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Autore: _Il colore del vento_    22/08/2022    1 recensioni
Un ritratto (a parole, in carne ed ossa) di Walburga Black, dall'infanzia alla vecchiaia, attraverso i ricordi della stessa Walburga.
Dal testo:
Comunque, ferma in quel corridoio vuoto, la tredicenne Walburga Black aveva elaborato una visione sorprendentemente cupa della società che la circondava: nella vita, aveva concluso, o ti indurivi abbastanza da resistere ai colpi della sorte e agli spietati attacchi altrui, o soccombevi, come era accaduto a sua madre. Non c’erano vie di mezzo.
L’esistenza non era che un immenso, impietoso campo di battaglia, in cui non si poteva riporre la fiducia in nessuno, perché ognuno le appariva saldamente, cocciutamente ancorato alla propria vita e al proprio benessere, interessato a preservarsi anche a scapito dei vicini.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Famiglia Black, Orion Black, Regulus Black, Sirius Black, Walburga Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto, Malandrini/I guerra magica
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Disclaimer: alcune modalità di pensiero del personaggio, alcuni concetti che esprimo attraverso di lei, sono funzionali esclusivamente alla caratterizzazione della protagonista e che io, da autrice, naturalmente non condivido. Se la mia Walburga ha una visione così pessimistica della femminilità e dell’universo femminile, di contro a una visione idealizzata della mascolinità (uomo inteso, secondo i modelli tradizionalmente inculcatici, come forte, invincibile, inevitabilmente destinato a un ruolo dominante), questo non vuol assolutamente dire che io-autrice giustifichi o condivida questa visione. In un primo momento non avrei voluto aggiungere questa nota, perché mi sembra alquanto scontato, ma – in un secondo momento – ho pensato che fosse meglio specificare, a scanso di equivoci. Volevo descrivere un personaggio complesso, contraddittorio, oltre che sfaccettato: una ragazza (e poi donna) che cresce in un ambiente retrogrado, sessista e razzista (nei confronti di tutto ciò che si distacca dall’ideale della Purezza del sangue); che – timorosa del padre e, allo stesso tempo, desiderosa di ottenerne l’affetto (laddove la madre, di costituzione fragile e indole docile, le ispira ostilità e sfiducia) – introietta, come meccanismo “di difesa”, in un habitat che la vuole sottomessa, a tal punto la mentalità paterna, da finire col non poter più dissociarsene, con l’abbracciarne totalmente la visione del mondo e della vita.
Tutti i personaggi appartengono a J.K. Rowling. Di mia rivisitazione c’è un po’ tutto il background di Walburga (l’idea, ad esempio, che finiscano col vivere a Grimmauld Place quando ha tredici anni, dopo la morte di Irma, così come il particolare rapporto che la lega alla cugina, ecc.)
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Til the light goes out

1.Dawn



 
 
                           "My mother didn't have a heart, Kreacher.
She kept herself alive out of pure spite."
 
 
 
 
 
 
Il giorno in cui sua madre morì lo ricorda benissimo.
Aveva tredici anni e il professor Silente venne a chiamarla durante una lezione di Difesa Contro le Arti Oscure.
Era un giorno di maggio e la professoressa Gaiamens stava spiegando i Berretti Rossi. La sua voce querula le giungeva a tratti, come un’onda che avanzi e si ritiri – senza sosta, ora più fragorosa, ora più attutita.
La docente, una donnina dal volto rugoso e vaporosi boccoli bianchi striati di sfumature azzurrine, continuava a procedere negli stretti corridoi tra una fila di banchi e l’altra, intenta a illustrare l’aspetto e le abitudini di quelle creature sanguinarie.
Walburga si reggeva il mento con la mano, le palpebre lievemente cascanti a coprirle gli occhi assonnati. I capelli di Lucretia, seduta al banco davanti al suo, sembravano catturare tutta la luce proveniente dalle finestre che si aprivano nella parete sulla sinistra. Piccoli bagliori d’oro le danzavano davanti agli occhi socchiusi, man mano che l’altra ragazza seguitava docile a prendere appunti.
«Immaginatevi distese di terra che si allunghino per ogni dove, dissolvendosi all’orizzonte. Figuratevi imponenti eserciti che discendano in queste pianure per fronteggiarsi e scontrarsi; immaginate le più truci e violente battaglie. I Berretti Rossi amano infestare proprio luoghi del genere, in cui il sangue sia stato versato a fiotti e abbia intriso la terra.»
