltando le spalle a quel villaggio che proprio le stava antipatico e mettendosi in marcia. Ben presto le scarpe pratiche da casa che ancora indossava si rivelarono inadatte su quel terreno erboso e fangoso, bagnato di rugiada, ma quanto meno indossava una tuta comoda e calda. Certo, non era precisamente il must della stagione, ma era sempre meglio della gonna e dei collant. Con quelli non sarebbe sopravissuta un’ora. Anche se, a dire il vero, forse sarebbero passati più inosservati dei pantaloni e della felpa col cappuccio.
« Eh, già. E poi come lo spiegavo il nylon? », commentò ad alta voce Isabel. Forse la tuta era un pugno in un occhio, in mezzo a tante toghe, ma quanto meno era di puro cotone. Non che fosse una gran consolazione, certo, ma Isabel si sforzava con ogni briciola del suo essere di guardare il bicchiere mezzo pieno.
« Diciamo così: meglio se non incontro nessuno finché non ho trovato il modo di cambiarmi », sentenziò alla fine, imponendosi di non pensare più al suo abbigliamento.
Del resto, non era certo quello il suo problema maggiore. Escludendo il dettaglio di essere finita nell’Antica Roma e di non avere la minima idea di come tornarsene a casa, al momento si trovava nei guai fino al collo: non aveva il becco di un quattrino – qualcosa le diceva che lì non accettavano i dollari – non sapeva dove si trovava e non parlava una parola di latino. In effetti, a voler essere ottimiste, era nei liquami fino al collo.
« Quando torno a casa, credo che Zia Dag mi dovrà qualche piccola spiegazione », ripeté ansimando, proseguendo lungo il crinale di una dolce collina.
Cercava di non pensare alla sua famiglia e alla sua situazione: aveva l’impressione che se si fosse soffermata a riflettere su tutta quella storia, si sarebbe seduta a terra ed avrebbe cominciato a gridare senza più riuscire a smettere.
Stringendo i denti, aumentò il passo. Doveva arrivare in città il prima possibile. Finalmente arrivò sulla vetta e si guardò attorno. Lo spettacolo le mozzò il fiato in gola. Era la campagna più grande, verde e intatta che avesse mai visto. Nessun documentario, nessun film, nessun libro l’aveva preparata ad una simile visione di purezza, con gli alberi secolari, i prati d’un verde brillante, l’erba alta e folta, i fiori che coloravano sezioni intere d’orizzonte, il piccolo torrente che lambiva dolcemente le colline, i conigli selvatici che brucavano il trifoglio, un branco di cerbiatti o caprioli o quello che erano che si muoveva tranquilli appena oltre la linea degli alberi. Era tutto così vero, così intatto, così puro.
« Mio Dio … », riuscì soltanto a mormorare, quando da dietro un’altra collina comparve un piccolo branco di cavalli selvatici. Erano una dozzina di animali, per lo più bai e sauri, anche se Isabel distinse subito un magnifico cavallo bianco come la neve ed un altro scuro come la notte. Anzi no, un’altra, si corresse subito la ragazza, quando vide la pancia rigonfia della morella. Era chiaramente incinta, ma si muoveva con la grazia di una ballerina.
« Magnifico », sorrise Isabel, lasciandosi cadere sull’erba soffice, in mezzo ai fiori bianchi che innevavano quel fianco della collina. Rimase a lungo ad osservare il branco muoversi pacifico, brucare l’erba tenera ed ancora fresca di rugiada, osservando come ipnotizzata i loro movimenti fluidi, eleganti, perfetti. In qualche modo la calmavano, quietavano le sue ansie, come se la loro semplice presenza la facesse sentire un po’ di più a casa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì, seduta ed immobile, senza pensare a niente, senza preoccuparsi del denaro, della lingua o del fatto che non era per niente logico che lei in quel momento non si trovasse nella sua cameretta al telefono con Jo.
Si riscosse solamente quando il cavallo bianco le si avvicinò incuriosito. Rimase talmente sbalordita da una simile audacia da non riuscire a muoversi, osservando estatica il magnifico animale che si faceva sempre più vicino.
Isabel non era mai stata una grande esperta di cavalli, però da bambina aveva imparato a montare ed aveva sfogliato piena di meraviglia un’enciclopedia delle razze equine che sua nonna le aveva regalato per Natale. L’animale che aveva di fronte aveva tutto meno il pedigree, ma non di meno era obiettivamente splendido: aveva la criniera lunga, dai crini sottili, splendenti come seta. Gli occhi erano grandi, neri come ossidiana e profondamente intelligenti. Forse troppo intelligenti per essere definiti buoni o gentili. Sembravano scrutarla attentamente e – notò Isabel con un mezzo brivido – capire. Di certo aveva forme perfette, possenti ed aggraziate, con le gambe lunghe e forti di un corridore ed il petto solido dai muscoli guizzanti. Sottili ciuffi di pelo ricoprivano gli zoccoli duri, mentre i crini della lunga coda bianca sfioravano i ciuffi d’erba.
« Ciao », mormorò piano Isabel quando il cavallo giunse a meno di un metro da lei. L’animale non parve minimamente infastidito dal suono della voce umana. Allungò invece il muso e le annusò una spalla. Poi le sfiorò il capo e mosse la bocca come per mangiarle i capelli. Ridendo, Isabel si ritrasse, ma ancora una volta il cavallo non si spaventò.
« Siamo coraggiosi, eh? », esclamò la ragazza, chinandosi sul terreno per sbirciare il ventre dell’animale, « E, decisamente, siamo dei maschietti ». Strappò un ciuffo d’erba e lo tese allo stallone. Questi annusò prima le sue dita, sbuffò e mangiò il trifoglio fresco dalla sua mano, come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Quindi, con noncuranza, si mise a brucare accanto a lei. Isabel rimase ad osservarlo a lungo, poi però si ricordò che aveva ben altro da fare che sognare ad occhi aperti. Doveva raggiungere una città prima che facesse buio, perché non aveva nessuna voglia di passare la notte all’aperto. Se di giorno quelle colline brulicavano di dolci coniglietti e timidi caprioli, non aveva davvero nessuna voglia di scoprire di cosa brulicavano non appena tramontava il sole.
Perciò si alzò, lentamente per non spaventare lo stallone bianco, che però si limitò a gettarle un’occhiata curiosa senza smettere di brucare. Incoraggiata da tanto ardimento, Isabel gli diede una pacca sul collo muscoloso. « Arrivederci, amico mio. Buona fortuna coi lupi », lo salutò, riprendendo il suo cammino.
Discese la collina verso il ruscello, del quale assaggiò le acque ricordandosi che era un bel pezzo che non beveva e non mangiava un bel niente. A parte il trifoglio, però, non c’era nulla nelle vicinanze che potesse essere mangiato senza spargimento di sangue, perciò Isabel decise di rimandare il pranzo ad un momento migliore. « Mi sa che quando torno potrò fare la modella », commentò la ragazza quando il suo stomaco prese a brontolare. Cercava di essere ottimista, ma si rendeva conto di esserlo forzatamente, al punto da non ingannare nemmeno sé stessa.
Sospirò e, superando il torrente d’un balzo, riprese a camminare. Nel giro di dieci minuti si era lasciata alle spalle la valle ed il branco di cavalli, giungendo in una campagna meno ondulata sulla quale spiccava, come una ferita su un bel volto, un sentiero di terra battuta.
« Be’, da qualche parte condurrà », commentò Isabel, più decisa che mai a giungere in un grosso centro abitato e munito di una biblioteca o santone o maga che fosse. Le andava bene persino uno sciamano, basta che le spiegasse cosa diavolo era quella pietra e come cavolo aveva fatto a trasportarla lì. Probabilmente era una follia sperare di avere una qualche spiegazione, ma al momento non le veniva in mente niente di meglio. E comunque, non poteva passare il resto dei suoi giorni in campagna con i conigli.
Prese dunque il ramo del sentiero che portava a sinistra e si incamminò di buon passo. Notò subito i solchi nel terreno e le molte impronte, di cavallo e di uomo, deducendone che si trattava di una strada molto trafficata. Il che era un bene, perché significava che conduceva in una città piuttosto importante; ma allo stesso tempo era un male, perché significava che presto o tardi avrebbe incontrato qualche Antico Romano che di certo avrebbe notato la sua mise fuori moda ed il suo strano accento.
« Oh, be’, non potevo mica sperare che non accadesse mai. Prima o poi si incontra per forza qualcuno », cercò di tranquillizzarsi Isabel, ma la realtà era che si sentiva paralizzata dal terrore.
Le gambe quasi le cedettero quando alle sue spalle udì rumore di zoccoli. Si voltò lentamente, come se si aspettasse di veder comparire un fantasma da un momento all’altro, ed ebbe un colpo quando una sagoma famigliare si stagliò sul sentiero.
« Tu? Che cavolo ci fai qui? », esclamò Isabel.
Lo stallone bianco ignorò il suo stupore e le venne incontro. Andò a strusciarle la testa contro la spalla, come un gatto che reclama le coccole. Incredula, la ragazza gli accarezzò il manto vellutato. « Non dirmi: hai deciso di andar in cerca di fortuna e vedere il mondo », ridacchiò Isabel, senza sapere cosa pensare. Cosa gli prendeva, a quel benedetto animale? Perché si era messo a seguirla?
« Credo che dovresti tornare indietro », gli ordinò con voce dura ed un movimento brusco del braccio. Lo stallone, irritato, arretrò d’un passo, ma poi nuovamente prese a strusciare il muso contro di lei. Isabel, sospirando, lo accarezzò.
« Sei un pazzo. Vattene! », stava per spingerlo via, quando le venne in mente che in fondo la strada per la città poteva essere più lunga del previsto. Prese la testa del cavallo tra due mani e la sollevò in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza. L’animale ricambiò con decisione il suo sguardo. « Siamo due cretini », sentenziò Isabel, depositando un bacio sulla fronte dell’animale. « Avanti, andiamo ». Lasciò andare il capo dello stallone e afferrò un ciuffo di crini della sua serica criniera, rimettendosi in cammino. L’animale, senza minimamente protestare, la seguì con passo cadenzato ed elegante.
Isabel sapeva che sarebbe stato più logico montargli in groppa, però non cavalcava dall’età di undici anni e per di più non aveva mai provato a montare a pelo. Avrebbe tentato solamente quando i suoi piedi avrebbero iniziato a gridare pietà.
Dopo un po’ Isabel iniziò a sentirsi vagamente stupida, camminando al fianco di uno stallone come se fosse un cane, e suo malgrado scoppiò in una sonora risata. « Oh … santo cielo … », esclamò scuotendo il capo. Il cavallo la fissò incuriosito.
