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Autore: Sweet Pink    06/08/2022    5 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

CIÒ CHE IL CUORE DESIDERA





Un uomo scorretto. Ricordava di averglielo detto.

Il tocco leggero di una mano piccola e tremante scivolò sopra una pelle non più accaldata, ma ancora segnata da due fameliche labbra insaziabili. Bugiarde.

"Oh, lo sono sempre stato...ma anche tu lo sei, Duchessina."

Al di sotto di una marea d'onde castane, le dita di Saffie Lynwood continuarono ad accarezzare distrattamente il punto dove – ancora – Arthur l'aveva voluta marchiare come sua; reclamare la proprietà su di lei attraverso un comportamento possessivo che la ragazza non sapeva spiegarsi del tutto: nei mesi della loro lunga traversata in mare, l'Ammiraglio Worthington non aveva fatto altro se non respingerla e allontanarla, reagendo spesso con orgoglio incollerito ai suoi approcci testardi.

Nascondendosi e nascondendo una paura che Saffie poteva dire di aver incominciato a intravedere fra le crepe della maschera.

In fondo, a ripensarci in quel momento, la ragazza si rese conto di essere sempre stata lei a fare i primi e tragici passi in direzione del confine oltre al quale avrebbe trovato Arthur, come non aveva esitato nel guardare di volta in volta dentro a un abisso che desiderava ardentemente comprendere. Non senza un fastidioso spasmo alla bocca dello stomaco, la Duchessina ricordò d'un tratto l'avventatezza con cui era salita sul ponte di comando in piena notte, il suo essersi presentata sovente nell'ufficio del marito e, cosa più dolorosa di tutte, il fatto che era stata lei a dare il via ad ogni loro abbraccio, a trattenere l'uomo con sé quando lui l'aveva baciata per la prima volta.

Aveva con tanta determinazione stretto le mani attorno ai fili del loro legame crudele, il giorno in cui Arthur l'aveva infine fatta sua, divorata.

Ed era stato solo in seguito che gli occhi chiari di quest'ultimo avevano preso a rivolgersi a lei colmi di una gentilezza sì cauta, ma tanto dolce da farle credere di essere in un sogno; perché Worthington aveva cominciato ad avvicinarsi per primo, richiedendo sempre più spesso la sua presenza e volendola tutta per sé.

"Pensi di poter essere felice a Kingston?"

Poi, era stata di nuovo Amandine a sconvolgere ogni cosa, a far vedere loro quanto sciocchi si fossero dimostrati nel chiudere gli occhi e gettarsi a capofitto l'uno nella disperazione dell'altra: per quanto violentemente si amassero notte dopo notte, Saffie e Arthur rimanevano gli stessi di prima; bugiardi in catene, incapaci di fare i conti sia con i loro sentimenti contrastanti, che con un passato pieno di vergogna e peccato.

Infine, si erano voltati le spalle a vicenda, di nuovo in piedi sul confine tracciato dalle loro stupide paure.

Saffie spostò i luminosi occhi castani sul panorama verdeggiante e spoglio di case eleganti, mondane. Il sentiero sterrato serpeggiava in leggera salita, facendosi strada fra cespugli di Ibisco e palme da cocco intente a sfidare il cielo azzurro; la solita brezza calda soffiò dalla costa e la ragazza si girò indietro, dove l'alta figura di Earl Murray la seguiva con le braccia incrociate dietro la schiena, tenendosi a discreta e giusta distanza.

"Siamo quasi arrivati, Saffie" si azzardò a dire l’uomo con un sorrisetto indecifrabile, forte del fatto che non vi fossero orecchie indiscrete. "Non dovrai camminare ancora per molto, te lo prometto."

Il visino della Duchessina si distese in un'espressione piena di cortese tenerezza; ed ella scosse la chioma illuminata dal sole, internamente divertita di fronte al consueto atteggiamento di gentile accortezza del luogotenente che tanto aveva amato. Erano passati cinque lunghi anni, di cui lei sapeva ben poco, ma che non avevano in fondo cambiato i modi del luogotenente nei suoi confronti.

“Per chi vi siete vestita in questa maniera?”

Arthur non si era mai avvicinato a lei in quel modo spaventoso.

Cosa, dunque, poteva essere cambiato?

Quel giorno, la povera Duchessina di Lynwood aveva già ammesso con sé stessa di essere innamorata persa dell'Ammiraglio Worthington e sarebbe stata pura crudeltà pretendere dal suo cuore di accettare che – forse – pure il freddo marito poteva provare un sentimento simile.

Non importava quanto profondamente lo desiderasse.

Così, probabilmente per non dare ascolto al suo batticuore fastidioso, Saffie commentò, noncurante: "Non mi scoccia allungare questa mia bella passeggiata, Earl; anche se tutto questo mistero comincia a incuriosirmi oltremisura!"

Un'ombra di divertimento passò sopra il volto da ragazzino di Murray che, scuotendo appena la chioma rossiccia, si portò al fianco della figura minuta della Duchessina. "Se parliamo di misteri, allora nemmeno tu mi hai accennato nulla riguardo gli anni che ci hanno tenuti separati."

Le spalle della ragazza si irrigidirono subito, segno di un turbamento che al luogotenente non sfuggì. "Non hai mai chiesto" fece lei, lo sguardo assente inchiodato sul fondo della via, da dove si incominciava a intravedere una fila di case dalle dimensioni e aspetto piuttosto modeste.

Earl si portò una mano grande alla fronte, tirandosi indietro le ciocche ribelli e tradendo un goffo imbarazzo. “Saperti sposata al Generale Implacabile e venire a conoscenza della morte di tua sorella sono stati due motivi più che sufficienti a farmi tacere, ad aspettare un tuo invito.”

“Perché?”

Il debole sussurro stanco della ragazza giunse alle orecchie di un Murray dall’espressione strana, che trasmetteva nient’altro se non amara malinconia; ma l’uomo ancora sorrideva imperturbabile, proprio come aveva sempre fatto, persino nel giorno in cui aveva chiesto Saffie di lasciarlo andare.

Le sue iridi nere scivolarono sul visino della giovane donna accanto a lui mentre, attorno a loro, un panorama del tutto diverso da Hyde Park si offriva al loro sguardo: non solo una realtà diversa, tanto esotica quanto lontana dall’Inghilterra, ma bensì una vita nuova, dove il passato poteva rappresentare solo un eco flebile, a malapena esistente.

Se solo tu potessi comprenderlo per davvero, Saffie.

“Te l’ho detto, credo: lui non è riuscito a plasmarti come credeva o desiderava” iniziò a rispondere il luogotenente, abbassando il mento sul colletto nero della sua divisa rosso fiammante e così guardandosi la punta degli stivali neri. Dopo un secondo esitante, egli riprese: “Mi hai raccontato solamente di essere stata al fianco di Amandine e ora ti ritrovo qui, forse più bella e fiera del tempo in cui ci siamo detti addio”.

La porta della gabbia dorata costruita da tuo padre è spalancata davanti ai tuoi occhi e tu continui a non volerne uscire.

Un rossore improvviso fiammeggiò sulle gote leggermente abbronzate di Saffie ed ella girò la testa di scatto, i lunghissimi capelli castani che s’agitavano sul volto sorpreso, su tenere labbra schiuse.

“Non sta a me chiederti alcuna spiegazione, né pretendere il tuo dispiacere per ciò che è accaduto cinque anni fa” aggiunse Murray in tono terribilmente serio, senza accorgersi di aver inconsciamente imboccato insieme alla Duchessina il vialetto di un giardinetto piccolo, ma curato a dovere. “Non è più un mio diritto e non deve per forza essere il peso che continua a gravare sul tuo cuore, Saffie.”

“Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Alla stessa stregua dell’uomo, anche Saffie di Lynwood poteva asserire di non aver compreso appieno di aver mosso un passo davanti all’altro e di essere giunta in quel cortile modesto, su cui si ergeva un piccolo cottage che differiva totalmente dal paesaggio giamaicano circostante. “Dove…dove mi hai portato, Earl?” chiese infine la ragazza, spalancando sul luogotenente due occhi enormi, colmi di timorosa incertezza.

“A casa mia. O, per lo meno, lo è diventata da quando ci siamo trasferiti da Port Royal.”

Continui a voler rimanere seduta sul fondo della tua bella gabbia vuota, soffrendo per qualcosa che non esiste più.

Forse quel pensiero fu comune, realizzato da Earl e Saffie nello stesso istante, ma quest’ultima poteva solo accoglierlo del tutto impreparata, ammutolita dall’ennesima realizzazione dolorosa di una giornata in cui – col senno di poi – non avrebbe mai dovuto metter piede giù dal letto. Il bruciante sentimento dentro alla sua anima riprese a torturarla con maggior forza e la Duchessina chiuse le piccole mani a pugno, accorgendosi di star tremando leggermente.

Ricordava vagamente di aver pensato di poter iniziare una nuova vita insieme a Keeran, di voler ricominciare.

Ma non smetti di punire te stessa per ciò che è stato, sempre giustificando il vero carnefice.

Infine, Earl parlò:

“Vivo qui insieme a mia moglie e a una piccola peste di due anni e mezzo” furono le parole che piombarono addosso alla ragazza attonita, accompagnate da una risata tanto leggera quanto imbarazzata; ma fu solo un secondo, visto che il viso infantile e cosparso di lentiggini del luogotenente si distese ed egli le dedicò un altro sguardo oscuro, pieno di compassione. “Sei stata il mio primo amore e la mia prima grande sofferenza, la donna che custodisco nel mio cuore con cura, il cui ricordo mai è stato corrotto. Ma, sai, si tratta pur sempre di un ricordo, Saffie.”

Oh, la ragazza poteva sentirlo eccome, l’orribile sentimento dentro di lei. Lo percepiva crescere e sussurrarle all’orecchio parole che non voleva sentire, scomodi giudizi. Verità nascoste.

“Devi lasciarmi andare” aggiunse Murray, con la solita tenera onestà. “Io con te l’ho fatto già da parecchio tempo e ho costruito una nuova vita qui, insieme a Mary Anne e senza alcun rancore. Abbandona il tuo senso di colpa per un peccato che non hai commesso, perché ora le catene di Alastair Lynwood non possono raggiungerti.”

Le udiva chiaramente quelle parole malvagie e vere, che nella sua testa sovrastavano la voce morbida dell’uomo che tanto capricciosamente aveva amato.

Ipocrita donna. Tu e Arthur Worthington siete davvero uguali; rinchiusi di vostra volontà dentro abissi che per primi non desiderate risalire.

Oltre a detestarti, hai mai fatto qualcosa per perdonare te stessa?

Un grosso groppo di dolore si incastrò nella gola della ragazza ed ella si ritrovò ad affondare di nuovo i denti nella morbida carne del labbro inferiore, quasi desiderasse porre un freno al turbamento che imperversava con violenza dentro alla sua anima. Un sentimento dalla portata colossale, un pensiero terribile e spaventoso, che da settimane continuava a torturarla senza sosta…perché Saffie sapeva ciò che il suo cuore più bramava nel profondo.

Aveva superato il limite e non poteva più tornare indietro.