A un certo punto, il suo compagno di banco l’aveva distratta, colpendole distrattamente il braccio con la punta del gomito. Le aveva lanciato subito dopo una occhiata intimorita e dispiaciuta – a cui lei rispose con una smorfia infastidita –, prima di tornare a intingere la punta del calamaio nell’apposita boccetta.
Sulla pergamena dell’altro, con i tratti ancora freschi d’inchiostro, spiccava lo schizzo di un Berretto Rosso: volto emaciato, denti aguzzi e sguardo crudele (“Rosso, anch’esso”), mani terminanti in enormi, pericolosi artigli e grossi stivali di metallo. Nella mano sinistra, la creatura stringeva la sua temibile arma, che trascinava pesantemente dietro di sé, lasciando un solco nel terreno alle sue spalle. Ricorda di aver pensato che ciò che quel disegno appena abbozzato non poteva rendere, stando almeno alle parole della Gaiamens, fosse il copricapo della creatura. Un disegno in bianco e nero non poteva, naturalmente, replicare a dovere il tessuto intriso di sangue. «Finiti a colpi di randello gli ignari viandanti che malauguratamente incrociano lungo il cammino e che, purtroppo per loro, non sono lesti nel lanciare uno “Stupeficium” ben assestato, queste creature imbevono il proprio copricapo nel sangue delle vittime – da qui il nome di “Berretti Rossi”, appunto. Si dice che il sangue sui loro berretti non possa mai seccarsi del tutto, altrimenti sarebbero loro stessi a perire. Per questo, dunque, i Berretti Rossi continuano periodicamente a mietere vittime e a usarne il sangue per rafforzarsi; senza mai fermarsi, sempre pronti a procurarsi nuovo sangue in cui intingere il proprio copricapo.»
Gli occhi di Walburga si perdevano nei capelli di grano di Lucretia, mentre la voce della professoressa si tramutava in un sussurro appena percettibile – quasi indistinto al di sotto del clangore di armi, dei passi pesanti e delle grida soffocate in gorgoglii che le riempivano le orecchie.
Proprio in quel momento, un attimo sospeso in cui la luce danzava fra i capelli di Lucretia e la voce della professoressa annegava nel rumore di battaglie immaginarie, la porta dell’aula si era aperta di scatto. Sulla soglia, serio e solenne, sostava il loro insegnante di Trasfigurazione.  I penetranti occhi azzurri di Albus Silente si erano soffermati solo un istante sulla professoressa Gaiamens, che si era voltata verso la porta con aria confusa, prima di scorrere rapidamente gli studenti in aula e fermarsi proprio su di lei. Si era distratta, fissando gli strambi occhialini a mezzaluna del professore; aveva talvolta sentito qualche compagno di Casa farsi beffe dell’uomo e delle sue stranezze, ma sempre, rigorosamente, nel chiuso della loro Sala Comune (perché nessuno sarebbe mai stato così stupido da correre il rischio di essere colti in fallo, non da Silente in persona).
«Professoressa», aveva esordito Silente, con la sua voce pacata, greve, «temo di doverle sottrarre la signorina Walburga Black. È urgente».
Walburga aveva percepito più di uno sguardo posarsi su di lei. I suoi compagni si voltavano nella sua direzione, si davano di gomito e confabulavano tra loro. Il Corvonero al suo fianco, dimentico della piuma fra le dita, la guardava fisso, incurante della macchia di inchiostro che si allargava sulla pergamena, imbrattando il disegno del Berretto Rosso. Persino Lucretia si era voltata verso di lei preoccupata.
Walburga, inespressiva, aveva radunato le proprie cose in silenzio e, mentre superava il banco della cugina, sottocchio l’aveva vista alzarsi.
«Posso venire anch’io?» aveva chiesto quest’ultima, rivolta a Silente o alla Gaiamens, o forse ad entrambi. Walburga aveva sentito impercettibilmente le spalle rilassarsi, ma non si era mossa, consapevole dello sguardo di Silente su di lei, quasi come se la stesse studiando in vista di una qualche reazione.
