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Autore: drisinil    21/07/2022    3 recensioni
Questa è una raccolta di oneshot dedicate alle ship UshiOi/IwaOi che seguono il mio personale headcanon. L'ordine delle storie non è cronologico, sono tutte indipendenti e autoconclusive, ma anche legate fra loro, come i tre protagonisti. Il finale per me è uno solo, ma è molto più interessante il percorso per arrivarci.
***
Il primo capitolo di questa storia è stato scritto in forma di one shot epistolare per il Concorso San Valentino 2022 WattpadFanficionIT.
Il secondo capitolo è in qualche modo un seguito e nasce come omaggio per il compleanno di Oikawa 2022.
Il terzo capitolo nasce con la challenge "comeasyouarenot2023" del gruppo fb "Non solo Sherlock"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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La calura intrappolata nel cemento di Tokyo aspetta il buio per levarsi a tradimento dalle strade e dai palazzi e ghermire alla gola chiunque sia abbastanza incauto da affrontare la notte.
«Ciao. Cosa posso portarvi?»
La cameriera è giovane e carina e prima che la serata finisca lo avranno notato in molti, ma, purtroppo per lei, non i due ragazzoni atletici seduti al tavolo tre. 
«Caffè americano» risponde quello grosso.
«Caffè americano? Non si brinda a caffè americano» obietta l’altro.
Wakatoshi alza le spalle. «Acqua tonica?»
«Prendiamo due Long Island.»
«E’ alcolico?» La ragazza ridacchia mentre scrive e gli strizza l’occhio. 
«Noccioline? Patatine? Qualcos’altro dal menù?»
«No!» rifiuta scandalizzato Wakatoshi.
«Noccioline e patatine, grazie» dice contemporaneamente Hajime.
La cameriera ha già capito a chi dei due dar retta; segna ancora qualcosa e poi si allontana, senza nemmeno prendersi il disturbo di ancheggiare: non servirebbe a niente. Peccato.

Wakatoshi tira fuori il cellulare e inizia a digitare qualcosa. «Cosa hai ordinato? Long Island? Guarda qui: rum, gin, tequila, triple sec. Che diavolo è triple sec? Davvero, non capisco perché dobbiamo riempirci di schifezze. Lo sai che se supero le tremilaseicento calorie… » 
«Taci Waka. Stasera non contiamo le calorie.»
Wakatoshi solleva gli occhi di scatto. Iwaizumi non lo ha mai chiamato per nome prima, figurarsi con un diminutivo. 
«Stasera non contiamo le calorie» riprende Hajime. «Stasera ci ingozziamo di roba fritta e ci chiamiamo per nome. E ci sbronziamo di brutto.»
«Non so se mi va di sbronzarmi. Domani ho la sveglia alle cinque. Anche tu. Comunque, com’è che ti chiami?» Wakatoshi non se lo ricorda. Non si ricorda mai nulla che non abbia un’utilità pratica.

Ti ho mai detto che mi piacciono i pettirossi? 

Nulla che non abbia un’utilità pratica o che non gli sia rimasto aggrappato al cuore.

«Hajime. Mi chiamo Hajime.»
Certo. Hajime. E’ scritto anche sulla targhetta dell’ufficio, sull’opuscolo informativo, sul sito web della federazione. Wakatoshi sta pensando ai pettirossi: chissà dove vanno a finire a luglio, i pettirossi.
Un piccolo robot di servizio si ferma al loro tavolo. Prendono dal vassoio due bicchieri larghi che traboccano cubetti di ghiaccio e liquido scuro. Le cannucce sono gialle, come la fetta di limone sul bordo. Anche le ciotole di stuzzichini sono gialle.
«Iwa…. Hajime-san, sul serio, mi sentirei meglio se le contassimo le calorie.»
Iwaizumi non risponde. Agita il liquido con la cannuccia, poi la toglie dal bicchiere e beve un lungo sorso. Si pulisce le labbra con il dorso della mano.
«Io mi sentirei meglio se Tooru non fosse mai nato. O se potessi scoparmelo tutti i giorni. O se potessi picchiarlo.»
«Non te lo permetterei.»
Hajime solleva un lato delle labbra. «Di scoparlo o di picchiarlo?»
La risposta richiede un po’ di tempo. Wakatoshi, del resto, è fatto così. Mai domandargli qualcosa se non si hanno le spalle (e le palle) per una verità senza filtri.
«Di picchiarlo.»
«Quindi ti va bene che scopiamo?»
Waka ci pensa. I suoi occhi restano fissi sui riflessi del ghiaccio, su due goccioline di condensa che scendono pigre lungo il bicchiere. Le asciuga con il tovagliolo prima che sfiorino il piano del tavolo.
Iwaizumi lo scruta. Sembra che nessuna emozione gli arrivi nello sguardo. L’esatto opposto degli occhi di Tooru, che vivono di vita propria, parlano interi discorsi, gridano promesse, sussurrano allusioni. Ushijima sembra un automa. Sembra.
«Non posso decidere io con chi Tooru vuole scopare.»
«Già.»