« Be’, amico mio, eccoci qua. Che coppia, eh? I due più scemi delle nostre razze », esclamò lei, « Non ho capito come ti chiami ». Il cavallo continuò a fissarla, « Ah, sei timido. Be’, io sono Isabel. Isabel Nelson, piacere. Ho sedici anni e soltanto ieri vivevo nel ventunesimo secolo. E tu? ».
Il cavallo si limitò a camminare tranquillo. « Come dici? Sei scappato di casa? Ma è terribile, amico mio, davvero terribile! Sei un vero furfante! ». Sorrise, « Be’, piccolo, dovremo trovarti un nome. Che ne dici di … emh… che ne so, Sansone? », azzardò, ma il cavallo non la degnò di uno sguardo. « No, hai ragione, è più un nome da vecchio ronzino grasso. Ci vuole qualcosa di più pimpante. Fulmine, forse? ».
Il cavallo scrollò la criniera, infastidito da una mosca di passaggio. « Oh, scusami tanto! Non volevo offenderti! », fece Isabel, « E comunque sì, hai ragione, è troppo banale. Allora lasciami pensare… però pensa anche tu, d’accordo? ». Per un po’ proseguì in silenzio, prima di avere un’illuminazione. « Ci sono! Che ne pensi di Furia, come il cavallo del west? ».
Lo stallone continuò ad ignorarla. Si limitava a camminare al suo stesso passo, osservando pigramente la campagna attorno a loro. « Oh, capisco! Sei bianco, non nero. Hai ragione, hai ragione. È un aspetto da non trascurare. Be’, ma allora sono rimasta senza idee. E che cavolo! ».
Stava per riprendere a riflettere, quando l’occhio le cadde su qualcosa. « Oh … che mi venga un colpo! », esclamò: a meno di cento metri sulla destra del sentiero sorgeva un alto albero di mele, grosse e rosse come quelle che si disegnano da bambini.
« Pancia mia, fatti capanna! », rise, uscendo dal sentiero e correndo sotto la pianta. Lo stallone, senza esitare un solo momento, le venne dietro passando al piccolo trotto. Isabel provò ad arrampicarsi sul grosso tronco nodoso dell’albero, per arrivare ai rami più bassi, ma a parte scorticarsi i palmi delle mani non ottenne alcun risultato. Tentò persino di saltare ed afferrare una mela al volo, ma persino il ramo più carico e piegato era fuori dalla sua portata.
Si voltò verso lo stallone. « Ehi, amico, vieni un po’ qui ».
Afferrò il cavallo per la criniera e lo condusse sotto la chioma del melo. Dopo un paio di tentativi riuscì a montargli faticosamente in groppa: era davvero un animale magnifico, ma al garrese era alto almeno una decina di centimetri più di lei e non fu un’impresa semplice per la piccola Isabel. Dall’alto del dorso del cavallo, però, le mele erano molto più vicine. Bastò allungarsi un poco e riuscì a coglierne una dozzina abbondante. Ne assaggiò una: era dolce e succosa. Isabel socchiuse gli occhi, deliziata: non aveva mai mangiato un pomo dal gusto anche solo vagamente simile. Riconoscente, ne tese una allo stallone, che lo divorò in un paio di morsi.
« Be’, amico mio senza nome, eccoci qua », esclamò Isabel, guardandosi attorno. Era una magnifica sensazione, starsene in groppa a quell’animale magnifico, le gambe a penzoloni ed il sapore divino di quella mela a stuzzicarle il palato. Decise che non valeva davvero la pena di continuare a piedi. « Su, forza, piccolo mio, proseguiamo », esclamò, sfiorando appena i fianchi dell’animale coi talloni. Obbediente, il cavallo si mise in cammino, tornando sul sentiero e riprendendo a percorrerlo con passo lento e cadenzato.
Isabel, completamente rilassata, divorò una mela dietro l’altra, faticando a costringersi a lasciarne qualcuna per quella sera. Cacciò i pomi sopravissuti nelle ampie tasche della felpa e si pulì le mani sui pantaloni della tuta, guardandosi attorno senza più alcun angoscia. La campagna era magnifica, il sole tiepido, la pancia piena ed il cavallo faceva la strada per lei: cosa poteva chiedere di più dalla vita?
« Tornare a casa? », si rispose da sola, acida. « Grazie alla formula magica trovata in un libro, magari! », aggiunse, in preda allo sconforto: ma che cosa stava facendo? Davvero credeva che avrebbe trovato un volume rilegato in pelle umana con su scritto “come tornare nel ventunesimo secolo in cinque mosse”? « Dannazione! ».
Innervosito dal suo tono irritato, lo stallone bianco sbuffò, scrollando il capo. « Scusa, amico mio. Stavo solo parlando ad alta voce », sospirò lei, accarezzandogli il collo per calmarlo.
« Ehi, sai che forse ho avuto un’idea? Visto che in fondo qui siamo a Roma e che tu sei un cavallo Romano, potrei darti un nome adeguato: che ne dici di Elisium? Come i Campi Elisi, il paradiso dei Romani. Perché, ti giuro, amico mio, che mi sei apparso proprio come un angelo dal paradiso ».
Lo stallone nitrì, aumentando il passo al piccolo trotto. Ridendo, Isabel decise di interpretare quell’improvvisa vivacità come un sì. « Ed Elisium sia, quindi! Piacere di conoscerti, amico mio! », esclamò.
 
Il sole sfiorò le colline alla loro sinistra e Isabel capì che non avrebbero raggiunto nemmeno l’ombra di una città in tempo. Davanti e dietro di loro, fino all’orizzonte, non c’era altro che verde campagna e la linea sinuosa di quel sentiero che si perdeva a vista d’occhio. Sconfortata, Isabel si arrese all’idea di dover dormire all’aperto anche quella notte. Si guardò attentamente attorno finché non scorse un albero dalla folta chioma e vi diresse Elisium.
Quel cavallo era a dir poco straordinario. Bastava il suo minimo tocco e lui faceva esattamente quello che la ragazza aveva in mente. A volte tanta perspicacia le faceva quasi paura, ma per lo più era confortante l’idea di avere al fianco qualcuno che la capisse così bene. Si sentiva non solo meno sola, ma – sebbene fosse assurdo – anche molto più al sicuro.
Le prime stelle già illuminavano la volta celeste quando Isabel ed Elisium consumarono le loro ultime mele, all’ombra del grande albero. Lo stallone poi si mise a brucare dei brutti fiori gialli e Isabel si appoggiò contro il tronco certa di star per passare la peggior notte della sua vita. Invece, vinta dalla stanchezza, si addormentò quasi subito.
 
Fu un rumore indistinto a svegliarla. Allarmata, spalancò gli occhi, guardandosi attorno prima un po’ confusa – che diamine ci faceva in aperta campagna? – poi, non appena ricordò quanto le era accaduto, decisamente allarmata: da dove veniva quel rumore? Notò che era giorno ed il sole già piuttosto alto le disse che l’alba era passata da un pezzo, e vide Elisium poco distante che, ritto e fremente, fissava nervoso un punto indistinto alle sue spalle.
Lentamente, spaventata, Isabel si voltò. Fu subito chiaro che cos’era e da dove veniva quel rumore: una colonna di carri trainati da enormi buoi avanzava lungo il sentiero nella sua direzione. Non erano carri di contadini: anche all’occhio inesperto di Isabel era evidente che erano ben costruiti – delle specie di Rolls Royce dell’antichità –, che i buoi erano pasciuti e possenti, che le tende che li ricoprivano erano di stoffa costosa e pesante e che il seguito era troppo numeroso e ben vestito per essere quello di un venditore di grano o di un mugnaio. In particolare, c’era un uomo a cavallo che precedeva il convoglio. Un uomo armato.
Isabel sentì un brivido correrle giù per la spina dorsale ed istintivamente allungò una mano per chiamare Elisium. Il cavallo, pronto ed intuitivo come sempre, le fu subito accanto. Isabel afferrò con forza la criniera e si issò rapidamente in groppa, pronta e decisa a fuggire il più lontano possibile da quegli estranei.
« Ferma! », gridò l’uomo armato.
Isabel rimase paralizzata. E non certo per l’ordine.
Il fatto era che l’aveva capito. Quell’uomo aveva parlato in latino e lei l’aveva capito alla perfezione.
« Oh, mio Dio … », mormorò impallidendo. E si rese conto soltanto allora che anche lei stava parlando in latino.
Un improvviso, acuto senso di nausea la assalì. Faticò parecchio a non dare di stomaco e quando finalmente riuscì a riprendere il controllo l’uomo armato, che aveva spinto il cavallo al trotto, l’aveva raggiunta.
« Ferma, ragazza! », le gridò ancora l’uomo, sebbene lei non avesse mosso un muscolo. « Quanto manca ancora al mare? ».
Isabel aggrottò le sopraciglia: mare? Quale mare? Dove diamine si trovava?
« Io … io non lo so. Sono straniera e mi sono persa », esclamò, rabbrividendo d’orrore ad ogni sillaba in latino che le sue labbra pronunciavano.
« Sì, avevo intuito che fossi straniera », commentò l’uomo adocchiando la sua tuta, « Davvero non sai quanto dista il mare? ».
Isabel scosse il capo. « Non so nemmeno da che parte è ».
L’uomo sospirò. « Ah, magnifico! », gemette, voltandosi e facendo un segnale agli altri del convoglio. Isabel vide parecchi sollevare le braccia al cielo, esasperati.
« È molto che viaggiamo », spiegò l’uomo armato, seguendo il suo sguardo, « Mi chiamo Manio Umbrio ». Era un bell’uomo sulla soglia della quarantina, con un fisico da soldato, capelli tagliati molto corti ed un’ombra di barba color del ferro che gli induriva le guance e la mascella dal taglio duro e risolto. Non ci voleva una laurea in storia per capire che era un Romano.
« Io sono … », Isabel si morse la lingua. Non poteva presentarsi come Isabel Nelson! Arrancò nei meandri della sua mente alla ricerca di un nome Romano, ma più che Giulia o Cornelia non riuscì a rammentare, e quelli erano nomi troppo importanti ( o almeno, così ricordava dalle lezioni di storia ), che davano decisamente nell’occhio e avrebbero scatenato un fiume di domande. Per di più, rammentò, aveva detto di essere straniera. Non poteva dare un nome così Romano. Ci voleva qualcosa che suonasse plausibile ma allo stesso tempo non patrizio. Un attimo dopo ebbe un’idea. « Io sono Marta Alessandra », rispose, soddisfatta. Suonava un po’ greco, un po’ giudeo ed un po’ Romano e di certo non avrebbe suscitato la curiosità dell’uomo armato.