Sebbene l’espressione del docente non lasciasse trasparire mai troppo, Walburga seppe nel momento stesso in cui lo vide annuire («Sì, Gaia,» aveva aggiunto con un sospiro, riferendosi alla collega, «ripensandoci, sarebbe preferibile che entrambe le signorine Black venissero via con me»), che Silente aveva scorto del sollievo, in lei, alla richiesta di Lucretia. Walburga, al pensiero di essere così facilmente decifrabile, aveva abbassato gli occhi sulla punta delle scarpe per evitare di mostrargli il proprio fastidio.
Una volta fuori dall’aula, Silente, con un passo tanto svelto da costringerle quasi a correre per stargli dietro, le aveva condotte fino all’Ufficio del Preside Dippet e, proprio davanti alla porta, l’aveva guardata di nuovo, stavolta con qualcosa che assomigliava alla tristezza che crepitava sul fondo dei suoi occhi azzurri, ma si era limitato a lasciarle nelle mani del Preside.
Questi – un omuncolo pelato e ansioso – le aveva subissate di parole nervose, che le erano piovute addosso indistinguibili; Walburga era riuscita a coglierne solo stralci, come un «Mi dispiace tanto!» ripetuto più volte e qualcosa che suonava come «Faremo spedire i vostri bagagli e tutte le vostre cose a breve, di questo non dovete temere» (si era distrattamente domandata il perché, dato che le vacanze erano ancora lontane), ma poi Dippet le aveva sospinte con fare frettoloso verso il camino. «Suo padre la aspetta, signorina Black» aveva trillato, soggiungendo un altro mesto: «Sono davvero desolato!»; tutta quell’ansia ingiustificata, almeno ai suoi occhi, le aveva fatto rimpiangere gli anni ormai conclusi di presidenza di un Black che, ne era convinta (e glielo confermava il contegno misurato di Phineas Nigellus Black, seduto con eleganza nel proprio ritratto), avrebbe gestito la situazione in maniera decisamente più consona. Ricorda di aver avvertito un moto di effimero e improvviso orgoglio, davanti al ritratto del vecchio Preside, prima che quello attuale le indicasse nuovamente il camino, inducendola a concentrarsi sulla destinazione in cui era attesa.
Così, dopo aver pronunciato il nome di casa sua, si era ritrovata in un turbinio di fiamme verdi ad inciampare sul pesante tappeto del salotto, che si era subito ricoperto di polvere.
Lucretia era apparsa poco dopo, tossendo lievemente, e la vecchia elfa di famiglia, torcendosi le mani e scuotendo il capo, con le grandi orecchie da pipistrello che sbatacchiavano da un lato all’altro, le aveva pregate di seguirla di sopra. Mentre salivano le scale, Lucretia aveva fatto scivolare la propria mano, piccola e calda, in quella fredda e inerte di Walburga. Quest’ultima aveva stretto le sue dita piano, con una delicatezza a lei decisamente inusuale, e in silenzio. Con Lucretia, non doveva mai esporsi troppo – la cugina la capiva sempre.
L’elfa le aveva guidate fino alla camera padronale, poi era trotterellata verso la donna in piedi in un angolo, che reggeva fra le braccia un mucchio di coperte da cui si levava un pianto acuto, lancinante. Zia Melania, la madre di Lucretia, cullando triste il fagotto urlante, aveva rivolto loro uno sguardo arrossato di pianto, prima di spostarlo sul grande letto al baldacchino che troneggiava al centro della stanza. Walburga aveva seguito la direzione dei suoi occhi, mentre Lucretia, al suo fianco, tratteneva il respiro.
Le coperte del letto matrimoniale erano tutte ingarbugliate e intrise di sangue e, al centro, esattamente al centro, giaceva sua madre Irma. Era rimasta a fissare il corpo di sua madre con la mente completamente svuotata. Sembrava così piccola, la si sarebbe potuta credere addormentata (ma non lo era, ovviamente, lo aveva capito subito), se non fosse stato per la chiazza di sangue che le si allargava fra le gambe aperte, le labbra livide e il petto del tutto immobile.
Le appariva stranamente deforme, per via del ventre ingrossato e, poi, con le gambe piegate a formare una sorta di rombo spezzato sulle lenzuola, sembrava quasi una pallida, buffa rana riversa a pancia in su.
Soltanto quando a Lucretia era sfuggito un singhiozzo la sua mente era stata assalita da uno sciame di pensieri incoerenti. Avrebbe ricordato in seguito di aver pensato che dare alla luce un bambino fosse un processo disgustoso, rivoltante. Essere donna, lo era. Aveva continuato a fissare sua madre nauseata e, d’un tratto, le parole della Gaiamens le erano risuonate in testa come se non si fosse mai allontanata dall’aula di Difesa (in particolare, risentì quanto aveva detto circa i luoghi frequentati dai Berretti Rossi, quei «luoghi in cui il sangue sia stato versato a fiotti»).