«Non puoi deciderlo nemmeno tu.»
Colpito e affondato.
Sembra anche che il discorso debba morire lì. Bevono qualche sorso molto amaro, si guardano intorno, pensano pensieri simili senza condividerli.
«Sai? Non mi piace la parola scopare» dice Ushijima, così, dal nulla, mentre nel locale suona una stupida canzone d’amore.
«Neanche a me. Ma come lo chiami quando uno prende l’aereo, vola trenta ore e si presenta a casa tua alle tre di notte solo per farselo mettere nel culo?»
«Mi dispiace molto» commenta Wakatoshi, corrucciato. E se uno lo conosce, sa che è una cosa che dice solo quando gli dispiace veramente.
La compassione di Ushijima è un oltraggio e al contempo un tributo, Hajime sta imparando a conoscerlo. «Ti dispiace per me? Addirittura? Beh, grazie.»
«Per te?» Waka allarga gli occhi, con tutta la sorpresa di chi si scopre frainteso. Gli succede piuttosto spesso, a dire il vero. E la cosa lo perplime ogni volta, perché è certo di esprimersi molto chiaramente. «A te vorrei spaccare la faccia. Ma è un pessimo impulso: non sarebbe giusto dal punto di vista morale e neppure da quello professionale, visto che lavoriamo insieme. E sei anche piuttosto bravo. Ma è per Tooru che mi dispiace: se fa così, significa che è infelice.»
A Iwaizumi scappa una smorfia che somiglia un po’ a un sorriso. E’ difficile confezionare una risposta. «Sono bravo?»
«Come preparatore atletico? Sì. Ma dovresti saperlo. Non è che la federazione assuma gente a caso.»
«Hanno assunto Kuroo Tetsurou.»
Wakatoshi valuta l’obiezione con un sospiro. «Sono umani, qualche errore lo fanno anche loro.»
Hajime ride. L’ironia di Wakatoshi è involontaria, ma a suo modo acuta. «Anche tu sei bravo.»
Sta dicendo bravo, come a un bambino, a Ushijima Wakatoshi: il capitano della nazionale, il cannone del giappone, il giocatore più forte, più solido, più affidabile, più determinato del paese. Forse del continente. Forse del mondo.
«Grazie. Lo so. E’ il mio lavoro.»
«Il tuo lavoro è spaccare culi.»
Wakatoshi scuote il capo. «Il mio lavoro è starti ad ascoltare. Te, il nutrizionista, il fisioterapista, il medico sportivo, i manager, il direttore tecnico, i tattici, tutti quanti. Vincere è una conseguenza, e nemmeno ci puoi sempre contare. Il mio lavoro è fare del mio meglio. Ecco perché tutte queste schifezze stasera non dovrei mangiarle.»
«Se bevi e basta senza mangiare niente, finirai per crollare.»
«Non è quello lo scopo?»
«Allora lo sai perché siamo qui.»
«So che giorno è. Non sono stupido, Hajime. Anche se lo pensano in parecchi.»
Una volta anche Iwa lo pensava. Ma ora non più. 
«Ti manca?» chiede Hajme a bruciapelo. E’ una delle domande che ha sempre voluto fargli.
Waktoshi tira un respiro profondo. Beve. Mastica una nocciolina. «No.»
«Davvero?»
La domanda è retorica, Ushijima non sa mentire.
«All’inizio pensavo mi mancasse. Poi ho capito che non fa nessuna differenza dove sta. Penso che neanche se morisse farebbe differenza. Sarei addolorato, certo, ma non cambierebbe niente.»
Hajime lo fissa. E vorrebbe ucciderlo, per quelle parole. Per il fatto che sono vere. 
«A te manca?» continua Wakatoshi.
Hajime ha una mano intorno al bicchiere e un’altra stretta a pugno. Non risponde.
Wakatoshi si infila in bocca un pugnetto di arachidi. Il suo palato ritrova fra le memorie d'infanzia quel sapore sapido, la consistenza oleosa, la resistenza della superficie della nocciolina contro i denti. Le manda giù prima di parlare. «Non hai mai saputo amarlo nel modo giusto. E’ questo il problema.»