No. La verità stava nel fatto che non voleva affatto farlo: era esausta di mentire a sé stessa, all’Ammiraglio Worthington e a chiunque le fosse intorno; non ne poteva più di dover combattere i fantasmi di un passato forgiato dalla crudeltà di Alastair e del signor Simeon, oscurato dal senso di colpa che l’aveva plasmata fino a farla diventare una creatura colma di rancore e sofferenza. Desiderava con ogni fibra del suo essere riuscire ad ascoltare una volta per tutte le ultime parole della sua dolce Amandine e dimenticare ciò che era stato, ricominciare dal principio.

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

Ho pensato di non meritarlo. Sono un’egoista, ora, a desiderare una cosa del genere?

“Voglio una nuova vita in cui potermi perdonare ed essere felice” ammise tra sé e sé Saffie, abbassando appena il capo castano, arrendendosi definitivamente all’inarrestabile forza che spingeva contro le porte della sua coscienza. “Così da lasciarmi alle spalle la gabbia e tendere una mano ad Arthur, perché io lo…”

Baba!”

Il versetto stridulo si levò nell’aria calda, stroncando a metà le considerazioni di una certa Duchessina e ovviamente spaventando a morte non solo quest’ultima, ma anche il serio luogotenente Murray. I due, ancora in piedi sull’ingresso del piccolo cortile, fecero un timido sobbalzo e voltarono le teste di scatto, come due lepri che drizzano le orecchie al primo accenno di pericolo.

“Ohibò! Pensavo fosse l’ora del pisolino, questa.”

“Baba” fece ancora la creaturina bionda, aprendo e chiudendo le manine più è più volte, le braccia grassocce tese verso un rassegnato Earl. “Ba-BA!”

A Saffie non sfuggì la sfumatura minacciosa con cui l’ultima sillaba era stata pronunciata. Inoltre, come non notare le due sottili e minuscole sopracciglia bionde che si erano prontamente aggrottate sopra uno sguardo di scocciato disappunto?

Basita, la ragazza fece in tempo a soffermarsi sulla minuscola sagoma che era trotterellata loro davanti, quando un paio di graziose mani bianche entrarono nel suo campo visivo e afferrarono con cautela il corpicino della suddetta creatura. Un urletto seccato sfuggì dalle labbra della bambina nell’esatto momento in cui il petto di Saffie fu trapassato da una fucilata di stupore.

“Combinaguai che non sei altro” soffiò una voce tenera e armoniosa, la stessa che avrebbe avuto una ninfa. “Non vedi che tuo padre sta parlando con la sua vecchia amica?

La donna era indubbiamente bellissima, tanto quanto lo era stata Amandine Lynwood. La sua figura dritta e sinuosa svettava alta contro lo sfondo della casa di mattoni scuri ma, notò la Duchessina, era la cascata di lunghi capelli biondi a renderla degna di vera attenzione: si trattava di morbidi boccoli dorati, che sembravano trattenere la luce di un viso gentile e raffinato, la brillantezza di due lucidi occhi azzurro mare. Un gioiello travestito da pietra grezza, questo era la giovane moglie del luogotenente.

La signora Murray prese in braccio la figlia e la sua gonna di cotone ruvido, sporca di fango, si agitò appena intorno ai suoi piedi. “Non pensavo saresti tornato a casa, oggi” fu il suo commento, prima di inchiodare le iridi curiose su una pietrificata Saffie, che la osservava a bocca poco rispettosamente aperta. “È lei, Earl?”

Come da copione, un rossore imbarazzato tinse le guance dell’uomo interpellato ed egli rispose, grattandosi lo scarmigliato capo rossiccio: “Si è trattato di un’improvvisata, tesoro mio. Sai bene che desideravo presentarti la moglie del Generale Implacabile”.

Sotto lo sguardo intenso e indecifrabile di Mary Anne, la consorte di Worthington si irrigidì leggermente e maledì l’ex fidanzato di un tempo per quella trovata a dir poco scomoda. Non poteva di certo dire di essere in rapporti idilliaci con Arthur, ma la ragazza castana ben sapeva quale sarebbe stata la sua reazione se quest’ultimo si fosse palesato davanti a lei insieme a Catherine Chamberlain, chiedendole con serafica tranquillità di prendere un tea in compagnia.

Sciocca! Ma a che diavolo stai pensando?

Eppure, un sorriso allegro si aprì sul volto della giovane di fronte a loro ed ebbe il potere di spazzare via qualsivoglia preoccupazione ansiosa. “Attendevo questo istante da quando siete arrivata!” commentò quest’ultima con entusiasmo, chinando la testa bionda in un gesto di profonda reverenza. “Avrei voluto farmi trovare in condizioni migliori, ma spero possiate godere comunque dell’ospitalità della nostra umile dimora.”

“Non inchinatevi davanti a me, ve ne prego” fece di getto Saffie, allungando debolmente una mano tremante in direzione della ragazza. “Voi non dovete farlo.”

Per ragioni ignote e tutte sue, la figlia di Earl rise di gusto e protese la manina paffuta in direzione della signora Worthington, la quale – ovvio – si sentì aggredire da un’altra ondata di amara tristezza.

Non prostrarti. Non tu…la donna responsabile della felicità di colui che io ho amato e a cui mio padre ha rovinato la vita.

Mary Anne si raddrizzò lentamente e lanciò al contempo uno sguardo sperduto al marito che, dal canto suo, si limitò a sospirare con pazienza. “Non possiamo trattenerci molto ma, malgrado gli ordini dell’Ammiraglio, penso vi sia il tempo per una buona tazza di tea” spiegò alla fine l’uomo, portandosi accanto alla signora Murray e prendendole dalle braccia la famosa piccola peste di due anni e mezzo. “Inoltre, ho voglia di stare un po’insieme alla mia Jane!”

“La vedresti sovente, se non passassi così tante ore a Rockfort, amore mio.”

Eh. Kingston è cambiata parecchio, da quando l’Implacabile ne ha preso il comando: pare nessuno possa più godere di un minuto libero, parola mia!”

Incorniciati dalla tenera e calda luce della Giamaica, i tre apparvero agli occhi stupiti di Saffie come fossero un dipinto tanto sacrale quanto spaventoso: la scena di un futuro che la figlia di Alastair non avrebbe mai creduto possibile si mostrava dinnanzi ai suoi occhi lucidi di emozione e colmi – finalmente – di sollievo.

Ho creduto lui ti avesse privato della possibilità di ricominciare e, invece, eccoti qui.

La riga di spesso inchiostro che la ragazza aveva tracciato sopra ai tragici avvenimenti di cinque anni prima sparì e, insieme a lei, sparirono pure il rimorso, la vergogna…i disgustosi sentimenti colpevoli di aver corrotto i ricordi di un amore vero. Puro e semplice, giovanile.

“Devi lasciarmi andare.”

“Allora, cosa ne pensate, signora Worthington?”

“Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Saffie di Lynwood rispose apertamente al sorriso un poco intimidito dei coniugi Murray, sciogliendosi in un’espressione di disarmante gentilezza. “Rimarrò con molto piacere, luogotenente. Sono contenta di poter conoscere le persone che costituiscono la vostra felicità” acconsentì, colma di gratitudine.


§


“Vi prego, guardatelo: a vederlo così, non direste mai si tratti di un Ufficiale dell’esercito imperiale di Sua Maestà.”

Le due donne voltarono il capo contemporaneamente, cogliendo alla perfezione il momento in cui il luogotenente Murray – beatamente sdraiato sull’erba del giardino in fiore – sollevò le braccia verso il cielo e con esse la piccola Jane che, ovviamente, scoppiò a ridere divertita. “Chi sa volare?” chiese l’uomo con la sua voce bonaria, i capelli rossi che si allungavano attorno al viso sorridente. “Chi sa volare? Ma è la mia bambina, ovviamente!”

Un’espressione piena di tenerezza si palesò sul visino ovale di Saffie ed ella riportò la sua attenzione sulla moglie dell’uomo, incrociando il suo sguardo con due occhi azzurri e allegri, di una limpida onestà molto simile a quella di Earl. “Sembrano divertirsi” commentò infine la ragazza castana, arrossendo di un timido imbarazzo che non le era famigliare. “E vostra figlia è davvero uno splendore.”

“Una splendida combinaguai, vorrete dire!”

Alla risata di Jane si aggiunse quella cristallina di Mary Anne e la Duchessina di Lynwood pensò che, nell’ultima ora, la felicità dei coniugi Murray non l’aveva messa a disagio nemmeno una volta; si era aspettata di trovare un’accoglienza diffidente dalla donna che il suo fidanzato di un tempo aveva sposato ma, fortunatamente, così non era stato. Anzi, la giovane aveva subito fatto entrare nella sua modesta casa la moglie del ricco Ammiraglio Worthington e, come nulla fosse, si era dedicata a preparare il tea, per poi servirlo nel giardino sul retro, dove ora le due se ne stavano sedute attorno a un piccolo tavolino in ferro battuto.

Saffie era grata di quell’occasione in cui poteva finalmente sedere e rilassarsi a dovere, lasciandosi indietro il confuso accaduto di qualche ora prima, quando lei e Arthur si erano trovati l’uno di fronte all’altra, di nuovo riconoscendo l’esistenza del loro legame crudele. Persa fra i cespugli curati di quel cortile, la ragazza sentiva quasi di essere entrata in un altro mondo, in cui poter frenare i pensieri e distendere l’animo: il sole iniziava la sua discesa verso l’orizzonte invisibile, ma una bella arietta tiepida si muoveva intorno a lei, facendole venir voglia di rimanere inchiodata alla sedia fino a sera inoltrata.

I Murray non erano né ricchi, né di nobili e antiche Casate, ma non vi era alcun dubbio che avessero trovato il loro Paradiso, nella nuova vita che avevano costruito in Giamaica.

Non sempre, dal seme della tragedia, viene generato un fiore d’odio.

“Mi dispiace la signora Inrving sia dovuta tornare a casa con una carrozza a nolo” disse Mary Anne, sorseggiando la sua bevanda con la stessa grazia di una nobildonna decaduta. “Ma sospetto Earl volesse stare un poco con Jane, oltre che presentarvi a noi; sapete, a volte è triste pensare di essersi lasciati alle spalle i propri cari per venire fin quaggiù, quando le probabilità di poterli rivedere sono pressoché inesistenti. Penso che pure voi possiate comprendere bene ciò di cui si sta parlando.”

“Ora sei una nobildonna sposata, Saffie; ma, te ne prego, non dimenticare di scrivermi sovente e farmi sapere di te, d’accordo? Aspetterò con ansia una tua lettera e…e anche a tuo padre farebbe piacere riceverne.”

Una tristezza combattuta e inopportuna, fastidiosa, pizzico le corde più intime dell’animo di Saffie e, al contempo, la portò a stringere le mani sul grembo nervosamente, di nascosto dallo sguardo attento della signora Murray. Le dita esili della Duchessina agguantarono il tovagliolo di stoffa che la ragazza aveva poggiato sulle gambe, quasi volessero farlo a brandelli; perché, nel profondo, era una tortura sapere di sentire la mancanza di persone per cui non era mai stata altro se non un prezioso investimento.

Io e Amandine abbiamo passato una vita nella speranza di essere amate da voi per le figlie che eravamo.