In effetti, c’era talmente tanto sangue, in quella stanza, che la sé tredicenne non si sarebbe meravigliata di veder sbucare una di quelle avide creature da sotto il baldacchino. Anzi, per un attimo, aveva quasi sperato di vederne una.
Sarebbe stato un sollievo, meditava fra sé, se una di quelle creature si fosse palesata e si fosse portata via con sé quel fagotto urlante (il neonato fra le braccia della zia non smetteva di piangere e le grida non facevano che accrescere il suo senso di nausea, per cui avrebbe dato qualsiasi cosa pur di farlo smettere).
Era stato in quel momento, sulla soglia della camera dei suoi genitori, davanti al corpo senza vita di sua madre, che Walburga aveva capito che nascere femmina era una maledizione insuperabile.
E la vita glielo avrebbe riconfermato ancora, in seguito. Innumerevoli volte.
Una ad esempio, sempre durante l’anno terribile dei suoi tredici anni, l’estate successiva alla morte di sua madre.  Lei e suo fratello Alphard, che all’epoca aveva otto anni, se ne stavano in piedi nell’atrio vuoto, in attesa che Pollux finisse di parlare con i creditori. Alphard aveva un’espressione scocciata e continuava a battere ritmicamente il piede sulle mattonelle del pavimento, cercando di allargare con un dito il colletto troppo stretto della camicia scura (vestivano ancora a lutto, all’epoca). Cygnus dormiva tra le braccia della sorella, appagato dopo esser stato nutrito, ed era faticoso da reggere.
Lì nell’atrio, non c’era più l’orologio a pendolo di mogano a scandire le ore e i minuti – era stato venduto –, ma Walburga aveva preso a commisurare il protrarsi esasperante del tempo in base all’aumentare del peso del bambino fra le sue braccia.
Le sarebbe piaciuto avere qualcosa a disposizione, qualunque cosa, qualcosa che non fosse il battito fastidioso del piede di Alphard sulle mattonelle di marmo o l’ingombrante corpicino di Cygnus che le impegnava le braccia, ma non era rimasto nulla.
I pochi averi che erano riusciti a nascondere agli occhi avidi dei creditori erano già stati spostati dagli elfi in quella che sarebbe divenuta la loro nuova casa: si trattava di un edificio di Londra, sempre di proprietà dei Black, che, essendo appartenuto a una zia1 nubile e priva di eredi, era rimasto disabitato per anni. Walburga non avrebbe voluto trasferirsi, eppure suo padre non aveva lasciato loro alcuna alternativa.
Pollux Black, a ben vedere, faceva a meno degli orologi da molto più tempo di loro, già da prima che l’orologio a pendolo venisse riscosso come parte di un debito che aveva divorato tutti i loro beni: le sue giornate, dopo la morte della consorte, si erano trascinate tra i fumi dell’alcol e i vividi colori degli affollati tavoli da gioco. Le sue, di giornate, venivano scandite dai debiti che si accumulavano, dalla frenesia delle piccole ed effimere vittorie che si stemperava in un’afflizione cupa e rabbiosa che lo accompagnava per giorni interi, per settimane.
Walburga non incolpava suo padre per averli condotti sul lastrico, non più di quanto incolpasse sua madre, almeno.
Se Irma non fosse stata così debole, infatti, se fosse sopravvissuta alla nascita di Cygnus e si fosse presa cura della sua famiglia così come richiesto a ogni donna sposata, Pollux non si sarebbe ritrovato solo con tre figli a carico, fra cui un neonato, e non sarebbe andato fuori di testa. “Gli uomini non sono fatti per queste cose”, così le era stato sempre insegnato, perciò il declino del padre era non solo inesorabile, ma quasi giustificato.
Comunque, ferma in quel corridoio vuoto, la tredicenne Walburga Black aveva elaborato una visione sorprendentemente cupa della società che la circondava: nella vita, aveva concluso, o ti indurivi abbastanza da resistere ai colpi della sorte e agli spietati attacchi altrui, o soccombevi, come era accaduto a sua madre. Non c’erano vie di mezzo.