«Invece tu sì? Tu lo sai amare nel modo giusto?»
Wakatoshi fa spallucce. «Sì, credo di sì.»
«Chiudi quella cazzo di bocca» abbaia Hajime a mezza voce. Ma pensa che in fondo quello stronzo di Ushiwaka abbia ragione. Alzando gli occhi, incontra uno sguardo senza ombre e per la prima volta, gli sembra di trovarsi davanti a uno specchio. Due estranei che condividono le stesse cicatrici, i segni nascosti della stessa brutale violenza.
«Quando è tornato l’ultima volta?»
«Sei settimane fa.»
«Come stava?»
Una domanda semplice solo in apparenza.
«Elettrico.»
«Più del solito?»
Hajime ripensa agli occhi illuminati, alle mani febbrili sulla pelle, a quel sorriso che scardina il tempo e raccoglie come una coppa tutta la felicità e tutta la tristezza del mondo. «E’ dimagrito» dice.
«Quanto?»
«Non molto. Ma io lo vedo. Si sente benissimo sotto le dita.»
Wakatoshi abbassa lo sguardo e fissa il bicchiere pieno a metà. A raccogliere la provocazione neanche ci pensa. Pensa al corpo di Tooru, invece, alla sensazione tattile della sua pelle calda, alle vertebre che si sgranano sottopelle, ai muscoli tesi, al cuore consumato dai suoi sospiri e dai suoi gemiti.
«Ha pianto?»
«Un po’.»
Se c’è una cosa di cui entrambi si sentono in colpa è il fatto di amare le lacrime di Tooru. Non la sofferenza che le provoca, ma le lacrime in sé, la fragilità che evocano, le esitazioni e le debolezze che hanno dentro. Asciugarle, baciarle, sentirle sulla lingua.
Amano anche il suo sorriso, è ovvio, ma i sorrisi di Tooru sono diversi, complicati, ipnotici, ingannatori. In qualche modo e in qualche misura, prima o dopo, feriscono sempre. Le lacrime mai.
Per un bel po’ non parlano. Wakatoshi ha perso la misura di quanto sta mangiando e bevendo. Lo sta facendo apposta, per avere un buon motivo a cui attribuire l’insonnia e il bruciore di stomaco con cui avrà a che fare stanotte.
«Wakatoshi?» 
«Sì?» 
«Dimmi perché lo ami. Perché lui. Perché.»  Hajime forse non vuole davvero saperlo. Ma non ne può più di tenersi dentro questo tarlo, dopo tutti quegli anni.
Non è il tipo di domanda che richiederebbe una sfida di sguardi. Eppure è quello che succede. Si fissano dritto negli occhi per un tempo molto lungo. Le dita di Hajime grattano il tavolo, quelle di Wakatoshi scivolano lungo il vetro freddo. 
«Non lo so» risponde Waka onestamente. «Mi ha toccato nel profondo. E’ stato l’unico a farlo e non so neanche perché» confessa, con una magnifica tenerezza e una possessività sproporzionata al senso della frase. Hajime distoglie gli occhi, perché fa troppo male.
«Sai una cosa che ho sempre voluto fare con lui?» riprende Wakatoshi, pulendosi le mani unte sul tovagliolo.
Hajime appoggia il bicchiere senza garbo. «Stupiscimi.»
«Correre.»
Le spalle di Hajime si abbassano, le sopracciglia si aggrottano. E’ bravo Ushiwaka a stupire la gente.
«Vorrei correre con lui al mattino. Penso che le persone mostrino sempre molto di se stesse quando corrono. E penso che il ritmo della corsa sia una cosa profonda da condividere. Hai corso spesso con lui?»
Hajime annuisce. 
Molto spesso. Quasi ogni giorno, per quasi sei anni. Delle mille cose che hanno fatto insieme, sembrerebbe la meno significativa.