“Oh, quanto ci piacerebbe far conoscere nostra figlia al cugino di Earl e alla sua famiglia!” esalò Mary Anne, scuotendo con grande rassegnazione la voluminosa chioma bionda. Poggiò leziosamente la tazza sul piattino di ceramica e aggiunse: “Ma temo che sarà impossibile.”

La signora Worthington ringraziò il pragmatismo dell’altra giovane, cogliendo al volo l’occasione per allontanare i pensieri da Cordelia e Alastair e in questa maniera chiedere, forzando una serena noncuranza nel tono di voce: “William? Ho avuto modo di intravederlo in una sola occasione, ma…non sarebbe disposto a raggiungere suo cugino qui e stare insieme a voi? Da quel che ho potuto vedere nelle ultime settimane, questo è un luogo pieno di possibilità e di occasioni.”

Una smorfietta malinconica deturpò il visino perfetto di Mary Anne, ricordando a Saffie le espressioni frivole che Amandine usava spesso e volentieri. “Ha un figlio malato, purtroppo” le rispose infine la signora Murray, allungandosi di lato, in direzione di un ricco piatto di biscotti canditi. “Inoltre, da qualche anno ha trovato per puro miracolo lavoro stabile a Londra: un artigiano molto ricco di nome Gerald McCarty – o qualcosa del genere – ha inaugurato un’attività tessile nella capitale e gli affari sembrano promettere bene. Se tutto procedesse come si deve, William avrebbe assicurato un impiego non solo a sé stesso, ma anche ai suoi nipoti e bisnipoti.”

Saffie sbatté due o tre volte le palpebre e un piccolo versetto interessato sfuggì dalle sue labbra schiuse. I suoi grandi occhi spalancati se ne stavano difatti inchiodati su Mary Anne, perché le era sempre piaciuto imparare cose nuove su un mondo che non conosceva affatto; un mondo da cui il Ducato di Lynwood era lontano anni luce e che lei stessa da brava codarda aveva rifiutato, infine cedendo all’opprimente pressione di suo padre.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Con il senno degli accadimenti passati, Arthur aveva avuto ragione su ogni cosa.

“Cielo!” esclamò all’improvviso la ragazza bionda, apparentemente insensibile al mutismo cupo di una Saffie provata dagli eventi della giornata, quindi non troppo incline al solito chiacchiericcio. “Dovrete pensare che io sia una gran maleducata, signora Worthington! Un’ora di chiacchiere e non vi ho nemmeno chiesto come è stata la vostra traversata…è vero ciò che dicono le voci della città?” domandò quindi la signora Murray, chinandosi in avanti e sorridendole con irriverenza, come se si stessero scambiando chissà quale intimo segreto. “Avete impugnato la spada e sconfitto da sola non uno, ma ben due pirati.”

Non è vero, assassina?

Un brivido ghiacciato corse su per la spina dorsale della Duchessina ed ella sfoderò la sua migliore maschera di distante cortesia, sorridendo con falsa pacatezza. “Delle persone erano in pericolo e io ho fatto tutto il possibile per salvarle” disse, abbassando lo sguardo castano sulla sua tazzina vuota. “Pure se sono a conoscenza di non aver agito come ci si aspetterebbe da una donna.”

“Io penso abbiate dato prova di gran valore, invece; ed anche Earl è d’accordo con me.”

Saffie si trovò ad arrossire di nuovo e commentò, mossa da gratitudine: “Mi solleva saperlo. Vi ringrazio per le vostre parole, davvero.”

Un cenno noncurante della mano era stata la reazione di Mary Anne per il suo ringraziamento ma, al contempo, un’espressione pensosa si affacciò sul volto della ragazza in questione che, portandosi un dito sotto il mento appuntito, asserì: “Dovete aver impressionato persino il Generale Implacabile, contando quanto è famoso per il crudele sprezzo con cui tratta quella gente”. Ignorando totalmente il sussulto sorpreso che scosse le spalle minute dell’altra, la ragazza continuò: “Pover uomo! Non ha alcuna pietà, ma nessuno può dire di esserne veramente sconcertato o, perlomeno, non dopo aver saputo la storia del suo terribile rapimento.”

Quell’ultima parola echeggiò nella mente della Duchessina, che trattenne il fiato senza quasi rendersene conto. In un battito di cuore, un’orribile sensazione si propagò in lei e, come veleno, cominciò a bruciarle dentro, dolorosa. “Un…un rapimento, avete detto?” mormorò piano, la voce fattasi esile e piena di sconcerto.

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Mary Anne si specchiò nello stupore di Saffie e sgranò gli occhi azzurri di botto, colpita dall’atteggiamento della signora Worthington. “Non può essere” commentò, facendosi leggermente indietro con la schiena. “Nessuno vi ha mai detto niente? Vostro marito non vi ha mai raccontato niente?”

Tu non puoi comprendere.”

Sì, era proprio vero. Non aveva mai capito quanto la realtà dell’abisso fosse sempre stata davanti a lei.

“Ecco, noi…lui non parla molto con me, in verità.”

La moglie di Earl osservò con grande pietà il leggero tremore nervoso che aveva iniziato a scuotere la figura minuta della Duchessina, quasi ella fosse un passerotto zuppo d’acqua. “Dicono il Generale Implacabile sia un uomo di immenso orgoglio; chissà, forse ha temuto la vostra commiserazione, la vostra pietà” provò a dire con delicatezza Mary Anne, rimanendo comunque coerente con la schietta onestà che condivideva con il luogotenente Murray. “Pure se non sono affatto segreti, i cinque anni che lui e la madre hanno passato fra le mani degli uomini capitanati dal Grande Diavolo. Si dice che quell’efferato pirata abbia inflitto all’Ammiraglio ogni sorta di crudele tortura, mentre di sua madre non si è più saputo nulla.”

Non fu l’immagine della grande cicatrice a comparire davanti alle iridi lucide di Saffie, né la schiena coperta di candidi sfregi, ma bensì il ricordo del giorno in cui il marito febbricitante l’aveva attirata e stretta a sé con forza, impedendole di allontanarsi. Abbracciandola infine con la fragilità di un bambino terrorizzato.

“Non chiamare Benjamin. Resta, ti prego. Ancora un poco.”

Perché, perché non me ne hai parlato?

Un istante atroce, un fugace attimo d’agonia, ed ecco che la realizzazione di ciò che le era stato raccontato la colpì in pieno petto, trapassandola da parte a parte; in quel secondo di tensione sospesa, fu grande la sofferenza provata da Saffie per ciò che era accaduto ad Arthur e, soprattutto, per non essere riuscita a saperlo prima. “L’ho chiamato mostro” pensò la ragazza, i pensieri colmi di disperato senso di colpa. “Mi ha salvata così tante volte e io l’ho chiamato mostro.”

A Saffie non importò di risultare una donna inopportuna e infantile agli occhi impietositi di Mary Anne. Semplicemente non riuscì a farne a meno: il suo corpo scosso da brividi di insopportabile tormento si mosse da solo e lei premette il mento sul petto, nascondendo il viso congestionato dietro una massa di capelli ondulati, cercando di non scoppiare in patetici singhiozzi.

Quali altre prove pretendo?

Un cenno, una parola, e io ti donerò tutta me stessa, perché il mio cuore è tuo, tuo soltanto.

A diversi metri da loro, Jane ed Earl ancora ridevano insieme, immersi nell’erba alta. Non era passata che una mezz’ora, ma alla Duchessina erano sembrati cent’anni almeno, tanto quella giornata era stata lunga come una vita intera.


§


Il rumore costante e secco della pendola era dannatamente fastidioso.

Nauseante, il ticchettio regolare echeggiava nella sua testa, somigliando al suono che avrebbero prodotto delle gocce di sangue nell’infrangersi sul pavimento freddo. Pareva quasi di poterle visualizzare con il pensiero, mentre si abbattevano contro la superficie pulita e tirata a lucido, sporcandola di un liquido rosso e grumoso, osceno.

“Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Era un brutale percorso sanguinoso, penoso da vedere, che si allungava lentamente sulle assi di legno e proseguiva fin sulle mani tese di una giovane donna tremante. Sconvolta e pallida, la ragazza l’aveva guardato poi con uno sguardo smarrito, distante; negli occhi un terrore cieco che lui non poteva fare a meno di prendere come un’accusa. Un giudizio impietoso, definitivo.

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di essere soddisfatto?

Due mani grandi si strinsero subito a pugno, mentre il responsabile di quei pensieri chinò appena il ribelle capo scuro sulle missive che aveva riunito davanti a sé, per poi abbandonarle dopo una prima e superficiale lettura.

Per quanto tu voglia nasconderti tra le ombre dell’abisso, le persone che hai ucciso e coloro che hanno sofferto a causa tua sono ancora tutte dentro di te.

Un cuore oscuro batteva contro la cassa toracica, lasciando ben poco spazio all’immaginazione: di nuovo, il mostro che da una vita intera continuava a perseguitarlo si palesò nella stanza, ingombrante senso di colpa di cui non si poteva che essere disgustati. Il mostro lo osservava a fauci spalancate, arrampicato sul soffitto dell’elegante e lussuoso ufficio che lui aveva ereditato dal precedente proprietario grazie ai sanguinosi peccati di cui si era macchiato in quegli ultimi anni.

Come Earl Murray e Amandine Lynwood. Per non parlare poi di tua madre.

Saffie è solo il tuo ultimo capriccio di bambino affamato.

“No” pensò d’impulso Arthur Worthington, aggrottando le folte sopracciglia scure su due iridi limpide di un chiarore glaciale e sofferente; al contempo, fu disumano lo sforzo dell’uomo per mettere a tacere il terrore malvagio che il mostro cercava di instillare dentro di lui. “Lei è…non è come le altre volte.”

Oh?” disse la vorace creatura che abitava dentro al pozzo nero della sua coscienza, parlando con la stessa voce suadente che avrebbe avuto il dannato Grande Diavolo. “Hai già ferito il suo cuore diverse volte e lo farai ancora, perché è questa la tua natura, Arty. Ricordi cosa diceva sempre l’ammiraglio Aubrey?

Un lampo doloroso, e l’immagine di un sorriso schifato e sprezzante, cucito sopra una grassa faccia sudaticcia, si palesò davanti ai suoi occhi.

“…che sai solo fare del male? D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Qualcosa di pungente – forse gli artigli del suo fedele senso di colpa – premette sul suo petto, ostruendogli i polmoni e affaticando così il suo respiro, tanto da costringerlo a tirare violentemente indietro la sedia, che si mosse sul pavimento con uno stridio pericolosamente acuto. Insopportabile.

Le braccia tese e le dita aggrappate al bordo del tavolo, il Generale Implacabile non sembrava più l’adamantino Ufficiale che aveva trucidato le fila dei nemici dell’Impero Britannico senza battere ciglio, ma bensì un bambino impaurito, la cui battaglia con il suo personalissimo uomo nero non era destinata ad avere mai fine.

Solo che, in quella lotta infernale, Arthur non desiderava più coinvolgere Saffie di Lynwood.