« Onorato, Marta Alessandra », esclamò infatti Umbrio, senza lasciar trasparire il minimo sospetto o perplessità. « Posso chiederti cosa ci fai … emh … qui? », le domandò, rivolgendole un’occhiata eloquente. Isabel comprese subito che cosa intendesse: era una ragazza sola, vestita con pantaloni ed una strana tunica corta con cappuccio, in sella ad un magnifico stallone bianco senza sella né briglia, straniera e a suo dire sperduta. Era una storia che faceva più acqua di un colabrodo. Isabel inspirò e si preparò a raccontare una delle bugie meglio costruite della sua vita.
« Io vengo dall’est », cominciò, rimanendo volutamente sul vago, « E circa un anno fa i miei sono morti … aah… per una strana epidemia che ha colpito la nostra regione. Il fratello di mio zio vive da queste parti … ».
« È un Gallo? », la interruppe Umbrio, sorpreso.
Isabel nascose ogni emozione: e così erano in Gallia, ossia la Francia dell’epoca. Bene, quanto meno era un inizio.
« No, è semplicemente immigrato qui per affari ».
« Tratta affari coi Galli? ».
Isabel annuì. « Sì, emh… non hai mai sentito parlare di lui? È piuttosto famoso, col suo allevamento di … emh… cavalli… si chiama … Dagmaro Alessandro », inventò. Dagmar era un nome da donna – il vero nome di Zia Dag, ad essere precisi – ma Umbrio non poteva certo saperlo, né tanto meno notare l’orribile storpiatura latineggiante di quel nome tedesco.
« Dagmaro Alessandro? No, mai sentito nominare. Però la Gallia è talmente grande e noi qui siamo solo di passaggio », ammise Umbrio, facendo sospirare la ragazza di sollievo.
« Oh, be’, questo spiega tutto. Comunque… ah… sì, stavo dicendo: Dagmaro Alessandro è il solo parente rimastomi in vita, così ho deciso di raggiungerlo. Ho preso con me la mia serva ed un paio di uomini ed ho attraversato … be’… foreste e campagne, per arrivare qui ».
« Siete passati per la Germania? », esclamò Umbrio, a dir poco allibito ed incredulo.
« Cosa? No, no, certo che no! », escusse il capo Isabel, annaspando alla ricerca di una soluzione, « Ovviamente abbiamo deviato per l’Italia! ».
« Ah! Capisco … più lungo ma più sicuro, giusto? ».
« Infatti, infatti », annuì Isabel, sentendosi stanca e sudata come dopo una lunga maratona, « E così sono arrivata fin qui … cioè, voglio dire, ... sono arrivata… arrivata… sì, scusami, mi ero persa », sorrise forzatamente lei, « …sono arrivata a casa di mio zio, ma purtroppo … », si interruppe, fingendo di sospirare, in maniera da prendere tempo alla ricerca di una soluzione.
« Lasciami indovinare », la prevenne però Umbrio, « L’hai trovata in fiamme », scosse il capo, « Questi barbari! Saccheggiano e depredano e nessuno può fermarli! ».
« Infatti! Proprio così », annuì Isabel, fingendosi addolorata, « Il problema è che a quel punto i miei servi hanno capito che non sarebbero stati pagati e così sono fuggiti via, prendendo anche tutto il mio bagaglio », proseguì, grata a Dio e tutti i santi per quell’improvviso colpo di genio, « Ed io non ho potuto fare altro che prendere l’unico cavallo scampato alla razzia e mettermi in cammino, sperando di riuscire a trovare la strada di casa… anche se a questo punto non credo più di averne una », concluse, con un tono mesto che di certo le sarebbe valso l’Oscar.
« Per Giove, che storia! Ragazza mia, sei stata incredibilmente sfortunata! Ma molto coraggiosa, te ne do atto, davvero molto coraggiosa. Ah, ecco i miei compagni », esclamò, voltandosi verso il resto del convoglio che nel frattempo li aveva raggiunti.
Isabel, un po’ nervosa, si mosse a disagio, cercando affannosamente una scusa per dileguarsi. Umbrio, nel frattempo, si avviò verso il più ricco e grande dei carri – una specie di casa su ruote – e scostò la tenda scambiando qualche parola con un uomo all’interno. Un attimo dopo uno degli schiavi del convoglio – Isabel lo riconobbe come tale dalla targhetta che gli pendeva al collo, come aveva imparato guardando Discovery Channel – si affrettò a sistemare una specie di sgabello accanto al carro. Un uomo ne discese usando lo sgabello come scaletta e voltandosi subito verso di lei. Era molto anziano, sui settant’anni almeno, magro come uno spaventapasseri, piccolo e curvo, ma con una folta capigliatura bianca, una barba ben curata ed un fuoco ardente nello sguardo blu come il mare.
« Marta Alessandra, giusto? », le domandò in un latino dallo strano accento.
Isabel annuì. « Sì, dominus, sono io ». Smontò da cavallo e gli si avvicinò trattenendo Elisium per la criniera. Non che ve ne fosse bisogno: lo stallone la seguiva come un fedele cagnolino.
Il vecchio le sorrise come un nonno benevolo. « Manio Umbrio mi ha raccontato la tua storia. Povera piccola, sarai spaventata e smarrita! ».
Isabel fece spallucce. « Me la cavo, dominus. Ammetto di essere stata a lungo spaventata e smarrita, ma alla fine bisogna pur reagire in qualche modo, non credete? ».
Il vecchio allargò un sorriso. « Sagge parole. Mi sorprende udirle da una bocca così giovane ».
Isabel chinò il capo, accettando il complimento. Le piaceva, quel vecchietto dall’aria gentile. Le dava l’impressione di nascondere una mente alla Churchill ed una volontà alla Rommel. In politica avrebbe spopolato.
« Il mio nome è Nicandro. Sono un umile mercante », si presentò, facendo sorridere tutti i presenti. Isabel ebbe la certezza che fosse tutto tranne che umile.
« Mercante? Mercante di cosa? », domandò.
Nicandro allargò il suo sorriso sdentato. « Oh, in molte cose, in effetti. Qui in Gallia, comunque, sono giunto per via di un giacimento di ferro purissimo ».
« Ah, capisco. Per le spade ».
« Tra le tante cose », annuì il vecchio, « Ed ora, figliola, pensi che sarebbe onorevole per te proseguire in nostra compagnia? Siamo tutti uomini, temo, ma armati solamente delle migliori intenzioni ».
Isabel rifletté per un attimo sulla questione. Cosa doveva fare? Unirsi a loro o proseguire da sola?
Scosse il capo: no, la vera domanda non era quella. Doveva essere sincera con sé stessa: la vera domanda era se voleva continuare a cercare una biblioteca o meno. Riflettendoci a mente fredda sapeva che non avrebbe potuto trovare nessuna informazione utile su come far funzionare quella dannatissima pietra, ma del resto a mente fredda avrebbe anche escluso la possibilità che un uomo potesse viaggiare nel tempo.
D’altronde, si disse poi, aveva più possibilità di sopravvivere ed arrivare in città rimanendo con loro, piuttosto che proseguendo da sola alla cieca. Doveva fare un passo alla volta: prima trovare una città, mettersi al sicuro, poi pensare a come tornare a casa. Se metteva il carro davanti ai buoi sarebbe finita in pasto ai lupi in meno di una settimana.
« Accetto molto volentieri », esclamò infine.
Nicandro sollevò le folte sopraciglia bianche. « Non temi per la tua reputazione? ».
Isabel fece spallucce. « Ho due scelte: o vengo con voi e metto a repentaglio la mia reputazione, o rimango da sola e metto a repentaglio la mia pelle. Sinceramente, viste le possibilità di scelta, la mia reputazione può anche finire al diavolo ».
« Al diavolo? », ripeté Nicandro, confuso.
« A ‘fanculo, se preferite », spiegò lei con un largo sorriso.
Il vecchio rimase per un momento interdetto, poi scoppiò in una sonora risata, imitato subito da tutti i suoi uomini.
« Ecco una ragazza di spirito! », commentò Nicandro. « Or bene, se tu non ti curi di quello che dice la gente, non vedo perché dovrei farlo io che sono così vecchio! Avanti, quindi, andiamo! », rimise un piede sullo sgabello e le fece cenno di seguirla.
« Io … », lo fermò lei, « … se per voi fa lo stesso preferisco cavalcare ». Aveva notato quanto traballassero quei carri sul sentieri accidentato e preferiva di gran lunga proseguire in groppa ad Elisium che farsi sbatacchiare come una fragola in un frullatore dentro uno di quei cosi.
Nicandro annuì. « Capisco. Ah, la gioventù! Affiancati però al mio carro, così potremo parlare ».
Isabel spinse in avanti lo stallone e raggiunse il grande carro del vecchio mercante proprio mentre il convoglio si rimetteva in marcia. Manio Umbrio riprese la sua posizione in testa e iniziò a dare ordini agli schiavi perché facessero aumentare il passo ai buoi: sembrava impaziente di raggiungere il mare.
« Dove state andando, se posso domandarlo? », esclamò, incuriosita, Isabel.
« Torniamo a casa », rispose Nicandro con un sorriso stanco, « Io vengo dalla Paflagonia, anche se ormai manco da molto tempo. Un mercante come me trascorre gran parte della sua vita in viaggio ma adesso, se gli Dei lo vorranno, potrò riposarmi e godere dei frutti di una vita di sacrifici ».
Isabel gli sorrise. « Sono sinceramente contenta per voi, dominus ».
« Chiamami Nicandro, te ne prego », le sorrise il vecchio, « E parlami di te ».
Isabel deglutì a vuoto: perfetto! E adesso che cosa diamine gli raccontava? « Io … non c’è molto da dire, in effetti. Sono una ragazza piuttosto normale ».
« Una ragazza piuttosto normale che ha attraversato distanze smisurate solo per ritrovarsi con una manciata di cenere e non si è persa d’animo », osservò Nicandro con una sfumatura d’ammirazione nella voce.
Isabel scosse il capo. « No, affatto. Mi dipingete come non sono. Al momento tutto quello che chiedo è tornare a casa », ricacciò a fatica le lacrime in gola, « Voglio solo che tutto torni com’era ».
Nicandro le sorrise dolcemente. « Ma non si può amica mia, non si può. Il tempo scorre sempre in avanti, mai indietro, come un torrente di montagna. Ciò che è stato non può essere cambiato ».
Isabel sollevò le sopraciglia. « Oddio… io avrei qualcosa da obiettare, ma comunque… », borbottò a mezza voce, e per fortuna il vecchio non parve averla udita.
« Dominus, guardate! », esclamò in quel momento Umbrio dalla testa della colonna. Isabel seguì il suo braccio teso e notò che l’erba alla sinistra del sentiero era tutta smossa e calpestata. « Un accampamento Romano, mi ci gioco la testa. Non più tardi di ieri », spiegò Umbrio.