L’esistenza non era che un immenso, impietoso campo di battaglia, in cui non si poteva riporre la fiducia in nessuno, perché ognuno le appariva saldamente, cocciutamente ancorato alla propria vita e al proprio benessere, interessato a preservarsi anche a scapito dei vicini.
Quella era una convinzione che si era radicata in lei assistendo alle lunghe processioni di pomposi creditori che si erano susseguite a casa sua, la dimora della sua infanzia, e agli invadenti sopralluoghi che avevano sempre il sapore di un’intrusione, di una lenta, umiliante spoliazione.
Venivano, quelle “abominevoli sanguisughe” – come le aveva soprannominate Alphard –, a ficcare i loro nasi in quella che era stata una rispettabilissima dimora Purosangue e la smembravano, portandosi via ciascuno un pezzo di bottino, pronti a rivenderlo al miglior offerente o alle aste magiche (avevano sentito più volte il padre mentre, in momenti di disorientamento alcolico, biascicava improperi contro un tale signor Sinister, di Nocturn Alley, che apparentemente aveva ricavato parecchio dalla loro rovina). Lei e Alphard avevano dovuto prender parte, inermi, ai loro compiaciuti inventari e alle spartizioni; qualcuno, talvolta, li aveva addirittura avvicinati con aria compassionevole, con quell’aria saccente e boriosa da rivenditori (“Ma lo sapete, bambini, che avreste potuto ereditare veri e propri tesori? È un peccato che vostro padre non sia stato più cauto e oculato nell’amministrarli, perché alcune sono vere chicche. Questa credenza in ebano, per esempio, e il suo contenuto… per Merlino, un vero splendore! Mai visto niente di simile!”).
L’unico modo che la sua mente aveva elaborato per vendicarsi di quegli sporchi approfittatori, almeno nella sua testa, era stato rifugiarsi nella fantasia: una fantasia macabra, ma rivelatasi particolarmente utile.
 Per ogni pezzo che quegli uomini disgustosi portavano via, per ogni frammento del loro passato, delle loro ricchezze, amputato e intascato, lei fantasticava di privarli di un pezzo della loro persona di grandezza e valore congrui. Più loro sorridevano compiaciuti, paghi nel contesto di decadenza e rovina della sua famiglia, più lei si concentrava sulle immagini elaborate dal suo cervello: li vedeva strisciare, ora senza un braccio, ora senza una gamba, decapitati o con moncherini insanguinati che si tendevano in avanti, in cerca di una negata pietà, lasciandosi dietro umide scie vermiglie – quasi nell’orrida caricatura di grossi lumaconi – e ristabilendo con le loro sofferenze una parvenza di sanguinosa giustizia. Immaginava di essere uno dei Berretti Rossi delle lezioni di Difesa e di intingere con sadico piacere il proprio copricapo nel sangue di quei creditori che, pezzo dopo pezzo, sbrindellavano la sua infanzia; un’infanzia che sentiva distintamente scivolarle via sotto gli occhi, come acqua di fiume.
Dopo quelle che le parvero ore (Alphard, intanto, aveva preso a saltellare nel corridoio, in una sorta di rivisitazione del gioco della Campana), suo padre e due uomini erano comparsi in cima alla scalinata di marmo. Pollux, ricorda di aver pensato già all’epoca, non era più l’uomo forte e deciso di un tempo. Aveva la barba sfatta di qualche giorno e le mani grandi ormai gli tremavano incontrollabilmente per via dell’abuso di alcol; a giudicare dalla postura irrigidita, lui era anche fin troppo consapevole di quell’evidente segno di debolezza che cercava a fatica di controllare, ottenendo soltanto il risultato di apparire artificiosamente composto. Ebbe su di lei l’effetto di un pugno sferrato allo stomaco, lo sguardo vacuo di suo padre: giunto ai piedi della scalinata, guardava i due uomini – con gli atti di vendita firmati stretti fra le mani – allontanarsi compiaciuti e impettiti, carichi di inventari e listini dei prezzi, pieni di avidità e con l’incuranza tipica dell’egoismo soddisfatto.
Per quei due, aveva pensato Walburga stringendosi al petto il piccolo Cygnus (più per proteggere se stessa, che non il neonato), non sarebbe stato sufficiente immaginare di privarli di un arto o della testa. Non sarebbe bastato quello per colmare il vuoto scavato nello stomaco dall’ira e dalla frustrazione e ribollente di bile. No, per loro poteva immaginare solo una cosa, ossia di strappar via a entrambi il cuore a mani nude e, poi, di stringerlo forte tra le dita (come loro stringevano i propri documenti), fino a ridurlo in poltiglia.