Per quanto il prezzo da pagare per aver ottenuto tanto potere e denaro fosse stato lasciare il controllo a una sola parte di sé, soffocando quella che più lo rendeva vulnerabile agli occhi del mondo, Worthington non si era mai fatto troppi problemi a travolgere gli altri con quel suo carattere terribile e altrettanto volubile, freddamente inamovibile. Meglio fare del male agli altri e proteggere sé stessi, no?

Questo, finché una certa persona adorabile e testarda non aveva sconvolto la sua vita, mettendo a nudo con una facilità disarmante ogni sua debolezza e svelando una parte del vero sé, quello che tanto gelosamente custodiva dentro l’abisso. Il dannato uomo che l’aveva cresciuto era responsabile di aver creato un precipizio senza fondo, ma Arthur non avrebbe mai pensato che un giorno qualcuno avrebbe potuto scoprirne il mistero.

Rischiararne le profondità con una tiepida luce gentile, che gli faceva venir voglia di risalire. Di essere una persona diversa.

Il bisogno di possedere Saffie non era solo una febbre dovuta a una bruciante passione insoddisfatta, questo lo aveva compreso fin troppo bene: già dalla prima volta in cui si erano così disperatamente amati, l’Ammiraglio aveva preso a desiderare segretamente di poterle stare al fianco per tutta la vita; e di certo non perché erano stati obbligati da uno sterile contratto matrimoniale. Comprenderlo, nel momento in cui la ragazza gli aveva confessato di essere sua, era stata una realizzazione tra le più spaventose della sua esistenza. Perché, di certo, lui pensava di non averne alcun diritto.

Come aveva potuto essere così sciocco da credere che lei lo avrebbe perdonato per tutto il male causato?

E quando Saffie lo aveva ucciso con i suoi meravigliosi occhi pieni di lacrime, chiamandolo mostro, per l’uomo era stata forse una consolazione, un crudele sollievo, poter tornare al suo nascondiglio, alla rabbia che nutriva per tutti e per sé stesso.

Il mostro dentro alla sua coscienza corrotta sorrise, scettico. “E quale impeccabile lavoro hai svolto, finora” fece quello, agitandosi in maniera sgradevole nelle viscere di Arthur. “Avvicinarti ancora a quella donna non farà altro che renderti patetico, come un piagnucoloso bambino che pesta i piedi per avere un po’di attenzioni.”

Le belle labbra sottili di Worthington si strinsero le une contro le altre, livide come quelle di un morto. La luce aranciata delle prime ore della sera penetrò le finestre e illuminò un attraente volto di pietra, insensibile anche al panorama mozzafiato che si poteva intravedere al di là delle vetrate: una baia costituita da intrecci di vie e case dai colori vivaci, tra cui l’angusto vicolo in cui neanche due giorni prima le sue mani affamate di possesso avevano catturato il piccolo corpo di un passerotto in fuga.

Dove un limite era stato vergognosamente superato.

“Già, perché è questo ciò che in realtà è successo” si disse Arthur con stanca rassegnazione, alzando finalmente il capo castano e lasciando le sue iridi immobili vagare fin sopra il sostanzioso mucchio di lettere arrivate dall’altro capo della Giamaica. La pendola continuava il suo ticchettio incessante, ricordandogli che – rimorsi o non rimorsi – lui vestiva ancora i panni del temuto Generale Impalcabile e, in quanto tale, non poteva ovviamente permettersi di ignorare tanto a lungo le notizie fornitegli dai suoi informatori nelle ultime due settimane.

Al solo pensiero del contenuto delle missive, il respiro irregolare di Arthur si calmò subito e i battiti dolorosi del suo stesso cuore, poi, rallentarono fino a raggiungere un ritmo di quieta calma; non era nient’altro che l’ennesima maschera dietro cui aveva imparato a nascondersi in maniera eccellente, l’apparente sensazione di conforto che buttarsi a capofitto nel lavoro poteva dargli: nel profondo, l’Ammiraglio Worthington aveva deciso da diverse ore cosa sarebbe stato opportuno fare, per riuscire ad allontanare da sé il sentimento che lo riportava ossessivamente a Saffie Lynwood.

I suoi polpastrelli sfiorarono le ruvide carte spiegate di fronte a lui, soffermandosi inconsciamente sulla parola Guerra.

Non sarò mai l’uomo capace di renderla felice, ma so di non volerle fare più del male.

E di non volerne fare nemmeno a me stesso.

Arthur sollevò l’ultima lettera che la sua spia francese gli aveva frettolosamente redatto e se la portò davanti al viso esausto, tradendo al contempo una triste incertezza che non gli era famigliare. “Forse in questo modo sarai libera di ricominciare una nuova vita, piccola strega” pensò, senza volersi soffermare troppo sul peso doloroso che sembrava premere sul suo cuore a pezzi.

Man mano che il tempo passava, diventava sempre più difficile mentire a sé stessi.

Dio, mi mancherai da morire.

Il tempo di pensarlo, che la porta del suo ufficio si spalancò con rabbiosa decisione. L’ammiraglio dal canto suo non si mosse, ma i suoi occhi verdi scattarono freddamente sulla figura allampanata apparsa sulla soglia: a quanto pareva, Benjamin Rochester aveva deciso di fare irruzione nella stanza e imporgli la sua presenza senza dare avviso alcuno. Non a caso, il medico non aspettò il consenso del fratello adottivo per farsi avanti, perché guadagnò il centro della camera in due lunghi passi e gli lanciò addosso un’occhiataccia da volpe inferocita.

“Se è un colloquio con l’Implacabile che desideri, allora devi prendere appuntamento” spezzò il silenzio Arthur, nella voce un sarcasmo piuttosto glaciale. “Sono pur sempre l’uomo più impegnato della città.”

“Dimmi che non hai seriamente intenzione di farlo.”

Un breve mutismo pensoso e una leggera inarcata di sopracciglia fu tutta la soddisfazione che il signor Rochester ottenne per la sua frase sibillina. “Dovrei sapere a quale mia presunta crudeltà stai facendo riferimento, per caso?” domandò retoricamente Worthington, rilassando l’ampia schiena contro le imbottiture della sedia e incrociando le gambe con fare vago, da gatto assonnato. Il suo viso, però, venne deturpato da un ghigno piuttosto incollerito, crudele. “Sono sorpreso. Non credevo ti avrei mai visto qui, considerando quanto tempo tu e Ben passate alla Zuimaco, in compagnia della vostra nuova famiglia.”

Si parlava evidentemente della Duchessina di Lynwood e del suo seguito, ma Benjamin non seppe dire – indagando i lineamenti dell’uomo seduto di fronte a lui – a chi fosse esattamente rivolta la gelosia di Arthur. Il dottore decise di non rispondere alla provocazione che gli era stata lanciata, ma bensì avanzò in direzione della scrivania e i suoi occhi neri si ridussero a due fessure piene di sdegno, nel vedere quanto la figura possente del fratello apparisse in realtà trasandata, in disordine.

“Cristo, guardati: sei ridotto a uno straccio, Arthur. Da quanto tempo hai smesso di dormire?”

Un fremito di smarrimento attraversò le iridi chiare dell’Ammiraglio, ma esso fu prontamente seppellito sotto un abbondante strato di distante brutalità. “Direi che sono affari non più nel tuo interesse, dottore” ringhiò l’uomo, mettendo così una pietra tombale sopra all’argomento. “Perché sei venuto da me?”

Benjamin raddrizzò appena il lungo busto snello e rispose, aggiustando gli occhialetti sul naso con l’atteggiamento saccente che Worthington aveva sempre detestato: “Ho sentito che hai infine deciso di chinare la testa davanti a quello scellerato di Stephen Aubrey. Di norma, l’avrei ritenuta una cosa a dir poco ridicola, se non fosse per la persona a cui l’ho sentito dire”.

“Ah, ma certo” sillabò Arthur, aprendosi per la seconda volta in un’espressione di ironia terrificante. “Sembra che vi siate tutti guadagnati la fedeltà di un cane randagio.

“Hai visto, oppure no, che chiunque si avvicina al precipizio poi ti abbandona, Arthur?”

Non un muscolo si mosse sul volto affilato e bianco di Benjamin. “James Chapman è diventato molto amico della signorina Byrne” gli spiegò dopo poco, continuando a osservare con attenzione il volto di marmo dell’Ammiraglio Worthington. “Quel ragazzo non è mai riuscito a legare veramente con qualcuno, ma sai molto bene che morirebbe per te.”

Altri minuti di silenzio ammantarono la stanza e ai due fratelli sembrò di essere tornati ai tempi dell’infanzia, ai giorni in cui un Simeon in preda alla frustrazione decideva di rinchiuderli per ore intere dentro alla biblioteca, di modo che – volenti o nolenti – fossero obbligati a parlare e fare amicizia.

“Si reca spesso alla Zuimaco?”

“Non tanto quanto vorrebbe, in realtà.”

Uno sbuffo bizzarro sfuggì dalle labbra del Generale Implacabile, mentre quest’ultimo scuoteva la testa castana con poca convinzione. “Almeno questo faciliterà le cose” commentò poi in tono piatto. I suoi occhi verdi scivolarono lontano da quelli perplessi del fratello e si persero fuori dalla finestra, in un cielo tanto bellissimo quanto irraggiungibile. “I miei informatori confermano i sospetti di Aubrey per quanto concerne le attività ostili delle forze francesi. Non ho altra scelta se non mobilitare al più presto la maggior parte dei vascelli da guerra in mio possesso.”

Un velo di pallida tensione scese immediatamente sull’espressione indecifrabile del signor Rochester, le cui dita aggraziate si allungarono in avanti, stringendosi attorno allo schienale della poltrona che gli stava di fronte. “E… e la Corona?”

“Il Re prega perché io vada in aiuto di quell’uomo indegno del suo nome” fu la risposta sprezzante di Worthington. Una stanchezza penosa si mostrò sul volto virile e abbronzato dell’uomo; ed egli chinò appena la testa bruna di lato, trattenendo il capo con le dita, come se stesse soppesando un malinconico pensiero.

“Pensi ci sarà una guerra?”

Le iridi chiare dell’Ammiraglio inseguirono il volo libero e vivace di due giocose gabbianelle, intente a sfidare un sole rosso fuoco. “Questo non riguarderà te o Ben” soffiò infine Arthur, senza sognarsi di guardarlo in faccia. “Voi rimarrete a Kingston e così farà l’Atlantic Stinger, tenente Chapman compreso.”

Dietro la sottile montatura metallica, gli occhi color carbone di Benjamin Rochester si spalancarono di botto, al comprendere l’intrinseco significato di ciò che il Generale Implacabile gli stava comunicando. Da quando era tornato in servizio presso la Marina Britannica, il medico e suo figlio non avevano mai abbandonato il fianco dell’Ammiraglio, né James aveva accettato di imbarcarsi su altre navi che non fossero quelle dove era presente pure Arthur.

“Tu andrai, ovviamente.”

Il dottore non si era preso la briga formularla sotto forma di domanda, quella frase.

“La tua ambizione è mostruosa. Tu sei un mostro, Arthur.”

L’ombra di un freddo sorriso stiracchiò la bocca di Worthington. “Ovviamente” ripeté quest’ultimo, apparentemente insensibile al nervosismo sempre più evidente dell’uomo a poca distanza da lui. "Ho promesso di recarmi io stesso in aiuto degli uomini di Aubrey e non ho intenzione di rimangiarmi la parola data."