« Soldati di Cesare? », domandò Nicandro, facendo sussultare Isabel. Che cosa? Giulio Cesare? Oh, madonnina santissima…
« Può essere. Ma se lui è qui significa che la zona non è sicura. Sarà meglio sbrigarsi: non voglio fare da antipasto ai Galli», esclamò Umbrio, facendo un cenno agli schiavi che frustarono i buoi. Con un muggito, gli animali presero quasi a trottare.
Isabel lasciò che Elisium si adattasse alla nuova andatura, persa nei suoi pensieri. Che le venisse un colpo! Giulio Cesare! Non aveva pensato di poterlo incontrare! Il capo le girò per l’emozione. Diamine! Quanta gente avrebbe pagato oro per poter avere quell’occasione? E che diamine, persino lei – che tutto voleva tranne essere lì – non poteva non tremare da capo a piedi per l’eccitazione ed il turbamento. Giulio Cesare! Sembrava incredibile…
In effetti, rifletté Isabel, era incredibile, ma non più dell’essere catapultata nell’Antica Roma.
« Sei nervosa », osservò Nicandro.
Isabel scrollò il capo, riprendendosi. « È solo che ho tanto sentito parlare di Giulio Cesare … », rispose, vaga.
« Ti capisco. Ma non aver paura: non abbiamo nulla da temere dai Romani. Vogliono i Biturgi, non noi », le mormorò il vecchio, credendo che il suo tono allusivo nascondesse il timore di essere attaccata dai soldati di Cesare. Isabel decise di non correggerlo.
« Posso farvi una domanda, Nicandro? ».
« Ma certo », annuì il vecchio.
Isabel raccolse il coraggio e le idee. Conosceva quell’uomo da meno di mezzora, ma le sembrava un tipo sveglio ed acuto. E Dio solo sapeva quanto lei avesse bisogno di un consiglio sveglio ed acuto, in quel momento.
« Non so cosa fare. Voglio tornare a casa, ma non so come né se sia possibile. Era mia intenzione raggiungere una grande città per … be’, per trovare un modo, perché il mio cuore si rifiuta di perdere le speranze, ma la mia mente mi dice implacabile che sono soltanto sogni ».
« Perché dici così, figliola? È tanto lontana la tua patria? Più lontana della Paflagonia? ».
Isabel chinò il capo. Ci aveva pensato per tutta la mattina. In effetti, ci aveva pensato da quando si era messa in cammino. Doveva tentare di trovare il modo di tornare, ma la ragione le diceva che non esisteva. O che – quanto meno – se c’era non l’avrebbe trovato in una biblioteca. Probabilmente, si era detta, sarebbe bastato fissare nuovamente il ciondolo in una notte stellata, scivolare in quel caldo torpore e lasciarsi trasportare lontano, esattamente come la prima volta, ma non ne era certa. Ad ogni buon conto, quella sera ci avrebbe provato. Se avesse funzionato, tutto bene; se invece non fosse successo nulla… be’, a quel punto rimaneva poco da fare.
Del resto, non poteva mica presentarsi da un sedicente stregone e dirgli “ ehi, ciao! Io vengo dal ventunesimo secolo! “. Insomma, soltanto a pensarlo lei stessa si prendeva per una pazza!
« Marta Alessandra? », la richiamò Nicandro, facendola riemergere dalle sue riflessioni.
« Scusate », mormorò lei, « Sì, la mia patria è molto, molto lontana. Così lontana che se ve ne parlassi non mi credereste mai ».
Nicandro annuì. « Capisco. Be’, io posso darti uomini e provviste, se è questo che vuoi ».
Isabel scosse il capo. « No, non è questo. Il punto è che non credo di poter più tornare ».
« Non ricordi la strada? ».
« In tutta sincerità, amico mio, non so nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui! », esclamò lei, sbottando in una risatina triste e nervosa.
Nicandro si passò una mano sulla folta barba. « In questo caso, figliola, non so che dirti. Potresti tentare, ma temo che finiresti per perderti ».
« Potrei provare a cercare qualcuno che conosce la strada… ma non so dove cercare. In effetti, la logica mi dice che un uomo simile non esiste ».
« Non puoi dirlo con certezza ».
« Fidatevi, Nicandro, posso », lo contraddisse lei con forza.
« Dunque non puoi tornare indietro », concluse il vecchio, con una semplicità che fu per Isabel come una stilettata al cuore. « Vuoi tentare ugualmente? ».
Isabel sentì una lacrima rigarle il volto. « Voglio, sì. Io … io devo tornare a casa. Altrimenti sento che ammattirei ».
« Allora prova così: tenta per tre volte. Se alla terza fallirai, rinuncia. Quando gli Dèi si oppongono al nostro ritorno, è inutile sfidarli. Si finisce solo col farsi del male ».
« Siete molto fatalista », osservò, cupa, Isabel.
« Sono un vecchio! », si limitò a ribattere lui.
La ragazza annuì. Forse Nicandro aveva ragione: doveva provare, ma se avesse fallito … be’, a quel punto avrebbe dovuto mettere il cuore in pace. Rifletté sulla questione: quella sera stessa avrebbe provato a fissare di nuovo la pietra. In caso di fallimento avrebbe chiesto a Nicandro di indicarle la più ricca biblioteca esistente e vi si sarebbe recata, spulciandone i libri alla ricerca di qualche notizia utile. Se non avesse trovato nulla, avrebbe aspettato un anno, in modo da riprovare a fissare la pietra esattamente nella stessa  notte dell’andata. Chissà, forse era solo una questione di posizione degli astri e roba simile.
« E se anche così non funziona … », mormorò piano Isabel. Be’, in quel caso si sarebbe arresa. Avrebbe pianto le dovute lacrime, avrebbe abbandonato il suo nome di battesimo e sarebbe davvero diventata Marta Alessandra. Del resto, si disse, poteva fare diversamente?
Isabel non era mai stato un asso in scienze, ma del resto sapeva che non sarebbe mai andata a lavorare in un osservatorio astronomico o tanto meno avrebbe mai vinto un Nobel per la chimica, eppure c’era una cosa di cui era assolutamente certa: nel cielo che stava osservando non c’era il Grande Carro. Lo stava fissando da quasi dieci minuti, scorrendo con lo sguardo in lungo ed in largo, e sebbene le costellazioni fossero chiarissime, come se nessuna nube o luce artificiale le offuscasse, il Grande Carro proprio non si vedeva.
Fu soltanto in un secondo momento che si rese conto di un altro, quanto meno inquietante, dettaglio: come diamine faceva a vedere il cielo? Non era forse in camera sua, sotto un solido tetto? Isabel rifletté un attimo sulle varie alternative, ed infine decise che era proprio il caso di alzarsi e guardarsi attorno.
« Oh … merda … ». Di solito Isabel non era volgare, ma quella volta l’unica affermazione logica e pertinente era proprio “ oh, merda “: qualsiasi altra cosa sarebbe suonata riduttiva. Del resto, che altro si poteva dire di fronte ad una campagna verde, perfetta, mossa da dolcissime colline e con un piccolo villaggio medioevale in lontananza?
 
« Il trucco sta tutto nell’espirare con calma. Così: inspirare, espirareeeee, inspirare, espirareeeee … ». Era quasi mezz’ora che Isabel tentava di calmarsi. Aveva pianto, strillato, tremato, chiamato aiuto e poi pianto ancora; al momento aveva deciso che fare l’isterica non serviva ad un bel niente e stava provando a vincere il panico che le attanagliava la base dello stomaco.
« … inspirare, espirareeeee … okay, sono calma », concluse infine, anche se sapeva perfettamente che non era vero. Del resto, aveva smesso di piangere e di strillare e probabilmente per quella sera era quanto di meglio potesse pretendere da sé stessa.
« Vediamo di ragionare », si impose, sedendosi sull’erba, le spalle a quel dannatissimo villaggio che – non c’era altra spiegazione – doveva per forza essere un frutto della sua malata fantasia. « Allora, che cosa stavo facendo? », provò a ricordare: dovette concentrarsi per un momento, ma alla fine riuscì a rammentare sé stessa al telefono con Jo, mentre assorta esaminava il ciondolo. « Il ciondolo! », esclamò, portando una mano al collo: il pendente era lì, leggero come una piuma nonostante la mole. Isabel se lo sfilò e lo osservò al fioco chiarore delle stelle.
« Non dirmi che … », mormorò, alzando si scatto gli occhi al cielo. Controllò decine di volte, dandosi della pazza, dell’isterica e della credulona, ma alla fine dovette arrendersi al fatto che le stelle racchiuse in quella pietra erano identiche alle costellazioni aliene che le brillavano sulla testa. « No, andiamo, Isabel, non essere ridicola. Si tratta soltanto di una banale coincidenza! », si disse, ma senza riuscire a convincersene del tutto.
Dopo un attimo, sospirò, arrendendosi. « Okay, non è una coincidenza. Ma allora? Che cosa diavolo mi è successo? », si domandò, senza curarsi di parlare ad alta voce: non c’era nessuno nel raggio di miglia, e se anche gli abitanti del villaggio l’avessero sentita, non le importava. Dopotutto, il villaggio era un frutto della sua fantasia.
« Oh, cacchio! », sbottò, crollando a pancia in su sull’erba fresca e folta. Chiuse gli occhi, imponendosi di pensare. Allora, che cosa sapeva? Sapeva che stava osservando il ciondolo, che di colpo si era sentita strana, come lontana, distante, e che subito dopo si era addormentata. Quando aveva aperto gli occhi era in compagnia dei frutti malati della sua fantasia e di un cielo che a rigor di logica non doveva esistere.
Senza accorgersene riprese a piangere: che cosa cavolo le era successo? Voleva la sua mamma, voleva suo papà, le bastava persino sua sorella, qualcuno maledizione! Qualcuno che la riportasse indietro! Non pretendeva Edward, anche Julia o Joseph sarebbero andati più che bene! Diamine, anche la Madisons sarebbe andata più che bene! Che diavolo era successo?
« Non ci credo, non è possibile … », mormorò tra i singhiozzi: dove cavolo era finita? « Certe cose non succedono. Non può essere vero. Certe cose non succedono. Non succedono e basta e tutto questo non è vero », prese a ripetere ossessivamente, rifiutando di accettare l’idea balzana ed improbabile che fosse finita da qualche altra parte, particolarmente lontano da casa. Un “ qualche parte “ dove le stelle erano diverse e il tempo si era fermato qualche centinaio di anni prima.
Strinse forse le palpebre e si tappò le orecchie. « No, no, no! Non è vero, non è possibile! », gridò, il più forte possibile. Gridò finché ebbe aria nei polmoni, e poi continuò comunque a gridare. Puntini rossi le apparvero davanti agli occhi, le gambe si fecero molli e lei cadde in avanti, bocconi, senza forze, senza smettere di gridare. Perché a lei? Perché? E, soprattutto, com’era possibile? Che cosa le era successo?