Forse, non si sarebbe concessa di indulgere troppo in quelle lugubri fantasie se avesse saputo che, molto presto (quel giorno stesso, per essere precisi), la sua esistenza avrebbe conosciuto ben altro sangue – un sangue diverso da quello che arrossava gli angoli della sua mente e la fortificava, più simile a quello che aveva intriso le coperte di sua madre il giorno della sua morte. Davanti al nuovo sangue che avrebbe impregnato le sue giornate, non sarebbe più stato possibile rifugiarsi in fantasie di sostituzione, non ci sarebbe stato più nessun Berretto Rosso in cui identificarsi. Il nuovo sangue non sarebbe stato certo emblema di vittoria, seppur immaginaria, sui nemici della sua famiglia, quanto – piuttosto – marchio d’infamia.
 
Erano appena giunti a Grimmauld Place (quella che sarebbe stata la loro nuova casa), subito dopo essersi lasciati alle spalle la loro villa, quando accadde. Suo padre doveva essersi già trascinato fino a una delle camere del piano superiore e, probabilmente, non ne sarebbe ridisceso per molte ore.
Alphard, intanto, si era spostato accanto alla finestra del salotto. Era estate, del resto, e degli schiamazzanti ragazzini Babbani giocavano nella piazza antistante l’edificio. Suo fratello li osservava incuriosito, quasi affascinato, e lei stava prontamente per rimproverarlo; solo perché ora sarebbero stati circondati da Babbani, non era comunque concepibile che si mescolassero a quella feccia – avrebbe fatto bene a tenerlo a mente, Alphard. I creditori avevano appena sottratto loro i segni esteriori della grandezza – casa e averi –, ma non avrebbe permesso al nuovo, desolato contesto di privarli della superiorità spirituale, che inestirpabile scorreva loro nelle vene.
D’un tratto, prima che potesse proferire parola, aveva percepito un improvviso, fastidioso senso di bagnato fra le gambe, come qualcosa di viscido, e aveva trattenuto il respiro. Confusa, carica di vergogna, si era precipitata al bagno più vicino, e sollevatasi in fretta le gonne, si era ritrovata a fissare un’enorme macchia rossa che le sporcava gli indumenti intimi: era quasi come se tutta l’angoscia, la rabbia e la vergogna degli ultimi mesi si fossero materializzate e addensate lì, sul cotone chiaro, in una macchia tangibile – impura, così come si sentiva lei in quel momento. Che ironia, aveva pensato, proprio quando, giusto un attimo prima, si sentiva agguerrita, pronta a difendere orgogliosamente la loro superiorità, il diritto naturale dei Black alla supremazia su quel vicinato indegno e infimo.
Con un inamovibile groppo in gola, Walburga non era stata capace di distogliere lo sguardo dal tessuto sporco; riusciva soltanto a pensare a sua madre distesa come una bambola rotta nel letto della loro vecchia casa, tutta coperta di sangue del parto. Proprio come quella volta, si era sentita nauseata dalla femminilità.  Sua madre le aveva accennato a più riprese che quello sarebbe accaduto anche a lei, nel percorso di crescita e maturazione fisica, come accadeva a tutte le ragazze. «È un percorso naturale, cara» le aveva spiegato Irma, con quella voce flebile come una fiammella in procinto di spegnersi da un momento all’altro. «È il modo con cui il tuo corpo ti segnala che stai diventando donna, che un giorno sarai madre.»
Probabilmente, era per quelle associazioni suggerite alla sua mente dall’immagine di sua madre, dalla sua debolezza fisica, dai suoi toni pacati e fiochi, oltre che dall’ultima istantanea che aveva di lei dopo la nascita di Cygnus, che aveva inevitabilmente finito col rapportare l’essere donna a una disfatta, a un fatto quasi disdicevole e sporco (tutto quel sangue, sempre, come se l’intera esistenza femminile fosse un perenne arrancare in una scia densa e vischiosa, ferrosa, una vita intrisa di inferiorità e vergogna). Aveva accumulato tanto orrore per quello che le avevano prospettato come il suo destino, che aveva quasi sperato che – in qualche modo miracoloso e inspiegabile – potesse crescere senza essere toccata da quella maledizione, come se potesse scampare, sola fra tutte, alla fragilità, alla sottomissione, allo sporco. Lei che ammirava tanto suo padre e invidiava i fratelli per essere nati maschi, per aver ricevuto in sorte, in quanto a fattori biologici, tutte le carte favorevoli per vincere il cuore di Pollux, aveva quasi sperato di non dover andare “fino in fondo”, di poter crescere forte e impavida e invincibile come un uomo.