"Al diavolo le promesse, soprattutto quelle fatte a Stephen Aubrey!"

Dette queste colorite parole, il signor Rochester prese posto sulla poltrona e si protese in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani incrociate davanti al viso serio, mortale. "Potresti rimanere anche tu in città" asserì, cercando di ignorare la preoccupazione che, suo malgrado, aveva cominciato a metter radici nella sua anima. "Sei al comando della cittadina più florida dei Caraibi Inglesi e sei tanto ricco da poter comprare l'intero Derbyshire, se volessi. Arthur...non esiste nessun'altra grandezza da conquistare, ormai."

È il modo in cui hai proceduto per una vita intera, non è vero?

"C'è sempre qualche altra occasione che aspetta di essere afferrata a piene mani."

Worthington si voltò finalmente verso di lui e gli lanciò una profonda occhiata in tralice. "Tu mi conosci, Ben. Sai che non sono mai sodisfatto."

Questo terribile carattere che mi porta a voler possedere e possedere ancora, non può fare altro se non ferire le persone intorno a me.

Il medico chinò la testa bionda e le lunghe ciocche di capelli lisci si mossero leggere sulla sua ricca giacca di seta. "Sì, lo so bene" mormorò Benjamin, pacatamente. "Ma Amandine aveva visto qualcosa in te e in Saffie Lynwood."

Un breve sussulto sorpreso scosse Worthington e le spalline dorate della sua altolocata divisa blu rilucerono accecanti nella penombra della stanza: era in tutto e per tutto diventata una persona di grande potere, la terrorizzata creatura salvata dall’ammiraglio Simeon più di vent’anni prima; pure se al signor Rochester era sempre venuto facile scoprire il tormento annidato sotto abbondanti strati di orgoglioso sprezzo, spietato autocontrollo. Li aveva notati subito, fin dal loro primo incontro, il dolore e la rabbia che si celavano dietro gli occhi glaciali di un bambino impassibile.

"Ho letto il suo diario" confessò infine Benjamin, dopo un primo momento di incertezza. L’uomo si sfregò appena le mani delicate – da pianista mancato – e aggiunse, il tono fattosi malinconico all’improvviso: “Lo devo soprattutto alle sue parole, se oggi sono qui: malgrado ciò che è accaduto, le sei stato amico durante i mesi di malattia e, fino alla fine, lei ha conservato un ricordo pieno d’affetto nei tuoi confronti. Ha scritto che le inviavi molte lettere.”

“Forse, su di voi, mia sorella si era fatta un’idea del tutto sbagliata.”

Io… le ho voluto bene per davvero. Ma non è servito a fermare la mia sfrenata ambizione.

Il silenzio atroce che cadde fra i due parve confermare la determinazione di Arthur nel rimanere asserragliato dietro il suo miglior mutismo gelido, così da non dover proferire parola alcuna su Amandine e Saffie Lynwood, le sorelle che sentiva di aver ucciso, sebbene in modo diverso. Probabilmente l’avevano capito entrambi, ma l’uomo non desiderava rivelare apertamente a Benjamin quanto fosse stato effettivamente gretto il suo iniziale desiderio di possesso nei confronti della più giovane, soprattutto se messo a confronto con il sentimento disarmante che provava per la maggiore: l’aveva infine compresa, l’enorme differenza che intercorreva fra l’amare e il possedere qualcuno.

Perché, per la prima volta, ho desiderato essere una persona diversa, una persona che Saffie potesse amare.

“Devi dirglielo.”

Di nuovo, la voce profonda di Benjamin provocò in Arthur un brivido ghiacciato e tremendo, che gli fece irrigidire i muscoli di botto, contrarre i lineamenti di un viso stanco. Aveva colto al volo a cosa il fratello adottivo stesse facendo riferimento e, per quanto lo riguardava, la sua risposta era una sola.

“Devi essere tu stesso a dire alla signora Saffie della tua partenza” continuò Benjamin, gli occhi scuri ora inchiodati su di lui. “Prima che lo venga a sapere da qualcun altro.”

Un altro sorriso a fior di labbra, di disperato scetticismo, mutò l’espressione indifferente dell’Ammiraglio.

E per cosa, poi? Per perdere di nuovo il controllo e ferirci a vicenda?

“Lei non vuole avere niente a che fare con me, il suo malvagio e insensibile consorte” decise di ironizzare quest’ultimo, per non ascoltare la mancanza che, in realtà, era ormai una costante nella sua anima. “No, Ben. Non lo farò.”

“E pensi serva a qualcosa continuare a punirti in questa maniera? Fuggire?” lo incalzò il signor Rochester, alzando la voce vibrante di frustrazione. Il medico sporse la sua alta figura verso il Generale Implacabile e disse: “O, forse, la tua paura più grande è affrontare Saffie, perché sai che potrebbe spezzarti il cuore.”

Falla finita” sibilò Worthington, aggrottando le sopracciglia scure su due limpide iridi pericolose, brutali.

Benjamin si fece indietro, quasi accasciandosi contro lo schienale della poltrona scarlatta su cui era seduto. “Stai sbagliando ancora, Arthur. Lo so, perché Amandine non è stata la sola ad aver visto qualcosa in te e quella testarda ragazza, che ti è così simile.”

“Non è questo il motivo. Non ho alcun bisogno di scappare…Io sono tua, ormai.”

Il dolore gli si contorse forte nel cuore, provocandogli un’ondata di paura e, al contempo, di tremenda incertezza. L’immagine sorridente della piccola strega galleggiò per un attimo davanti ai suoi occhi verdi, ma fu prontamente sostituita dal ghigno crudele di Stephen Aubrey, dall’eco delle sue parole sprezzanti:

D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te. Non importa ciò che l’Ammiraglio ha fatto per ripulire il nome di tua madre dal fango, perché questo è il destino di coloro che sono stati maledetti da Dio” aveva sentenziato l’uomo, non appena un ignaro Simeon Worthington aveva fatto l’errore di lasciarli soli. “Ricordalo, marmocchio: sei solo un vergognoso figlio illegittimo.”

Assurdamente, Arthur ricordò di aver battuto forse una volta sola le ciglia, prima di essere saltato addosso al corpo gigantesco di Aubrey e avergli strappato il bastone da passeggio dalle mani. Era un bambino di undici anni appena, ma non aveva esitato un secondo a colpire l’amico di suo padre ancora e ancora, fino a incidergli sulla pelle i ricchi intarsi dell’oggetto che stringeva fra le piccole dita sporche di sangue.

Eppure, gli anni passati non avevano fatto altro che dimostrare la verità di quelle parole.


§


Al centro della piazza, un gruppetto di bambini vestiti di stracci dai colori anonimi si divertiva a rincorrere una palla scucita che, in maniera piuttosto buffa, incespicava sul terreno irregolare e sbatteva contro le strabordanti bancarelle di venditori infastiditi.

“Ehi!” chiamò un ragazzino dall’aria sveglia, allargando le braccia e pure un sorriso privo di un incisivo. “Passa qua!”

Il destinatario di quel grido divertito scosse una matassa di intricati capelli color carota, ma si preparò a calciare comunque il pallone, sfoderando un’espressione fin troppo concentrata. Dopo una breve rincorsa, il bambino calciò con forza e, un attimo dopo, ecco che un misterioso oggetto sferico sfrecciava nell’aria, per poi ricadere dritto sulla testa di un robusto donnone di mezz’età, la cui colpa era stata quella di trovarsi nei pressi del pozzo con un secchio in mano.

Tra le grida dei mercanti e le risate di scherno dei marmocchi in fuga, gli occhi ridenti di Keeran Byrne seguirono con lo sguardo la donna farsi rabbiosamente strada fra la folla; dietro di lei, un cagnolino pulcioso e magro le andava appresso, scodinzolando tutto contento.

Passata la lavandaia furibonda, il traffico della piazza si rinchiuse su sé stesso: una mescolanza di cappelli e teste dai colori più eterogenei, così come lo erano le provenienze dei cittadini della ricca Kingston. Da quando il celeberrimo Implacabile aveva preso dominio del luogo – ovvero, solo un mese – già si potevano contare i risultati della sua inflessibile gestione; primo fra tutti il maggior numero di pattuglie di soldati della Corona, che setacciavano le strade ed erano pronte a intervenire al minimo cenno di disordini. In generale, uno stato di quiete e sicurezza regnava nelle ultime settimane e in Kingston, grande colonia dove più nuclei culturali si trovavano a vivere a stretto contatto.

La dama di compagnia della signora Worthington non ci pensò troppo su e, al contrario, abbassò lo sguardo sulle sue ginocchia tornite, ritornando a dare interesse al bel diario rilegato di cui Saffie le aveva fatto dono: il quaderno se ne stava ancora aperto davanti al suo sorrisetto ebete, in attesa che lei stringesse fra le dita il pezzo di carboncino e finisse l’abbozzo cominciato dieci minuti prima; l’immagine sfumata di due allegri bambini della plebe, il suo capolavoro per sempre incompiuto.

Certo, pensò l’irlandese, la signora le aveva regalato un diario perché continuasse a esercitarsi con la scrittura ma, doveva ammettere, le stava piacendo molto immortalare su carta le bellezze che la sua nuova vita aveva da offrirle. Il suo cuore desiderava timidamente, quasi di nascosto, di poter continuare a sorprendersi di un’esistenza che lei aveva creduto proibita.

Ci hanno sempre detto che gli illegittimi sono delle maledizioni di Dio, nati per portare disgrazia e vergogna.

Il ricordo della vecchia istitutrice che gestiva l’orfanotrofio in cui era cresciuta irruppe nella sua mente con l’intenzione di sconvolgerla, ma Keeran prese un bel respiro e levò il grazioso nasino all’insù, dondolando appena le gambe incrociate sotto al suo abbondante strato di gonne. “Eppure, ho incontrato solo amore da quando Saffie mi ha presa con sé.”

Mio padre mi ha ripudiata, ma per la prima volta sento di appartenere a una vera famiglia.

Seduta in disparte sul muretto sbeccato di un vecchio portico, la signorina Byrne non era pienamente consapevole degli sguardi maliziosi e ammirati degli uomini attorno a lei. In fondo, Saffie stessa non sarebbe stata molto d’accordo nel saperla lì da sola, persa fra il marasma del quartiere al limitare della città, non propriamente conosciuto per i suoi personaggi affidabili; eppure, Keeran aveva rischiato molto nel chiederle un giorno libero per poter sgattaiolare fino a quella piazza gremita di gente.

“Perdonatemi, signora” pensò la diciassettenne, incupendosi un poco. “Ma è per voi sola che sono giunta fin qui.”

La ragazza mora non fece in tempo a pensare ad altro, perché la voce lasciva e soffice di un uomo di mezza età si fece strada tra le sue considerazioni. Keeran voltò il capo verso di lui, sorpresa, mentre il nuovo venuto le si faceva mollemente incontro, gli occhietti liquidi colmi di inquietante desiderio. “Siete coraggiosa, bambina. Farete venire delle strane idee a qualcuno, se ve ne state seduta qui tutta sola.”