Isabel si raggomitolò su sé stessa e, per quanto si vergognasse e cercasse di fermarsi, scoppiò in un pianto dirotto. Le stelle ancora ammiccavano lucenti in cielo, quando infine – stremata e tremante – crollò in un sonno senza sogni.
 
Si svegliò all’alba, rimanendo per un istante a fissare il sole che sorgeva da dietro le colline. Le occorse un minuto prima di ricordare dove si trovava e quello che era accaduto, ma fortunatamente non ricadde nel panico isterico della sera prima. Doveva rimanere tranquilla: le era successo qualcosa di completamente assurdo, incredibile persino, e il panico non sarebbe certo servito a renderlo più comprensibile. Ma del resto… sua mamma, suo papà, Dawn, Jo… il loro semplice pensiero le faceva pungere le lacrime agli occhi e lei dovette lottare a lungo per non ripiombare in un pianto disperato. Si levò a sedere e si impose di riflettere razionalmente.
« Bene … allora, innanzitutto devo di capire dove sono », stabilì, anche se il problema poteva anche essere non dove ma quando. Le balzò infatti alla mente che potesse semplicemente essere finita indietro nel tempo e che le stelle aliene fossero quelle dell’altro emisfero terrestre.
« C’è un solo modo per scoprirlo ». Si alzò in piedi e si mise a camminare verso il villaggio. La campagna era bella da mozzare il fiato, coi prati di un verde perfetto ed i boschi fitti, dagli alberi alti, secolari, evidentemente frutto del caso di natura e non del lavoro dell’uomo. Era un posto vergine, o almeno quella era l’impressione che dava. Ad un certo punto uno scoiattolo le attraversò la strada, scomparendo in cima ad una quercia. Isabel rimase sbalordita: non sembrava minimamente spaventato da lei!
Scese una collina particolarmente ripida e finalmente giunse nelle vicinanze del villaggio. La prima cosa che la colpì fu che non si trattava di un villaggio medioevale. Certo, lei non era una storica o un’archeologa, però quello non era medioevale. Le case erano di legno, bianche di calce, coi tetti alti e… le si mozzò il fiato in gola. Un uomo era uscito da una delle case e si stava avviando verso uno dei campi coltivati dietro il villaggio con una zappa in mano. E, che le venisse un colpo, quell’uomo era vestito da antico Romano.
 
« Va tutto bene. Va davvero tutto bene ». Per quanto lo ripetesse, Isabel non riusciva proprio a convincersene. Si era lasciata cadere seduta sull’erba, incapace di proseguire d’un altro passo, e stava da quasi mezzora cercando di dare un senso a quella situazione che di senso non ne aveva proprio.
Era finita nell’Antica Roma. E che cavolo! Non era possibile! La gente non finiva nell’Antica Roma così, per caso. Anzi, la gente non finiva nell’Antica Roma punto e basta! Certe cose accadevano solamente nei film di Hollywood e nei libri che leggeva Dawn. E magari nemmeno in quelli.
Si passò una mano tra i capelli perfino più scompigliati e ribelli del solito e sentì le lacrime pungerle nuovamente gli occhi. Le ricacciò orgogliosamente in gola: no, aveva pianto fin troppo. Certo, era sotto shock, ma se cedeva di nuovo al panico non avrebbe ottenuto un bel niente. Doveva rimanere lucida e cercare una soluzione.
« Guardiamo il lato positivo: ora so dove e quando sono. È già qualcosa. Adesso devo solo scoprire come tornare indietro, e presto ». Prese in mano il ciondolo e lo esaminò ancora una volta. Le stelle incastonate nella pietra continuavano ad ammiccarle maliziose, ma per quanto le fissasse non riuscì a provare niente di simile a quel senso di torpore e lontananza che aveva sentito quando era stata scaraventata laggiù.
« Quando torno devo proprio dirne quattro a Zia Dag », stabilì, rimettendosi in piedi. Ora si trovava di fronte ad un bivio: o si dirigeva al villaggio e vedeva cosa poteva ricavarne, oppure… già, oppure cosa? Cosa poteva fare?
« Rifletti, Isabel, rifletti », si impose. Che cosa le serviva? Sì, a parte la mamma e un caffè forte, che cosa le serviva?
« Il modo per tornare a casa », rispose a sé stessa. Bene, e come poteva trovare questo modo? Lei non ne aveva idea, quindi doveva chiedere. Ma a chi? Chi poteva saperne qualcosa in proposito? Non voleva finire nelle mani di qualche stregone che le suggerisse un salasso per spurgarsi simili idee balzane dal sangue! No, aveva bisogno di qualcosa di meglio, qualcosa di più obiettivo… come un libro! « Sì, libri! », esclamò. Un trattato sulle gemme o leggende o cose del genere.
Sì, eccole allora le due possibilità: o il villaggio o mettersi in marcia nella speranza di incappare in una grande città dove consultare una biblioteca o qualcosa del genere in merito alle proprietà magiche delle pietre con le stelle.
« E vada per la grande città », concluse, voltando le spalle a quel villaggio che proprio le stava antipatico e mettendosi in marcia. Ben presto le scarpe pratiche da casa che ancora indossava si rivelarono inadatte su quel terreno erboso e fangoso, bagnato di rugiada, ma quanto meno indossava una tuta comoda e calda. Certo, non era precisamente il must della stagione, ma era sempre meglio della gonna e dei collant. Con quelli non sarebbe sopravissuta un’ora. Anche se, a dire il vero, forse sarebbero passati più inosservati dei pantaloni e della felpa col cappuccio.
« Eh, già. E poi come lo spiegavo il nylon? », commentò ad alta voce Isabel. Forse la tuta era un pugno in un occhio, in mezzo a tante toghe, ma quanto meno era di puro cotone. Non che fosse una gran consolazione, certo, ma Isabel si sforzava con ogni briciola del suo essere di guardare il bicchiere mezzo pieno.
« Diciamo così: meglio se non incontro nessuno finché non ho trovato il modo di cambiarmi », sentenziò alla fine, imponendosi di non pensare più al suo abbigliamento.
Del resto, non era certo quello il suo problema maggiore. Escludendo il dettaglio di essere finita nell’Antica Roma e di non avere la minima idea di come tornarsene a casa, al momento si trovava nei guai fino al collo: non aveva il becco di un quattrino – qualcosa le diceva che lì non accettavano i dollari – non sapeva dove si trovava e non parlava una parola di latino. In effetti, a voler essere ottimiste, era nei liquami fino al collo.
« Quando torno a casa, credo che Zia Dag mi dovrà qualche piccola spiegazione », ripeté ansimando, proseguendo lungo il crinale di una dolce collina.
Cercava di non pensare alla sua famiglia e alla sua situazione: aveva l’impressione che se si fosse soffermata a riflettere su tutta quella storia, si sarebbe seduta a terra ed avrebbe cominciato a gridare senza più riuscire a smettere.
Stringendo i denti, aumentò il passo. Doveva arrivare in città il prima possibile. Finalmente arrivò sulla vetta e si guardò attorno. Lo spettacolo le mozzò il fiato in gola. Era la campagna più grande, verde e intatta che avesse mai visto. Nessun documentario, nessun film, nessun libro l’aveva preparata ad una simile visione di purezza, con gli alberi secolari, i prati d’un verde brillante, l’erba alta e folta, i fiori che coloravano sezioni intere d’orizzonte, il piccolo torrente che lambiva dolcemente le colline, i conigli selvatici che brucavano il trifoglio, un branco di cerbiatti o caprioli o quello che erano che si muoveva tranquilli appena oltre la linea degli alberi. Era tutto così vero, così intatto, così puro.
« Mio Dio … », riuscì soltanto a mormorare, quando da dietro un’altra collina comparve un piccolo branco di cavalli selvatici. Erano una dozzina di animali, per lo più bai e sauri, anche se Isabel distinse subito un magnifico cavallo bianco come la neve ed un altro scuro come la notte. Anzi no, un’altra, si corresse subito la ragazza, quando vide la pancia rigonfia della morella. Era chiaramente incinta, ma si muoveva con la grazia di una ballerina.
« Magnifico », sorrise Isabel, lasciandosi cadere sull’erba soffice, in mezzo ai fiori bianchi che innevavano quel fianco della collina. Rimase a lungo ad osservare il branco muoversi pacifico, brucare l’erba tenera ed ancora fresca di rugiada, osservando come ipnotizzata i loro movimenti fluidi, eleganti, perfetti. In qualche modo la calmavano, quietavano le sue ansie, come se la loro semplice presenza la facesse sentire un po’ di più a casa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì, seduta ed immobile, senza pensare a niente, senza preoccuparsi del denaro, della lingua o del fatto che non era per niente logico che lei in quel momento non si trovasse nella sua cameretta al telefono con Jo.
Si riscosse solamente quando il cavallo bianco le si avvicinò incuriosito. Rimase talmente sbalordita da una simile audacia da non riuscire a muoversi, osservando estatica il magnifico animale che si faceva sempre più vicino.
Isabel non era mai stata una grande esperta di cavalli, però da bambina aveva imparato a montare ed aveva sfogliato piena di meraviglia un’enciclopedia delle razze equine che sua nonna le aveva regalato per Natale. L’animale che aveva di fronte aveva tutto meno il pedigree, ma non di meno era obiettivamente splendido: aveva la criniera lunga, dai crini sottili, splendenti come seta. Gli occhi erano grandi, neri come ossidiana e profondamente intelligenti. Forse troppo intelligenti per essere definiti buoni o gentili. Sembravano scrutarla attentamente e – notò Isabel con un mezzo brivido – capire. Di certo aveva forme perfette, possenti ed aggraziate, con le gambe lunghe e forti di un corridore ed il petto solido dai muscoli guizzanti. Sottili ciuffi di pelo ricoprivano gli zoccoli duri, mentre i crini della lunga coda bianca sfioravano i ciuffi d’erba.
« Ciao », mormorò piano Isabel quando il cavallo giunse a meno di un metro da lei. L’animale non parve minimamente infastidito dal suono della voce umana. Allungò invece il muso e le annusò una spalla. Poi le sfiorò il capo e mosse la bocca come per mangiarle i capelli. Ridendo, Isabel si ritrasse, ma ancora una volta il cavallo non si spaventò.
« Siamo coraggiosi, eh? », esclamò la ragazza, chinandosi sul terreno per sbirciare il ventre dell’animale, « E, decisamente, siamo dei maschietti ». Strappò un ciuffo d’erba e lo tese allo stallone. Questi annusò prima le sue dita, sbuffò e mangiò il trifoglio fresco dalla sua mano, come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Quindi, con noncuranza, si mise a brucare accanto a lei. Isabel rimase ad osservarlo a lungo, poi però si ricordò che aveva ben altro da fare che sognare ad occhi aperti. Doveva raggiungere una città prima che facesse buio, perché non aveva nessuna voglia di passare la notte all’aperto. Se di giorno quelle colline brulicavano di dolci coniglietti e timidi caprioli, non aveva davvero nessuna voglia di scoprire di cosa brulicavano non appena tramontava il sole.