All’improvviso, Hajime si trova proiettato in quelle corse all’alba, prima di scuola. Tooru che cerca sempre di starti mezzo passo avanti. Tooru che corre all’indietro, facendoti le linguacce e rischia di farsi investire se non lo tieni d’occhio. Tooru che rallenta e sorride anche ai muri. Tooru che mentre sorride si preoccupa del ritmo cardiaco, delle pendenze, dell’uniformità del passo. E poi inizia a sprecare fiato parlando a vanvera di qualsiasi argomento. Tooru che allarga gli occhi di fronte a una vetrina. Tooru che si sfonda di allenamenti e proteine, conta le calorie, si massacra di addominali, finché gli viene la botta di tristezza e allora ti costringe a ordinare una coppa enorme di gelato e la mangia tutta lui. E dopo vuole correre. E anche vomitare, ma non ci riesce. E una volta, gli hai pure messo le dita in gola. Ed è stato meno schifoso di quanto ti piaccia ammettere.
La somma di quei momenti che si riversano tutti insieme nel cuore di Hajime ha il valore e il peso di una lacrima all’angolo dell’occhio.
«Lo sapevo» sospira Wakatoshi. E non si cura di nascondere l’amarezza.
Ripiombano nel silenzio. Accarezzano ricordi.
Intorno c’è meno gente, la musica è cambiata, la cameriera carina - Hajime si accorge all’improvviso che è carina - sembra stanca.ù
«Si è fatto tardi. Domani sempre sveglia alle cinque. Dovremmo brindare adesso» dice Hajime. Il suo bicchiere è quasi vuoto.
«Che ore saranno a Buenos Aires?»
«Quasi mezzogiorno.»
L’immagine di Tooru che si allena nella luce spiovente di una palestra metropolitana li abbaglia entrambi. Il fotogramma successivo è un momento privato, se avessero il coraggio di parlarne - e un giorno lo avranno - scoprirebbero che è un momento molto diverso, e anche molto simile. 
Hajime alza il bicchiere verso Wakatoshi, che lo colpisce con un po’ troppa energia, il rumore è cristallino, ma qualche goccia schizza via.
E’ un brindisi muto, che prevede di ingollare d’un fiato tutto il contenuto del bicchiere.
Lo fanno e poi restano lì a guardarsi, aspettando ciascuno che sia l’altro a fare qualcosa. Ma a parte prenotare un biglietto per l’Argentina, o prendersi a calci, c’è ben poco da fare.
Le lancette scattano lentamente, finché si trovano una sull’altra, strette in un coito temporale che serve a cancellare un giorno e farne nascere uno nuovo nel giro di un secondo.

E’ il 21 luglio. Un qualunque sabato d’estate, giusto in mezzo alle tre settimane di ritiro annuale della nazionale di pallavolo.
«Come va la spalla?» domanda Iwaizumi.
Ushijima la ruota senza sforzo. «Molto meglio.»
«Vacci piano per un altro paio di giorni.»
Wakatoshi annuisce, poi solleva la mano per chiamare la cameriera. «Una bottiglia d’acqua grande e due bicchieri, per favore.»
«Naturale. A temperatura ambiente. Niente ghiaccio» aggiunge Iwaizumi. «La roba gelata ti fa male Ushijima-san. Non me ne frega niente se fa caldo.»
E’ vero, fa caldo. Un caldo tremendo, umido e stremante. 
Ma l’afa è sparita all’improvviso. Il mondo si è incrinato e dalle fessure è sfiatata via la pressione in eccesso e si è perduta nella notte, nel sale delle noccioline, nelle decine di migliaia di chilometri delle rotte transoceaniche.
Fa caldo, ma adesso si respira.

 

***

NdA -  Buon compleanno Tooru! Anche io, come loro, ti odio e ti amo. Fai questo effetto, purtroppo.

 
   
 
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