Il signore le si fece talmente vicino che l’irlandese poté contargli i peli sul viso goffamente sbarbato e uno spasmo di paura le agguantò il cuore, nell’istante in cui le ginocchia nodose dell’uomo andarono a sfiorare le sue gambe irrigidite. “Potrebbe essere pericoloso, non credete?” soffiò quest’ultimo, divertendosi nel vedere il gesto nervoso con cui Keeran si era stretta al petto prosperoso il suo diario.

“E sarà ancora più pericoloso per voi, se non vi allontanerete immediatamente dalla dama di compagnia della signora Worthington.”

Quella fredda minaccia era stata pronunciata da una persona giunta alle spalle curve dell’uomo; un qualcuno, pensò di getto l’irlandese, che doveva essere – a ragion veduta – parecchio infastidito. Keeran si sporse di lato e la sua testa corvina fece capolino da dietro la figura immobile di colui che l’aveva sfortunatamente importunata; ciò che vide, le strappò un sorriso tanto ansioso quanto adorabile.

“Te-tenente Chapman!” esclamò, arrossendo leggermente, sollevata nel vedere il suo amico ma, contemporaneamente, a disagio per la rabbia con cui il ragazzo la stava fissando. “Sie-siete arrivato!” provò ad aggiungere, sorridendo un po’meno.

Per tutta risposta, James stiracchiò le labbra e un’espressione di scanzonata supponenza comparve sul suo viso giovane, facendolo assomigliare al Principe arrogante conosciuto durante la traversata in mare. “Visto che ci tenevate così tanto a vedermi” fu il suo commento vago, accompagnato da una alzata di spalle noncurante. In due calmi passi, il tenente si portò al fianco del viscido rospo che aveva osato rivolgere parola alla signorina Byrne e, approfittando del cauto timore provocato dalla sua divisa da Ufficiale, lo afferrò per un braccio senza incontrare troppe difficoltà o resistenze. “Per il vostro bene, vi consiglio di continuare a camminare e non voltarvi più indietro.”

“Ma…ma io…”

Non che Chapman avesse intenzione di ascoltarlo sul serio. Anzi, spinse l’uomo in avanti e lo guardò incespicare sui suoi passi per non cadere a terra, un’espressione di muta paura impressa sul suo viso sudaticcio. “Davvero disgustoso” commentò poi James, con il solito tono di voce strascicato e sofferente, da signorino viziato; smise di curarsi di colui che aveva con tanta gentilezza congedato e si girò pigramente verso Keeran, commentando: “Certo che la feccia si riconosce ovun…”

“Non mi stavo rivolgendo a voi. La vostra padrona vi lascia parlare senza essere interpellata?”

Davanti a due meravigliosi occhi spalancati, il senso di colpa spezzò in due la frase di James che – maledicendosi – frenò la lingua per tempo. “Chiedermi di incontrarci proprio in un posto come questo: l’avevo detto, che siete una pazza” la schernì infine, come se quelle parole migliorassero la situazione di molto. “Lo sapete cosa sarebbe potuto accadere, se non fossi arrivato io?”

“Ma sie-siete qui” sussurrò la vocina imbarazzata e ammaliante dell’irlandese. “Ero certa che sareste venuto.”

Sotto di lui, Keeran se ne stava ancora seduta a osservarlo con un’espressione davvero bizzarra stampata sul viso paffuto, le sottili sopracciglia sollevate e la bocca carnosa graziosamente aperta; un rossore violento aveva colorato le sue guance, rendendola ancora più splendida di quanto non fosse già. In un vergognoso attimo, il tenente Chapman provò l’impulso irrefrenabile di chinarsi su di lei e fare sue quelle labbra maledette che, davvero, parevano in attesa di chissà cosa.

“Ho pens-pensato fosse cosa da buo-buoni cristiani fare vista al povero signor Jackson”

Già. Il povero e defunto Douglas Jackson.

James Chapman era un diciannovenne nato in una ricchissima famiglia di Marchesi viziati e vanesi, i cui membri avevano sempre dimostrato nei suoi confronti ben poco interesse: crescere all’ombra di un padre e di tre fratelli che non provavano un briciolo di empatia nei suoi confronti, l’aveva portato a ricercarne disperatamente le attenzioni e, da affettuoso bambino insicuro, il tenente era diventato un ragazzo altezzoso, sprezzante. Una sgradita forza oscura continuava a spingerlo a comportarsi come suo padre avrebbe voluto, ma persino lui comprendeva che essere gelosi di un giovane morto e seppellito in mare non lo rendeva affatto una persona decente. O, perlomeno, il genere che Keeran avrebbe potuto apprezzare.

Così, invece di lanciare fuori dalla finestra l’etichetta e baciarla, James si fece vicino all’irlandese e si lasciò andare contro una delle grezze colonne che adornavano il portico, appoggiandosi alla dura pietra con la spalla. “Temo dovrete essere breve” le disse, incrociando le braccia al petto, sugli alamari dorati della divisa. “Non ho tutto il giorno e sono atteso dall’Ammiraglio a Rockfort.”

Come risvegliatasi da un incantesimo, la ragazza abbassò la testa di scatto e la scosse appena, sorridendo poi con grande malinconia. “È proprio a causa sua e della signora Saffie che vi ho scri-scritto qualche giorno fa, tenente.”

“Ed ecco svelato il motivo per cui non avete aspettato una mia visita alla Zuimaco” chiarì James, lasciandosi sfuggire un cenno frustrato del capo castano, libero da qualsiasi pomposa parrucca. “A questo punto, immagino la moglie del Generale abbia saputo della sua imminente partenza.”

Il ricordo del visino sorpreso e ferito della Duchessina provocò nella sua domestica uno spasmo doloroso, di afflitta preoccupazione. In quegli ultimi giorni, Saffie si era fatta assente e silenziosa, distante; non si era aperta molto con lei per quanto concerneva i suoi pensieri riguardo la pericolosa missione a cui il marito avrebbe preso parte, ma era evidente a tutta casa Zuimaco la sofferenza che doveva in realtà mangiarle il cuore.

“Dobbiamo fa-fare qualcosa” disse la diciassettenne, dopo aver preso un respiro d’incoraggiamento; e si voltò di nuovo verso il tenente Chapman che, dal canto suo, non aveva smesso di fissarla con i suoi indecifrabili occhi grigi. “Non possiamo lasciare che l’Ammiraglio Worthington parta per la battaglia senza che lui e la signora Saffie si siano pa-parlati nuovamente!”

Un brivido d’ansia scosse le spalle larghe di Keeran, alla vista dell’impassibilità con cui Chapman la stava osservando, attento e vigile come un predatore. “Avete considerato la possibilità che la moglie dell’Implacabile non desideri essere forzata ad affrontarlo?” chiese infine in tono piatto, quasi cadenzando le parole. “Potrebbe andare in collera con voi e, inoltre, state trascurando il Grande ballo indetto da Lord Chamberlain.”

“La signora Inrving dice che i ricevimenti del Lord sono famosi per essere un te-terribile caos danzante, dove è impossibile avere un briciolo di intimità” gli spiegò l’irlandese, stringendo le dita sul suo prezioso diario. “Mi prenderò le mie re-responsabilità, tenente; ma, vi pre-prego, ho bisogno del vostro aiuto!”

Ed erano due nere iridi piene di fiducia, quelle con cui la ragazza lo stava ora guardando. James osservò il morbido corpo della ragazza tremare leggermente, dalla tensione, e pensò che era cambiata veramente tanto, la bellissima domestica della Duchessina di Lynwood.

Lei è la mia prima amica e, al contempo, l’unica donna che desidero.

Nessuno gli si era mai fatto vicino nella misura in cui aveva fatto lei, soprattutto da quando aveva lasciato il Casato ed era diventato famoso nell’intera Marina Britannica per il suo particolare talento nel strappare vite altrui. Forse, in un qualche misterioso modo, l’universo gli stava dicendo che pure per uno come lui non era impossibile cambiare direzione, mutare il suo futuro da patetico ultimogenito viziato.

“Dio” si arrese infine, sorridendo appena e abbassando il capo sui suoi stivali sporchi di polvere. “L’Ammiraglio mi ucciderà, lo so.”

L’allegria comparsa sul viso bianco dell’irlandese, però, lo ripagò di ogni sua preoccupazione. “Di-dite seriamente?” gioì Keeran ad alta voce, raddrizzando il busto e sporgendosi inconsciamente verso di lui, le belle labbra rivolte all’insù. “Vi ri-ringrazio davvero!”

Il tenente Chapman non l’avrebbe mai ammesso, ma l’allegria impacciata della ragazza lo divertì immensamente, riempiendogli il cuore di un caldo sentimento a cui non era affatto abituato. Qualcosa dentro il suo animo lo portò a incrociare le mani dietro la schiena e chinarsi in avanti a sua volta, canzonando Keeran con la sua migliore aria da ragazzino impertinente. “Oh, un grazie mi sembra il minimo, visto quanto mi costringete a rischiare: chissà, un giorno potrei chiedervi di ricambiarmi il favore.”

La folla chiassosa del mercato continuava il suo andirivieni sotto un sole cocente, incurante dei due ragazzi all’ombra del porticato e di quell’unico istante cruciale, in cui entrambi si accorsero di essere in effetti a pochi centimetri l’uno dall’altra.

E James di certo si sarebbe tirato lentamente indietro, se non fosse stato per un paio di mani tanto graziose quanto ipnotiche: nel tempo di un respiro, l’irlandese si lasciò cadere il diario in grembo e levò le braccia verso l’alto, imprigionando il volto sbarbato di Chapman in una carezza dolce e languida, attirando il ragazzo nella sua direzione. Un paio di labbra premettero su una guancia bruciante di imbarazzo, trasformandosi in un bacio pieno di gentile tenerezza.

Un batticuore furioso rombò nel petto di un più che sconvolto tenente, ormai marinaio indifeso fra le grinfie di una sirena. “Io…”soffiò sulla sua pelle la voce esitante di Keeran, senza che quest’ultima abbandonasse la presa delle sue dita su di lui. “Io sono così contenta che voi non dobbiate partire, perché potrò continuare a vedervi.”

Fu una stella di impossibili emozioni a esplodere dentro al cuore del diciannovenne, i cui occhi metallici se ne rimasero inchiodati sull’intonaco crepato del muro che aveva di fronte perché, di certo, la sua mente in quell’istante non sarebbe riuscita a pensare proprio un bel niente. Oltre all’inaspettato bacio della signorina Byrne – che fino a quattro mesi prima nutriva solo paurosa diffidenza nei suoi confronti – James avrebbe potuto sconvolgersi per altro, come l’essersi pubblicamente esposti; ma nemmeno il doloroso fatto che Arthur avesse deciso di lasciarlo indietro sembrò avere ora tanta importanza per lui.

Perché Keeran non aveva più timore di lui ma, anzi, era felice di potergli stare accanto.

Il grido gioioso di un neonato irruppe nella stasi che s’era creata e i due vennero risucchiati di nuovo nella realtà di ogni giorno, dove il colorito di una certa irlandese si fece rosso fuoco in uno schiocco di dita, al pari passo con quello del ragazzo così vicino a lei.