Perciò si alzò, lentamente per non spaventare lo stallone bianco, che però si limitò a gettarle un’occhiata curiosa senza smettere di brucare. Incoraggiata da tanto ardimento, Isabel gli diede una pacca sul collo muscoloso. « Arrivederci, amico mio. Buona fortuna coi lupi », lo salutò, riprendendo il suo cammino.
Discese la collina verso il ruscello, del quale assaggiò le acque ricordandosi che era un bel pezzo che non beveva e non mangiava un bel niente. A parte il trifoglio, però, non c’era nulla nelle vicinanze che potesse essere mangiato senza spargimento di sangue, perciò Isabel decise di rimandare il pranzo ad un momento migliore. « Mi sa che quando torno potrò fare la modella », commentò la ragazza quando il suo stomaco prese a brontolare. Cercava di essere ottimista, ma si rendeva conto di esserlo forzatamente, al punto da non ingannare nemmeno sé stessa.
Sospirò e, superando il torrente d’un balzo, riprese a camminare. Nel giro di dieci minuti si era lasciata alle spalle la valle ed il branco di cavalli, giungendo in una campagna meno ondulata sulla quale spiccava, come una ferita su un bel volto, un sentiero di terra battuta.
« Be’, da qualche parte condurrà », commentò Isabel, più decisa che mai a giungere in un grosso centro abitato e munito di una biblioteca o santone o maga che fosse. Le andava bene persino uno sciamano, basta che le spiegasse cosa diavolo era quella pietra e come cavolo aveva fatto a trasportarla lì. Probabilmente era una follia sperare di avere una qualche spiegazione, ma al momento non le veniva in mente niente di meglio. E comunque, non poteva passare il resto dei suoi giorni in campagna con i conigli.
Prese dunque il ramo del sentiero che portava a sinistra e si incamminò di buon passo. Notò subito i solchi nel terreno e le molte impronte, di cavallo e di uomo, deducendone che si trattava di una strada molto trafficata. Il che era un bene, perché significava che conduceva in una città piuttosto importante; ma allo stesso tempo era un male, perché significava che presto o tardi avrebbe incontrato qualche Antico Romano che di certo avrebbe notato la sua mise fuori moda ed il suo strano accento.
« Oh, be’, non potevo mica sperare che non accadesse mai. Prima o poi si incontra per forza qualcuno », cercò di tranquillizzarsi Isabel, ma la realtà era che si sentiva paralizzata dal terrore.
Le gambe quasi le cedettero quando alle sue spalle udì rumore di zoccoli. Si voltò lentamente, come se si aspettasse di veder comparire un fantasma da un momento all’altro, ed ebbe un colpo quando una sagoma famigliare si stagliò sul sentiero.
« Tu? Che cavolo ci fai qui? », esclamò Isabel.
Lo stallone bianco ignorò il suo stupore e le venne incontro. Andò a strusciarle la testa contro la spalla, come un gatto che reclama le coccole. Incredula, la ragazza gli accarezzò il manto vellutato. « Non dirmi: hai deciso di andar in cerca di fortuna e vedere il mondo », ridacchiò Isabel, senza sapere cosa pensare. Cosa gli prendeva, a quel benedetto animale? Perché si era messo a seguirla?
« Credo che dovresti tornare indietro », gli ordinò con voce dura ed un movimento brusco del braccio. Lo stallone, irritato, arretrò d’un passo, ma poi nuovamente prese a strusciare il muso contro di lei. Isabel, sospirando, lo accarezzò.
« Sei un pazzo. Vattene! », stava per spingerlo via, quando le venne in mente che in fondo la strada per la città poteva essere più lunga del previsto. Prese la testa del cavallo tra due mani e la sollevò in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza. L’animale ricambiò con decisione il suo sguardo. « Siamo due cretini », sentenziò Isabel, depositando un bacio sulla fronte dell’animale. « Avanti, andiamo ». Lasciò andare il capo dello stallone e afferrò un ciuffo di crini della sua serica criniera, rimettendosi in cammino. L’animale, senza minimamente protestare, la seguì con passo cadenzato ed elegante.
Isabel sapeva che sarebbe stato più logico montargli in groppa, però non cavalcava dall’età di undici anni e per di più non aveva mai provato a montare a pelo. Avrebbe tentato solamente quando i suoi piedi avrebbero iniziato a gridare pietà.
Dopo un po’ Isabel iniziò a sentirsi vagamente stupida, camminando al fianco di uno stallone come se fosse un cane, e suo malgrado scoppiò in una sonora risata. « Oh … santo cielo … », esclamò scuotendo il capo. Il cavallo la fissò incuriosito.
« Be’, amico mio, eccoci qua. Che coppia, eh? I due più scemi delle nostre razze », esclamò lei, « Non ho capito come ti chiami ». Il cavallo continuò a fissarla, « Ah, sei timido. Be’, io sono Isabel. Isabel Nelson, piacere. Ho sedici anni e soltanto ieri vivevo nel ventunesimo secolo. E tu? ».
Il cavallo si limitò a camminare tranquillo. « Come dici? Sei scappato di casa? Ma è terribile, amico mio, davvero terribile! Sei un vero furfante! ». Sorrise, « Be’, piccolo, dovremo trovarti un nome. Che ne dici di … emh… che ne so, Sansone? », azzardò, ma il cavallo non la degnò di uno sguardo. « No, hai ragione, è più un nome da vecchio ronzino grasso. Ci vuole qualcosa di più pimpante. Fulmine, forse? ».
Il cavallo scrollò la criniera, infastidito da una mosca di passaggio. « Oh, scusami tanto! Non volevo offenderti! », fece Isabel, « E comunque sì, hai ragione, è troppo banale. Allora lasciami pensare… però pensa anche tu, d’accordo? ». Per un po’ proseguì in silenzio, prima di avere un’illuminazione. « Ci sono! Che ne pensi di Furia, come il cavallo del west? ».
Lo stallone continuò ad ignorarla. Si limitava a camminare al suo stesso passo, osservando pigramente la campagna attorno a loro. « Oh, capisco! Sei bianco, non nero. Hai ragione, hai ragione. È un aspetto da non trascurare. Be’, ma allora sono rimasta senza idee. E che cavolo! ».
Stava per riprendere a riflettere, quando l’occhio le cadde su qualcosa. « Oh … che mi venga un colpo! », esclamò: a meno di cento metri sulla destra del sentiero sorgeva un alto albero di mele, grosse e rosse come quelle che si disegnano da bambini.
« Pancia mia, fatti capanna! », rise, uscendo dal sentiero e correndo sotto la pianta. Lo stallone, senza esitare un solo momento, le venne dietro passando al piccolo trotto. Isabel provò ad arrampicarsi sul grosso tronco nodoso dell’albero, per arrivare ai rami più bassi, ma a parte scorticarsi i palmi delle mani non ottenne alcun risultato. Tentò persino di saltare ed afferrare una mela al volo, ma persino il ramo più carico e piegato era fuori dalla sua portata.
Si voltò verso lo stallone. « Ehi, amico, vieni un po’ qui ».
Afferrò il cavallo per la criniera e lo condusse sotto la chioma del melo. Dopo un paio di tentativi riuscì a montargli faticosamente in groppa: era davvero un animale magnifico, ma al garrese era alto almeno una decina di centimetri più di lei e non fu un’impresa semplice per la piccola Isabel. Dall’alto del dorso del cavallo, però, le mele erano molto più vicine. Bastò allungarsi un poco e riuscì a coglierne una dozzina abbondante. Ne assaggiò una: era dolce e succosa. Isabel socchiuse gli occhi, deliziata: non aveva mai mangiato un pomo dal gusto anche solo vagamente simile. Riconoscente, ne tese una allo stallone, che lo divorò in un paio di morsi.
« Be’, amico mio senza nome, eccoci qua », esclamò Isabel, guardandosi attorno. Era una magnifica sensazione, starsene in groppa a quell’animale magnifico, le gambe a penzoloni ed il sapore divino di quella mela a stuzzicarle il palato. Decise che non valeva davvero la pena di continuare a piedi. « Su, forza, piccolo mio, proseguiamo », esclamò, sfiorando appena i fianchi dell’animale coi talloni. Obbediente, il cavallo si mise in cammino, tornando sul sentiero e riprendendo a percorrerlo con passo lento e cadenzato.
Isabel, completamente rilassata, divorò una mela dietro l’altra, faticando a costringersi a lasciarne qualcuna per quella sera. Cacciò i pomi sopravissuti nelle ampie tasche della felpa e si pulì le mani sui pantaloni della tuta, guardandosi attorno senza più alcun angoscia. La campagna era magnifica, il sole tiepido, la pancia piena ed il cavallo faceva la strada per lei: cosa poteva chiedere di più dalla vita?
« Tornare a casa? », si rispose da sola, acida. « Grazie alla formula magica trovata in un libro, magari! », aggiunse, in preda allo sconforto: ma che cosa stava facendo? Davvero credeva che avrebbe trovato un volume rilegato in pelle umana con su scritto “come tornare nel ventunesimo secolo in cinque mosse”? « Dannazione! ».
Innervosito dal suo tono irritato, lo stallone bianco sbuffò, scrollando il capo. « Scusa, amico mio. Stavo solo parlando ad alta voce », sospirò lei, accarezzandogli il collo per calmarlo.
« Ehi, sai che forse ho avuto un’idea? Visto che in fondo qui siamo a Roma e che tu sei un cavallo Romano, potrei darti un nome adeguato: che ne dici di Elisium? Come i Campi Elisi, il paradiso dei Romani. Perché, ti giuro, amico mio, che mi sei apparso proprio come un angelo dal paradiso ».
Lo stallone nitrì, aumentando il passo al piccolo trotto. Ridendo, Isabel decise di interpretare quell’improvvisa vivacità come un sì. « Ed Elisium sia, quindi! Piacere di conoscerti, amico mio! », esclamò.
 
Il sole sfiorò le colline alla loro sinistra e Isabel capì che non avrebbero raggiunto nemmeno l’ombra di una città in tempo. Davanti e dietro di loro, fino all’orizzonte, non c’era altro che verde campagna e la linea sinuosa di quel sentiero che si perdeva a vista d’occhio. Sconfortata, Isabel si arrese all’idea di dover dormire all’aperto anche quella notte. Si guardò attentamente attorno finché non scorse un albero dalla folta chioma e vi diresse Elisium.