Chiusa nel bagno estraneo di Grimmauld Place, si era ritrovata a strattonare furiosamente gli indumenti insanguinati, a scalciarli via con stizza. Un senso di panico e sconfitta le serpeggiava in gola e avrebbe voluto poter riavvolgere il tempo su se stesso, cancellare gli ultimi mesi della sua vita e tornare alle certezze granitiche e solide di un tempo. Ma non poteva, perché la sua infanzia si era appena conclusa.
Il suo passato, un passato rassicurante in cui poteva fingere che la femminilità si racchiudesse esclusivamente nella figura esile e cagionevole di sua madre e illudersi di essere il primogenito che suo padre avrebbe voluto avere – non una sciocca, debole ragazzina –, quel passato lì, era rimasto indietro, nella casa vuota che si erano lasciati alle spalle. Quel tempo si era fermato quando l’antico orologio a pendolo nell’atrio era stato portato via. Irrazionalmente, in piedi nella fredda luce del bagno, rilasciando nell’aria respiri rotti, sconvolti, non aveva potuto non incolpare i creditori e sua madre, di nuovo, per quello che le stava capitando.
«Non voglio crescere!» avrebbe voluto urlar loro in faccia; non se crescere avrebbe significato ritrovarsi stretta in un corpo morbido, debole, di donna, che avrebbe accentuato sempre più la sua inferiorità, o convivere con un padre che non era altro che la mera ombra dell’uomo risoluto e forte di un tempo e con un nuovo mondo, fuori dalle finestre di casa, così insopportabilmente ordinario e banale, un nuovo orizzonte segnato dal marciume e dall’inettitudine dei Babbani. 
Avrebbe preferito morire, piuttosto – piuttosto che arrendersi alla debolezza. Ma morire non sarebbe stato come arrendersi? Non avrebbe fatto di lei la degna erede di sua madre, riducendo in polvere le sue ambizioni di essere forte come suo padre (o, almeno, all’altezza dell’ideale che si era costruita di suo padre e che neanche l’impietosa realtà presente sembrava riuscire a scalfire)?
Avrebbe preferito morire, sì, ma forse la sfida che cercava, la prova con cui poter tastare le proprie qualità – o la loro assenza –, risiedeva proprio lì, nella sopravvivenza; sopravvivere a un mondo ostile, a un corpo ostile, persino, estraneo alle sue aspirazioni: sarebbe stata quella la sua missione.
 
 
 
Note:
 
1 Zia nubile: Elladora Black, colei che ha inaugurato la ben nota, deliziosa tradizione familiare di mozzare le teste degli elfi domestici deceduti.
 
Che dire, sono un po’ (tanto) emozionata nell’intraprendere questo piccolo progetto: sia perché, in passato, non sono mai stata capace di andare oltre le singole OS e quindi, per me, una mini-long, seppur di pochi capitoli, rappresenta già una decisiva novità, sia perché (chi mi conosce bene lo sa!) era da tantissimo tempo che avevo in mente questa storia, che mi dà la possibilità di spaziare su un personaggio che, come un po’ tutti i membri della famiglia Black, mi affascina molto.
In questa storia, ho avuto finalmente modo di inserire alcuni headcanon riguardo a Walburga e al suo contesto, cercando di attenermi il più possibile al canon e inventando laddove non fosse possibile (ma, spero, mantenendo sempre una certa coerenza); tutti elementi su cui altrove non ho potuto soffermarmi, elaborando un personale ritratto  che – spero – possiate apprezzare.
Ho iniziato a scrivere i capitoli successivi (dovrebbero essere, salvo modifiche, quattro in tutto), pertanto non dovrei impiegare i miei soliti tempi biblici per un aggiornamento.
Intanto, ringrazio davvero di cuore chi, dando un’opportunità alla mia Walburga, sia giunto fin qui e vorrà seguirmi in questo viaggio.
Alla prossima!
 
  
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