Ehm no, ec-ecco…” iniziò a balbettare sottovoce la diciassettenne, abbassando due imbarazzate iridi nere sulla labbra di Chapman, tanto vicine al suo volto in fiamme da poterne sentire il fiato leggermente caldo. Le sue mani pallide scivolarono subito via dal tenente, sfiorandone la mascella, evanescenti come il tocco di una piuma; dentro all’anima della ragazza, invece, era bruciante l’insieme di vergogna e paura provati.

Illegittima, a nessuno importa della tua felicità.

Keeran non desiderava ascoltare l’orribile voce del passato proprio in quel momento e, per fortuna, venne James a distrarre la sua attenzione: con uno scatto piuttosto rigido, da bambola rotta, il tenente si raddrizzò in un secondo, schiarendosi sonoramente la voce e facendole mostra di un volto sì da principino viziato, ma scarlatto oltre ogni immaginazione. “Co-come dicevo, devo andare” asserì piuttosto confusamente, forse cercando di congedarsi da una signorina Byrne che – con il suo sguardo da angelo perduto – iniziava a dargli letteralmente il tormento. “Posso…posso chiamarvi una carrozza?”

Dopo un piccolo sussulto sorpreso, la domestica di Saffie abbassò la testa sulle rilegatura del suo diario e si nascose dietro i lucidi ricci corvini, celando al tenente un’espressione che quest’ultimo desiderò ardentemente vedere; al contempo, Keeran scosse la testa una volta, facendo segno di no e tornando a un mutismo uscito direttamente dalla notte stellata in cui James le aveva salvato la vita.

“Davvero, ne sarei onorato.”

Di nuovo, una zazzera di capelli si mosse a indicare una sommessa risposta negativa. Pareva essere intenzionata a non degnarlo più di un altro sguardo, la timidissima servetta della signora Worthington, ma Chapman non avrebbe potuto immaginare quanto in verità lei fosse impegnata a darsi della perfetta stupida.

Doveva essere un ben strano miracolo, che James ancora non le ridesse in faccia, beffandosi del comportamento di una donna così inferiore a lui.

“Ho rovinato tutto” considerò Keeran, nel medesimo secondo in cui il tenente preferito di Arthur allungò pigramente la mano destra verso il suo morbido viso: il ragazzo le sfiorò il mento con la punta dell’indice e lo sollevò appena, con una dolce lentezza che fece venire i brividi alla sua anima di orfana spaurita.

Obbligata a guardarlo, la signorina Byrne incontrò la limpida inquietudine di due iridi grigie, seppure belle come poche cose al mondo. “Non fare così” le sussurrò James a bassa voce, abbandonando per strada il formale voi di circostanza. “Mi hai colto alla sprovvista, Keeran. Ho promesso di esserti amico, ma le tue parole mi fanno venire voglia di avere più di questo.”

Ed è un desiderio che il mio capriccioso cuore cela a sé stesso da troppo tempo.

Keeran riuscì solo a sgranare i bei occhi neri sul volto spruzzato di lentiggini di Chapman, perché una musica diversa le cominciò a suonare dentro, toccando corde che la ragazza non si sarebbe mai aspettata. In un battito di lunghe ciglia nere, in un attimo di terrificante sorpresa, comprese quanto l’idea di essere qualcos’altro per quel ragazzo dall’anima sola l’avrebbe resa felice come non mai.

Senza rendersene conto, aveva ingenuamente lasciato che il Principe arrogante facesse breccia dentro di lei.


§


Erano passate due settimane, dall'ultima volta che Saffie l'aveva visto. Quindici lunghi giorni in cui si era tormentata come avrebbe fatto un'adolescente in preda al mal d'amore, senza avere il coraggio di affrontare a viso aperto Arthur Worthington; proprio lei, che non si era mai fatta troppi problemi nell'immischiarsi con grande testardaggine nella sua vita.

"E per fare cosa poi?" aveva continuato a pensare in quei lunghi giorni. "Per confessargli i miei sentimenti, quando siamo stati capaci di farci solo del male?"

"Ma è stato prima di noi. Prima di questo."

Se era vero che la paura nascosta dentro al suo animo la faceva ritornare ossessivamente ai momenti di guerra – di odiosa incomunicabilità – accaduti fra loro, non poteva al contempo negare di ricordare sempre più spesso la gentilezza di cui l'Ammiraglio poteva essere capace, il coraggio con cui l'aveva a più riprese salvata senza pensarci su due volte.

Arrossiva alla stessa stregua di una scolaretta, l'irriverente Duchessina di Lynwood, perché il suo stesso sentimento complottava contro di lei: non riusciva in alcuno modo a impedirsi di pensare quanto Arthur fosse in realtà un uomo valoroso e forte; di un magnetismo intelligente che trascendeva le sue fragilità più nascoste, sebbene pure queste ultime erano una delle ragioni per cui la ragazza si era infine arresa a ciò che il legame crudele aveva creato. Anzi, era stato proprio perché aveva toccato con mano la sofferenza del marito, visto con i suoi occhi le oscene cicatrici, che poteva dire di amarlo per l’uomo che riusciva a intravedere sul fondo dell’abisso, tra le crepe di una maschera fatta di brutale autocontrollo.

Si erano odiati e avevano combattuto disperatamente l’uno contro l’altra, solo per poi scoprirsi identici nel dolore.

Da quando Saffie era tornata da casa dei Murray, non aveva fatto altro che pensare e ripensare al racconto di Mary Anne, soffrendo sia per ciò che Worthington era stato costretto a subire da bambino, sia per il vuoto che giorno dopo giorno la dilaniava in maniera sempre più straziante. Entrambe le cose la portavano al desiderio di vedere Arthur sopra ogni altra cosa e, in qualche occasione, era capitato che se ne stesse imbambolata davanti alle finestre della sua camera per delle mezz'ore intere, sperando il marito decidesse di venire a lei un’altra volta.

“Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Il suo cuore era ben certo dei propri desideri, ma ancora Saffie non riusciva a muovere un solo passo avanti; questo perché, lo sapeva, lui l’avrebbe di certo allontanata, respinta di nuovo. No, si era detta, non era sicura di poter sopportare il sentirgli dire parole che l’avrebbero fatta pezzi; doveva solo aspettare la prossima incombenza sociale a cui avrebbero partecipato nella loro falsa veste di marito e moglie. C’era tempo.

Ma, un giorno, Teresa Inrving aveva fatto la sua scocciatissima comparsa alla Zuimaco, palesandosi nel ricco parco della signora Worthington con un’espressione di evidente frustrazione dipinta sui suoi bei lineamenti decisi. “Sono fuori di me!” aveva esclamato, varcando la soglia delle porte a vetro con l’altezzosa rabbia di un’antica regina guerriera. “Quell’uomo non ha un minimo rispetto per sé stesso e per sua moglie, lo dico io!”

Attorno al lezioso tavolo da giardino su cui era stata servita un’abbondante merenda, tre persone si erano voltate contemporaneamente, negli sguardi spalancati un’ansiosa perplessità. Keeran aveva sollevato gli occhi neri dal libro di fiabe irlandesi che stava leggendo all’attentissimo figlio del signor Rochester, mentre la mano di Saffie si era fermata a mezz’aria, ancora stretta attorno al coltellino colmo di marmellata; come consuetudine, persino i pappagalli addomesticati riunitisi attorno alla Duchessina e alla sua combriccola se la diedero in un precipitoso frullo d’ali, davanti alla furia di Teresa.

“Che accade, signora Inrving?” aveva osato chiedere dopo poco Saffie, osservando ad occhi sgranati la figura vestita d’azzurro della donna farsi loro incontro a pesanti passi di marcia.

Oh, se le aveva sentite penetrare dolorosamente dentro, le parole fatali che erano giunte in risposta.

“Pare che vostro marito salperà al più presto, mia cara” aveva sentenziato schiettamente la discendente dei Taino, portandosi le mani sui fianchi. “Guiderà le sue navi fino ai confini delle acque francesi e, se le divinità vorranno, eviteremo una guerra pagandola al prezzo di una sanguinosa battaglia. Per una volta l’Atlantic Stinger è stata esentata dalla missione ma, ci credereste, il mio amato Henry vuole partire lo stesso!”

Le ultime rabbiose parole di Teresa erano ovviamente svanite sullo sfondo di un atroce spasmo al petto, che aveva fatto perdere a Saffie la presa sul coltello stretto fra le dita tremanti. Ignorando di aver sporcato la tovaglia candida, la Duchessina aveva subito spostato lo sguardo su Keeran e l’aveva uccisa con due iridi piene di spaventata preoccupazione; eppure, non aveva affatto visto la sua domestica…non era riuscita a vedere proprio nulla.

Questo, perché un unico pensiero aveva accecato la sua mente anestetizzata:

No. Non andartene via, ti prego.

Uno sbuffo di rassegnata pazienza era infine sfuggito dalle labbra carnose della donna di colore, di fronte alla muta reazione di Saffie. “Dovreste cominciare a comportarvi alla stregua degli adulti che siete” aveva commentato, accantonando l’ira nutrita per il Capitano Inrving e socchiudendo gli occhi a mandorla, dubbiosi. “Tutta Kingston sa che vi rivolgete a malapena parola, ma i vostri veri sentimenti sono di tutt’altra natura, non è vero?”

Uno scossone turbò la quiete della carrozza e la signora Worthington fu catapultata nella realtà di una splendida notte calda e stellata, nel presente di un viaggio fatto più di ansia che di elettrizzata agitazione. Il mento appoggiato alla mano guantata, la ragazza castana spostò gli occhi assenti sul panorama oscuro che scorreva attorno a lei, ed era tanto buio che le fu impossibile cogliere sagome di sorta.

“Beh, per una volta sono grata a Lord Chamberlain: le sue feste sono un vero caos danzante ma, chissà, il ricevimento che ha indetto per celebrare la partenza del Generale Implacabile potrebbe essere una nuova occasione. Non che io e il caro Inrving saremo invitati, ovviamente.”

Già, si trovò a pensare la ragazza, il Grande Ballo.

Neanche a farlo apposta, il giorno dopo aver appreso la notizia della partenza di Arthur, un emissario dei Chamberlain era arrivato pomposamente in sala da pranzo e aveva consegnato a una Saffie insonne la bella lettera d’invito al sopracitato ricevimento. Attraverso una missiva di preziosa carta bordata d’oro, Lord Richard prometteva il ballo della stagione, uno come non se ne erano mai visti: nell’immensa villa dell’ometto, non sarebbero infatti mancati né spazi adibiti ai divertimenti, al ballo e al gioco d’azzardo. Per non parlare poi del dispendioso spettacolo di fuochi d’artificio!

Insomma, celebrare la missione dell’Implacabile e dei suoi uomini era stata più che altro una scusa per far festa, poiché Saffie era certa Worthington avrebbe letteralmente odiato ogni secondo della serata a cui era tenuto a presenziare. Come la ragazza castana ne aveva vissuto l’attesa in preda a un’ansia terribile, tenuta a malapena sotto controllo dalle frivole distrazioni quotidiane; al contrario dell’ultima volta, suo marito non si era sognato di richiedere personalmente la sua partecipazione, ma lei sapeva di doverci essere.

Ed era talmente incoerente da parte sua, voler incontrare l’uomo che tanto aveva detto di odiare.