Quel cavallo era a dir poco straordinario. Bastava il suo minimo tocco e lui faceva esattamente quello che la ragazza aveva in mente. A volte tanta perspicacia le faceva quasi paura, ma per lo più era confortante l’idea di avere al fianco qualcuno che la capisse così bene. Si sentiva non solo meno sola, ma – sebbene fosse assurdo – anche molto più al sicuro.
Le prime stelle già illuminavano la volta celeste quando Isabel ed Elisium consumarono le loro ultime mele, all’ombra del grande albero. Lo stallone poi si mise a brucare dei brutti fiori gialli e Isabel si appoggiò contro il tronco certa di star per passare la peggior notte della sua vita. Invece, vinta dalla stanchezza, si addormentò quasi subito.
 
Fu un rumore indistinto a svegliarla. Allarmata, spalancò gli occhi, guardandosi attorno prima un po’ confusa – che diamine ci faceva in aperta campagna? – poi, non appena ricordò quanto le era accaduto, decisamente allarmata: da dove veniva quel rumore? Notò che era giorno ed il sole già piuttosto alto le disse che l’alba era passata da un pezzo, e vide Elisium poco distante che, ritto e fremente, fissava nervoso un punto indistinto alle sue spalle.
Lentamente, spaventata, Isabel si voltò. Fu subito chiaro che cos’era e da dove veniva quel rumore: una colonna di carri trainati da enormi buoi avanzava lungo il sentiero nella sua direzione. Non erano carri di contadini: anche all’occhio inesperto di Isabel era evidente che erano ben costruiti – delle specie di Rolls Royce dell’antichità –, che i buoi erano pasciuti e possenti, che le tende che li ricoprivano erano di stoffa costosa e pesante e che il seguito era troppo numeroso e ben vestito per essere quello di un venditore di grano o di un mugnaio. In particolare, c’era un uomo a cavallo che precedeva il convoglio. Un uomo armato.
Isabel sentì un brivido correrle giù per la spina dorsale ed istintivamente allungò una mano per chiamare Elisium. Il cavallo, pronto ed intuitivo come sempre, le fu subito accanto. Isabel afferrò con forza la criniera e si issò rapidamente in groppa, pronta e decisa a fuggire il più lontano possibile da quegli estranei.
« Ferma! », gridò l’uomo armato.
Isabel rimase paralizzata. E non certo per l’ordine.
Il fatto era che l’aveva capito. Quell’uomo aveva parlato in latino e lei l’aveva capito alla perfezione.
« Oh, mio Dio … », mormorò impallidendo. E si rese conto soltanto allora che anche lei stava parlando in latino.
Un improvviso, acuto senso di nausea la assalì. Faticò parecchio a non dare di stomaco e quando finalmente riuscì a riprendere il controllo l’uomo armato, che aveva spinto il cavallo al trotto, l’aveva raggiunta.
« Ferma, ragazza! », le gridò ancora l’uomo, sebbene lei non avesse mosso un muscolo. « Quanto manca ancora al mare? ».
Isabel aggrottò le sopraciglia: mare? Quale mare? Dove diamine si trovava?
« Io … io non lo so. Sono straniera e mi sono persa », esclamò, rabbrividendo d’orrore ad ogni sillaba in latino che le sue labbra pronunciavano.
« Sì, avevo intuito che fossi straniera », commentò l’uomo adocchiando la sua tuta, « Davvero non sai quanto dista il mare? ».
Isabel scosse il capo. « Non so nemmeno da che parte è ».
L’uomo sospirò. « Ah, magnifico! », gemette, voltandosi e facendo un segnale agli altri del convoglio. Isabel vide parecchi sollevare le braccia al cielo, esasperati.
« È molto che viaggiamo », spiegò l’uomo armato, seguendo il suo sguardo, « Mi chiamo Manio Umbrio ». Era un bell’uomo sulla soglia della quarantina, con un fisico da soldato, capelli tagliati molto corti ed un’ombra di barba color del ferro che gli induriva le guance e la mascella dal taglio duro e risolto. Non ci voleva una laurea in storia per capire che era un Romano.
« Io sono … », Isabel si morse la lingua. Non poteva presentarsi come Isabel Nelson! Arrancò nei meandri della sua mente alla ricerca di un nome Romano, ma più che Giulia o Cornelia non riuscì a rammentare, e quelli erano nomi troppo importanti ( o almeno, così ricordava dalle lezioni di storia ), che davano decisamente nell’occhio e avrebbero scatenato un fiume di domande. Per di più, rammentò, aveva detto di essere straniera. Non poteva dare un nome così Romano. Ci voleva qualcosa che suonasse plausibile ma allo stesso tempo non patrizio. Un attimo dopo ebbe un’idea. « Io sono Marta Alessandra », rispose, soddisfatta. Suonava un po’ greco, un po’ giudeo ed un po’ Romano e di certo non avrebbe suscitato la curiosità dell’uomo armato.
« Onorato, Marta Alessandra », esclamò infatti Umbrio, senza lasciar trasparire il minimo sospetto o perplessità. « Posso chiederti cosa ci fai … emh … qui? », le domandò, rivolgendole un’occhiata eloquente. Isabel comprese subito che cosa intendesse: era una ragazza sola, vestita con pantaloni ed una strana tunica corta con cappuccio, in sella ad un magnifico stallone bianco senza sella né briglia, straniera e a suo dire sperduta. Era una storia che faceva più acqua di un colabrodo. Isabel inspirò e si preparò a raccontare una delle bugie meglio costruite della sua vita.
« Io vengo dall’est », cominciò, rimanendo volutamente sul vago, « E circa un anno fa i miei sono morti … aah… per una strana epidemia che ha colpito la nostra regione. Il fratello di mio zio vive da queste parti … ».
« È un Gallo? », la interruppe Umbrio, sorpreso.
Isabel nascose ogni emozione: e così erano in Gallia, ossia la Francia dell’epoca. Bene, quanto meno era un inizio.
« No, è semplicemente immigrato qui per affari ».
« Tratta affari coi Galli? ».
Isabel annuì. « Sì, emh… non hai mai sentito parlare di lui? È piuttosto famoso, col suo allevamento di … emh… cavalli… si chiama … Dagmaro Alessandro », inventò. Dagmar era un nome da donna – il vero nome di Zia Dag, ad essere precisi – ma Umbrio non poteva certo saperlo, né tanto meno notare l’orribile storpiatura latineggiante di quel nome tedesco.
« Dagmaro Alessandro? No, mai sentito nominare. Però la Gallia è talmente grande e noi qui siamo solo di passaggio », ammise Umbrio, facendo sospirare la ragazza di sollievo.
« Oh, be’, questo spiega tutto. Comunque… ah… sì, stavo dicendo: Dagmaro Alessandro è il solo parente rimastomi in vita, così ho deciso di raggiungerlo. Ho preso con me la mia serva ed un paio di uomini ed ho attraversato … be’… foreste e campagne, per arrivare qui ».
« Siete passati per la Germania? », esclamò Umbrio, a dir poco allibito ed incredulo.
« Cosa? No, no, certo che no! », escusse il capo Isabel, annaspando alla ricerca di una soluzione, « Ovviamente abbiamo deviato per l’Italia! ».
« Ah! Capisco … più lungo ma più sicuro, giusto? ».
« Infatti, infatti », annuì Isabel, sentendosi stanca e sudata come dopo una lunga maratona, « E così sono arrivata fin qui … cioè, voglio dire, ... sono arrivata… arrivata… sì, scusami, mi ero persa », sorrise forzatamente lei, « …sono arrivata a casa di mio zio, ma purtroppo … », si interruppe, fingendo di sospirare, in maniera da prendere tempo alla ricerca di una soluzione.
« Lasciami indovinare », la prevenne però Umbrio, « L’hai trovata in fiamme », scosse il capo, « Questi barbari! Saccheggiano e depredano e nessuno può fermarli! ».
« Infatti! Proprio così », annuì Isabel, fingendosi addolorata, « Il problema è che a quel punto i miei servi hanno capito che non sarebbero stati pagati e così sono fuggiti via, prendendo anche tutto il mio bagaglio », proseguì, grata a Dio e tutti i santi per quell’improvviso colpo di genio, « Ed io non ho potuto fare altro che prendere l’unico cavallo scampato alla razzia e mettermi in cammino, sperando di riuscire a trovare la strada di casa… anche se a questo punto non credo più di averne una », concluse, con un tono mesto che di certo le sarebbe valso l’Oscar.
« Per Giove, che storia! Ragazza mia, sei stata incredibilmente sfortunata! Ma molto coraggiosa, te ne do atto, davvero molto coraggiosa. Ah, ecco i miei compagni », esclamò, voltandosi verso il resto del convoglio che nel frattempo li aveva raggiunti.
Isabel, un po’ nervosa, si mosse a disagio, cercando affannosamente una scusa per dileguarsi. Umbrio, nel frattempo, si avviò verso il più ricco e grande dei carri – una specie di casa su ruote – e scostò la tenda scambiando qualche parola con un uomo all’interno. Un attimo dopo uno degli schiavi del convoglio – Isabel lo riconobbe come tale dalla targhetta che gli pendeva al collo, come aveva imparato guardando Discovery Channel – si affrettò a sistemare una specie di sgabello accanto al carro. Un uomo ne discese usando lo sgabello come scaletta e voltandosi subito verso di lei. Era molto anziano, sui settant’anni almeno, magro come uno spaventapasseri, piccolo e curvo, ma con una folta capigliatura bianca, una barba ben curata ed un fuoco ardente nello sguardo blu come il mare.
« Marta Alessandra, giusto? », le domandò in un latino dallo strano accento.
Isabel annuì. « Sì, dominus, sono io ». Smontò da cavallo e gli si avvicinò trattenendo Elisium per la criniera. Non che ve ne fosse bisogno: lo stallone la seguiva come un fedele cagnolino.
Il vecchio le sorrise come un nonno benevolo. « Manio Umbrio mi ha raccontato la tua storia. Povera piccola, sarai spaventata e smarrita! ».
Isabel fece spallucce. « Me la cavo, dominus. Ammetto di essere stata a lungo spaventata e smarrita, ma alla fine bisogna pur reagire in qualche modo, non credete? ».
Il vecchio allargò un sorriso. « Sagge parole. Mi sorprende udirle da una bocca così giovane ».
Isabel chinò il capo, accettando il complimento. Le piaceva, quel vecchietto dall’aria gentile. Le dava l’impressione di nascondere una mente alla Churchill ed una volontà alla Rommel. In politica avrebbe spopolato.
« Il mio nome è Nicandro. Sono un umile mercante », si presentò, facendo sorridere tutti i presenti. Isabel ebbe la certezza che fosse tutto tranne che umile.
« Mercante? Mercante di cosa? », domandò.