Così il giorno era arrivato e la Duchessina si era vestita di tutto punto, aiutata dalle solerti mani di una Keeran Byrne che pareva più eccitata di lei. “Siete una visione, signora” aveva commentato con un sorriso gaio l’irlandese, facendo un passo indietro e contemplando il viso leggermente truccato della padrona, che aveva rifiutato categoricamente di farsi infarinare la faccia e i capelli di bianco. “Il Generale rimarrà abbagliato dalla vostra bellezza, ve-vedrete!” aveva anche avuto il coraggio di commentare in aggiunta, probabilmente godendosi il rossore comparso senza permesso sulle guance di Saffie.

E ora alla ragazza castana toccava affrontare il viaggio in carrozza chiedendosi se quello che aveva detto la sua dama di compagnia sarebbe stato vero: non contava quanta rabbia avessero nutrito l’uno nei confronti dell’altra, quale disperato desiderio il suo cuore nutrisse per Arthur; quella sera, il vero tormento stava nel rivederlo e sperare come una sciocca che l’uomo la trovasse bella, tanto da volersi di nuovo avvicinare a lei con la stessa violenta passione di due settimane prima.

Perché la sua anima era nel profondo egoista e capricciosa, tanto quanto lo era quella di Worthington.

L’imponente tiro a quattro entrò nel cortile illuminato di Villa Chamberlain e annunciò ai numerosi ospiti riuniti ai piedi della candida scalinata d’ingresso l’arrivo della figlia dell’importante Alastair Lynwood; infine, il mezzo si fermò a breve distanza da un elegante capannello di persone in attesa e a Saffie venne un colpo al cuore, costituito più di elettrizzata tensione che altro.

“Siete bella oltre ogni dire, signora Worthington” emerse dall’oscurità la voce di un luogotenente Murray seduto sui sedili di fronte ai suoi, e di cui Saffie aveva completamente dimenticato l’esistenza. “Sono onorato di avervi potuto fare da scorta fin oltre ai cancelli della tenuta, in questa serata per voi così importante. Cielo, sembra quasi di essere tornati ai vecchi tempi, invero?”

Due grandi occhi castani, splendenti di malinconia, risposero al sorriso impacciato che Earl le dedicò a seguito delle sue parole. “Penso sia meglio io scenda da sola” fu il commento secco della proprietaria di quelle iridi, la cui voce tremolante tradiva un quintale di agitazione repressa. “Grazie per avermi fatto compagnia durante il viaggio e per non esservi fatto scoraggiare dal mio fastidioso silenzio!”

Saffie ferì Murray con un sorriso forzato e nervoso, mentre la sua piccola mano scossa dai brividi già s’allungava verso il portello della carrozza. “Passate una bella serata” era stato il triste saluto della ragazza, pronta per darsi in pasto alla folla dell’Alta Società a cui apparteneva e che non faceva altro se non ricordarle i crudeli intrighi di suo padre.

Ma io voglio vedere Arthur sopra ogni altra cosa.

La Duchessina stava per aprire lo sportello e posare la graziosa scarpetta madreperla sul predellino, quando la stretta delle dita forti del luogotenente Murray si strinse attorno al suo braccio con decisione, ghiacciandola sul posto.

Voglio vederlo e dirgli che dal nostro legame crudele potrebbe nascere una vita in cui dimenticare l’abisso e la gabbia dorata, dove nessuno dei due sarà più solo.

“Scusami, Saffie” disse a bassa voce Earl, una volta che la ragazza ebbe voltato di scatto il suo bel visino truccato su di lui; un secondo di silenzio pesante, carico di significato, e un determinato sguardo di tenebra venne inchiodato sull’espressione sorpresa della signora Worthington. “Ho fatto un giuramento, ma non posso guardarti soffrire per l’Ammiraglio e continuare a tacere.”

Sono una donna meschina, ora, a volergli perdonare ogni suo peccato per inseguire i desideri del mio cuore?


§


“Lo giuro, perbacco! Vi chiamano Implacabile in ogni angolo dell’Impero e voi non battete ciglio, Ammiraglio Worthington” chiocciò leziosamente una donna dal viso bianco calce, le cui gote truccate di rosso acceso risaltavano su un volto dalla malizia vomitevole. “Non so se giudicarvi più scandaloso o temibile, per questa vostra serenità nell’accettare nomignoli simili.”

L’uomo a cui la nobile stava parlando – il celebre e attraente Generale Implacabile, per l’appunto – stiracchiò impercettibilmente le labbra sottili all’insù, limitandosi ad annuire con un freddo gesto della testa bruna, nascondendosi infine dietro l’elaborato bicchiere di cristallo che Benjamin gli aveva prudentemente messo fra le mani non appena avevano varcato la soglia della casa di Richard Chamberlain, ora stracolma di gente.

“Sia dannato anche lui” pensò d’impulso Worthington, ignorando lo sguardo affamato dell’attempata gentildonna che se ne stava ancora a blaterargli davanti e ingollando l’ultimo rimasuglio di liquore rimasto con una sorsata piena di esasperazione. “Odio questo posto.”

Odio tutta questa gente e la sua inconsistenza, di cui io non ho mai fatto parte per davvero.

“Oh, ecco dov’era finito l’ospite d’onore della serata!”

Sebbene il signor Rochester riuscisse a fingere meno bene di lui l’affabile cortesia richiesta dalla loro Società in occasione di simili eventi mondani, la sua voce serafica venne accolta da Arthur con un sospiro di enorme sollievo e quest’ultimo si voltò subito, pronto a cogliere al volo l’opportunità per potersi liberare sia della nobildonna, che del suo opprimente chiacchiericcio.

Ovviamente, ogni istintiva e altrettanto inusuale gratitudine per il fratello adottivo venne meno non appena i suoi occhi verdi si posarono sulla scena che gli si aprì davanti e, soprattutto, sulla persona che – titubante – camminava al fianco del maledetto Benjamin.

“Guardate chi ho incontrato nel salone d’ingresso, Arthur” canticchiò quasi il dottore, con stampata sul viso affilato e pallido la stessa espressione che avrebbe avuto una volpe soddisfatta. “Ma vostra moglie ovviamente! L’ho strappata giusto in tempo dalle grinfie di un onoratissimo Lord Chamberlain e, chiaramente, ho pensato di doverla condurre sana e salva fino a voi.”

Di fronte alla piccola figura di Saffie, elegante come non aveva mai avuto modo di vederla, il cuore di Worthington ebbe un fremito pericoloso e tremendo, tanto intenso che l’uomo non si accorse nemmeno più delle voci eccitate intorno a lui. Solo, osservò impotente la ragazza avanzare lentamente nella sua direzione e fermarsi a poca distanza, l’atteggiamento posato di una degna figlia dell’Alta Aristocrazia Inglese.

Eppure, considerò l’uomo, c’era qualcosa di differente in lei.

“Buo…buonasera” lo salutò infine la Duchessina con un sussurro imbarazzato, piegando la testa castana e concedendogli una reverenza cortese, ma nascondendosi così al suo sguardo impietrito.

“Giusto Cielo! Siete dunque voi, l’unica erede dei Lynwood?” esclamò una frivola voce che comunque rimase sullo sfondo, patetica tanto quanto la vanesia nobile donna che l’aveva pronunciata.

Saffie alzò finalmente il grazioso visino sulla figura alta e possente di Arthur che, dal canto suo, venne fulminato non solo da un batticuore a dir poco letale, ma da una consapevolezza che lo colse del tutto impreparato. Indifeso di fronte allo spaventoso sentimento di cui non poteva più negare l’esistenza.

Nei mesi trascorsi, lei non l’aveva mai guardato nel modo in cui lo stava facendo ora.

Due grandi occhi meravigliosi si persero dentro ai suoi e l’uomo vi lesse dentro la presenza di un qualcosa di nuovo, prima del tutto assente.


§


“Gli ho giurato di non farne parola ad anima viva, di dimenticare gli accadimenti di cinque anni fa, ma è solo grazie a lui se oggi sono vivo, se ho potuto costruire una famiglia e ricominciare: Saffie, è stato Worthington a fermare la mano di tuo padre e a raccomandarmi per l’esercito di Sua Maestà, pure se non so cosa abbia visto in me. Lo chiamano Implacabile, ma penso tu abbia compreso benissimo la reale natura del suo cuore.”





Angolino di Sweet Pink plus unamini-curiosità:

*Se il Capitolo ti è piaciuto, spero prenderai in considerazione di lasciarmi un voto e una tua impressione* \(°w°)/

Prima di iniziare, vorrei condividere con voi una curiosità: tempo fa, qualcuno dei miei lettori ha chiesto se il cognome di Earl fosse frutto di una casualità o Murray fosse una scelta voluta, visto che il protagonista maschile della storia che scrissi nove anni fa si chiama Adam Murray (“La Sognatrice e il Re” è un romance storico che ho pubblicato su Efp); ebbene, posso dire che nella scena in cui Mary Anne parla del cugino di Earl – rimasto in Inghilterra – questo dubbio viene finalmente chiarito. William Murray è effettivamente un antenato di Adam tanto quanto Gerald McCarty, ricco artigiano che gli ha dato lavoro, lo è di Lullaby McCarty (il nome della protagonista femminile del racconto).

Insomma, a me piace molto legare le mie storie da un filo comune e fare così intendere che accadano in uno stesso universo narrativo! (°u°)

Ora!

Buongiorno e Buon Sabato!

Da voi si muore di caldo tanto quanto succede qui dalle mie zone? (T.T)

Apro questo mio piccolo intervento ringraziandovi per la pazienza che avete nell’aspettare i miei aggiornamenti e seguire la mia storia; spero tanto che sentiate ne sia valsa la pena, perché io tengo molto al racconto e, se a volte mi prendo un po’di tempo, non è solo a causa dei miei impegni, ma anche per scrivere in una maniera per me soddisfacente. Il problema è che non sono mai soddisfatta! Uffi! (U.U)

Quindi, sapere che “Gabbie Dorate e Oscuri Abissi” emozioni e incuriosisca è per me motivo di grande forza! Dunque mille volte Grazie per essere qui a leggere questa diciassettesima parte (Diciottesima, se contiamo il prologo)! (*w*)/

Non posso negare che questo capitolo, intitolato “Ciò che il cuore desidera”, è stato per me di difficile redazione: descrivere i mutamenti non è affatto facile, vi dirò; non voglio che i miei personaggi cambino idea e atteggiamento in uno schiocco di dita, senza provare a trasmettere il percorso che li ha portati a questo punto. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare…come si suol dire!

Ho tentennato e riscritto parecchio, ma penso di aver ottenuto un risultato efficace. O, almeno, lo spero e lo desidero anche io con tutto il cuore! (T.T)

Non vedo l’ora di scrivere del Grande ballo e di scoprire il piano strategico di Keeran e James (fra l’altro, li trovo sempre più carini insieme)! Anche perché, diciamocelo, odio lasciare Saffie e Arthur troppo lontani l’uno dall’altra, pure se è la storia che ogni tanto me lo richiede!

Vi è piaciuto il capitolo? Io spero tanto di sì! (TwT)

Vi abbraccio virtualmente, ma molto forte e con tanto affetto,

Vostra Sweet Pink

  
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