Nicandro allargò il suo sorriso sdentato. « Oh, in molte cose, in effetti. Qui in Gallia, comunque, sono giunto per via di un giacimento di ferro purissimo ».
« Ah, capisco. Per le spade ».
« Tra le tante cose », annuì il vecchio, « Ed ora, figliola, pensi che sarebbe onorevole per te proseguire in nostra compagnia? Siamo tutti uomini, temo, ma armati solamente delle migliori intenzioni ».
Isabel rifletté per un attimo sulla questione. Cosa doveva fare? Unirsi a loro o proseguire da sola?
Scosse il capo: no, la vera domanda non era quella. Doveva essere sincera con sé stessa: la vera domanda era se voleva continuare a cercare una biblioteca o meno. Riflettendoci a mente fredda sapeva che non avrebbe potuto trovare nessuna informazione utile su come far funzionare quella dannatissima pietra, ma del resto a mente fredda avrebbe anche escluso la possibilità che un uomo potesse viaggiare nel tempo.
D’altronde, si disse poi, aveva più possibilità di sopravvivere ed arrivare in città rimanendo con loro, piuttosto che proseguendo da sola alla cieca. Doveva fare un passo alla volta: prima trovare una città, mettersi al sicuro, poi pensare a come tornare a casa. Se metteva il carro davanti ai buoi sarebbe finita in pasto ai lupi in meno di una settimana.
« Accetto molto volentieri », esclamò infine.
Nicandro sollevò le folte sopraciglia bianche. « Non temi per la tua reputazione? ».
Isabel fece spallucce. « Ho due scelte: o vengo con voi e metto a repentaglio la mia reputazione, o rimango da sola e metto a repentaglio la mia pelle. Sinceramente, viste le possibilità di scelta, la mia reputazione può anche finire al diavolo ».
« Al diavolo? », ripeté Nicandro, confuso.
« A ‘fanculo, se preferite », spiegò lei con un largo sorriso.
Il vecchio rimase per un momento interdetto, poi scoppiò in una sonora risata, imitato subito da tutti i suoi uomini.
« Ecco una ragazza di spirito! », commentò Nicandro. « Or bene, se tu non ti curi di quello che dice la gente, non vedo perché dovrei farlo io che sono così vecchio! Avanti, quindi, andiamo! », rimise un piede sullo sgabello e le fece cenno di seguirla.
« Io … », lo fermò lei, « … se per voi fa lo stesso preferisco cavalcare ». Aveva notato quanto traballassero quei carri sul sentieri accidentato e preferiva di gran lunga proseguire in groppa ad Elisium che farsi sbatacchiare come una fragola in un frullatore dentro uno di quei cosi.
Nicandro annuì. « Capisco. Ah, la gioventù! Affiancati però al mio carro, così potremo parlare ».
Isabel spinse in avanti lo stallone e raggiunse il grande carro del vecchio mercante proprio mentre il convoglio si rimetteva in marcia. Manio Umbrio riprese la sua posizione in testa e iniziò a dare ordini agli schiavi perché facessero aumentare il passo ai buoi: sembrava impaziente di raggiungere il mare.
« Dove state andando, se posso domandarlo? », esclamò, incuriosita, Isabel.
« Torniamo a casa », rispose Nicandro con un sorriso stanco, « Io vengo dalla Paflagonia, anche se ormai manco da molto tempo. Un mercante come me trascorre gran parte della sua vita in viaggio ma adesso, se gli Dei lo vorranno, potrò riposarmi e godere dei frutti di una vita di sacrifici ».
Isabel gli sorrise. « Sono sinceramente contenta per voi, dominus ».
« Chiamami Nicandro, te ne prego », le sorrise il vecchio, « E parlami di te ».
Isabel deglutì a vuoto: perfetto! E adesso che cosa diamine gli raccontava? « Io … non c’è molto da dire, in effetti. Sono una ragazza piuttosto normale ».
« Una ragazza piuttosto normale che ha attraversato distanze smisurate solo per ritrovarsi con una manciata di cenere e non si è persa d’animo », osservò Nicandro con una sfumatura d’ammirazione nella voce.
Isabel scosse il capo. « No, affatto. Mi dipingete come non sono. Al momento tutto quello che chiedo è tornare a casa », ricacciò a fatica le lacrime in gola, « Voglio solo che tutto torni com’era ».
Nicandro le sorrise dolcemente. « Ma non si può amica mia, non si può. Il tempo scorre sempre in avanti, mai indietro, come un torrente di montagna. Ciò che è stato non può essere cambiato ».
Isabel sollevò le sopraciglia. « Oddio… io avrei qualcosa da obiettare, ma comunque… », borbottò a mezza voce, e per fortuna il vecchio non parve averla udita.
« Dominus, guardate! », esclamò in quel momento Umbrio dalla testa della colonna. Isabel seguì il suo braccio teso e notò che l’erba alla sinistra del sentiero era tutta smossa e calpestata. « Un accampamento Romano, mi ci gioco la testa. Non più tardi di ieri », spiegò Umbrio.
« Soldati di Cesare? », domandò Nicandro, facendo sussultare Isabel. Che cosa? Giulio Cesare? Oh, madonnina santissima…
« Può essere. Ma se lui è qui significa che la zona non è sicura. Sarà meglio sbrigarsi: non voglio fare da antipasto ai Galli», esclamò Umbrio, facendo un cenno agli schiavi che frustarono i buoi. Con un muggito, gli animali presero quasi a trottare.
Isabel lasciò che Elisium si adattasse alla nuova andatura, persa nei suoi pensieri. Che le venisse un colpo! Giulio Cesare! Non aveva pensato di poterlo incontrare! Il capo le girò per l’emozione. Diamine! Quanta gente avrebbe pagato oro per poter avere quell’occasione? E che diamine, persino lei – che tutto voleva tranne essere lì – non poteva non tremare da capo a piedi per l’eccitazione ed il turbamento. Giulio Cesare! Sembrava incredibile…
In effetti, rifletté Isabel, era incredibile, ma non più dell’essere catapultata nell’Antica Roma.
« Sei nervosa », osservò Nicandro.
Isabel scrollò il capo, riprendendosi. « È solo che ho tanto sentito parlare di Giulio Cesare … », rispose, vaga.
« Ti capisco. Ma non aver paura: non abbiamo nulla da temere dai Romani. Vogliono i Biturgi, non noi », le mormorò il vecchio, credendo che il suo tono allusivo nascondesse il timore di essere attaccata dai soldati di Cesare. Isabel decise di non correggerlo.
« Posso farvi una domanda, Nicandro? ».
« Ma certo », annuì il vecchio.
Isabel raccolse il coraggio e le idee. Conosceva quell’uomo da meno di mezzora, ma le sembrava un tipo sveglio ed acuto. E Dio solo sapeva quanto lei avesse bisogno di un consiglio sveglio ed acuto, in quel momento.
« Non so cosa fare. Voglio tornare a casa, ma non so come né se sia possibile. Era mia intenzione raggiungere una grande città per … be’, per trovare un modo, perché il mio cuore si rifiuta di perdere le speranze, ma la mia mente mi dice implacabile che sono soltanto sogni ».
« Perché dici così, figliola? È tanto lontana la tua patria? Più lontana della Paflagonia? ».
Isabel chinò il capo. Ci aveva pensato per tutta la mattina. In effetti, ci aveva pensato da quando si era messa in cammino. Doveva tentare di trovare il modo di tornare, ma la ragione le diceva che non esisteva. O che – quanto meno – se c’era non l’avrebbe trovato in una biblioteca. Probabilmente, si era detta, sarebbe bastato fissare nuovamente il ciondolo in una notte stellata, scivolare in quel caldo torpore e lasciarsi trasportare lontano, esattamente come la prima volta, ma non ne era certa. Ad ogni buon conto, quella sera ci avrebbe provato. Se avesse funzionato, tutto bene; se invece non fosse successo nulla… be’, a quel punto rimaneva poco da fare.
Del resto, non poteva mica presentarsi da un sedicente stregone e dirgli “ ehi, ciao! Io vengo dal ventunesimo secolo! “. Insomma, soltanto a pensarlo lei stessa si prendeva per una pazza!
« Marta Alessandra? », la richiamò Nicandro, facendola riemergere dalle sue riflessioni.
« Scusate », mormorò lei, « Sì, la mia patria è molto, molto lontana. Così lontana che se ve ne parlassi non mi credereste mai ».
Nicandro annuì. « Capisco. Be’, io posso darti uomini e provviste, se è questo che vuoi ».
Isabel scosse il capo. « No, non è questo. Il punto è che non credo di poter più tornare ».
« Non ricordi la strada? ».
« In tutta sincerità, amico mio, non so nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui! », esclamò lei, sbottando in una risatina triste e nervosa.
Nicandro si passò una mano sulla folta barba. « In questo caso, figliola, non so che dirti. Potresti tentare, ma temo che finiresti per perderti ».
« Potrei provare a cercare qualcuno che conosce la strada… ma non so dove cercare. In effetti, la logica mi dice che un uomo simile non esiste ».
« Non puoi dirlo con certezza ».
« Fidatevi, Nicandro, posso », lo contraddisse lei con forza.
« Dunque non puoi tornare indietro », concluse il vecchio, con una semplicità che fu per Isabel come una stilettata al cuore. « Vuoi tentare ugualmente? ».
Isabel sentì una lacrima rigarle il volto. « Voglio, sì. Io … io devo tornare a casa. Altrimenti sento che ammattirei ».
« Allora prova così: tenta per tre volte. Se alla terza fallirai, rinuncia. Quando gli Dèi si oppongono al nostro ritorno, è inutile sfidarli. Si finisce solo col farsi del male ».
« Siete molto fatalista », osservò, cupa, Isabel.
« Sono un vecchio! », si limitò a ribattere lui.
La ragazza annuì. Forse Nicandro aveva ragione: doveva provare, ma se avesse fallito … be’, a quel punto avrebbe dovuto mettere il cuore in pace. Rifletté sulla questione: quella sera stessa avrebbe provato a fissare di nuovo la pietra. In caso di fallimento avrebbe chiesto a Nicandro di indicarle la più ricca biblioteca esistente e vi si sarebbe recata, spulciandone i libri alla ricerca di qualche notizia utile. Se non avesse trovato nulla, avrebbe aspettato un anno, in modo da riprovare a fissare la pietra esattamente nella stessa  notte dell’andata. Chissà, forse era solo una questione di posizione degli astri e roba simile.
« E se anche così non funziona … », mormorò piano Isabel. Be’, in quel caso si sarebbe arresa. Avrebbe pianto le dovute lacrime, avrebbe abbandonato il suo nome di battesimo e sarebbe davvero diventata Marta Alessandra. Del resto, si disse, poteva fare diversamente?
   
 
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