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Autore: sakusadokja    26/08/2022    0 recensioni
[daisuga, mini-fic]
la prima volta che Sawamura Daichi mi rivolse parola al liceo sapevo già cosa mi avrebbe detto - un saluto formale, collaudato, da manuale -, come me lo avrebbe detto - tono modulato, moderato e un inchino deciso, poi un sorriso grande da bravo ragazzo, gli occhi socchiusi e le guance piene - e dove me lo avrebbe detto - in palestra, le selezioni per la squadra di pallavolo. E lo sapevo ormai da quattro anni
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Koushi Sugawara
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Sawamura Daichi ha sempre sostenuto che dalla stretta di mano si possa dire molto di una persona, forse tutto. Sugawara Senior diceva invece “dalle scarpe”. Non era una questione di estetica, ma di dignità. Al piccolo Koushi ripeteva di tenerle sempre pulite, allacciate, che se gli facevano male doveva togliersele, non facevano per lui, che era importante perché dai piedi partiva la postura, l’andamento del passo e l’atteggiamento del corpo, se la testa stava su, se si allineava alla la spina dorsale - di nuovo, aveva a che fare con la dignità.

La prima volta che Sawamura Daichi rivolge parola al liceo a Sugawara Koushi si tratta di un saluto formale e un inchino breve. Il busto inclinato, la colonna dritta, gli occhi che puntano i piedi dell’altro. Lì in basso gli intravede di sfuggita le scarpette da tennis - non nuove, né di prima qualità, ma tirate a lucido e ben strette, un doppio nodo saldo - e sente di aver capito molte cose di lui, forse tutto. Poi, come una qualche danza rituale, fluido nei movimenti, naturale, assolutamente collaudato, gli prende la mano e gliela stringe, gli sorride - “Douzo yoroshiku onegai shimasu. (Mi affido a te)” - e quello che gli mancava di capire, almeno per il momento, gli è assolutamente chiaro. 

Quella è la stretta di mano di uno a cui affidarsi sul serio, di uno retto, che sta dritto ed è dignitoso, la stretta di un altro bambino grande, di uno come lui. I dubbi in verità gli rimangono, perché - scarpette e stretta a parte - per ora di quel ragazzo conosce solo il nome, l’età e che gli piace giocare a volley. Tutto sommato è davvero poco, gli mancano una serie di informazioni - dati anagrafici e personali, segreti e ricordi estivi, se anche lui di notte fa fatica a prendere sonno - che tanto con il tempo si acquisiscono comunque, si chiama fare amicizia e Daichi è certo che con uno come quello del tempo vorrebbe proprio perdercelo. 

Quei dubbi sono tutti i centimetri mancanti, la linea dritta che unisce i punti dalle caviglie ai polsi dove in mezzo resta questo corpo longilineo, da formare, la pelle diafana da colorare, i lineamenti accennati e i capelli ancora grigi. Sugawara Koushi è un essere in divenire. 

“Sviluppai più tardi degli altri ragazzini, sicuramente più tardi di Daichi, lui era già fatto. Fatto da un pezzo. Aveva superato il metro e settanta già alle medie, anche se non andò mai molto oltre, e pure prima di quel segnetto bianco sullo stipite della porta, la sua stazza era sempre stata quella, più alta e più grande prima degli altri. Più alta e più grande prima del tempo.”

La domenica sera, alle 21 in punto - alle 2100 a voler essere fiscali - il telefono fisso di casa Sawamura squilla. La chiamata arriva dai quartieri generali dell’Armata Nordorientale delle Forze di Autodifesa Terrestri Giapponesi, da Sendai. Altre volte dalla divisione di Higashine. Altre da oltremare. Altre da non è dato sapere. Ma da quell’ovunque, chiama sempre. Domenica. 2100

Chi alza la cornetta e digita la sequenza numerica indossa una rigida e pomposa giacca stellata. Chi alza la cornetta è il Maggiore Sawamura. All’altro capo invece risponde sempre, e sempre da Miyagi, il suo secondo in comando, Daichi, che è, tra le altre cose, anche suo figlio.

Uno squillo. Uno solo.

“Papà?”

“Figlio”

Se il resoconto della settimana assomiglia a quello della precedente allora entrambi possono ritenersi soddisfatti, per motivi però lontanissimi tra di loro. Si parte dalla conta dei fratelli e si parte dal più piccolo - Seiko, Nao, Touma, Jiro e Daichi -, di ognuno si forniscono dati circa salute, andamento scolastico e umore. Sintetici e precisi, il Maggiore Sawamura si astiene quasi sempre dal commentarli: non c’è in fondo nulla da aggiungere o dire, Daichi è bravissimo a reperirli e riassumerli. Però sempre Daichi si è anche appuntato da qualche parte, nel suo cuore di bambino, di averlo sentito indugiare alla notizia dei primi passi di Nao e poi del primo dentino di Seiko - giura di aver perso il secondo tocco della conta puntuale dei suoi respiri, dall’altro capo della cornetta quello doveva pur voler dire qualcosa. 

Poi seguono la mamma, la casa, il giardino. 

“Altro?”

Altro è invece il momento per le menzioni speciali, ultimi appunti. Quando Daichi era solo un bambino, il momento per ritrattare eventuali bugie o omissioni dolenti - “Ah, Touma oggi ha colpito un bambino con il pallone. Per sbaglio. Sono andato io a scusarmi. Non l’ho fatto giocare per una settimana, va bene?”.

Altro è lo spazio personale che con il tempo ha imparato a ritagliarsi con lui, il momento dei traguardi e delle vittorie personali, dei motivi per cui ogni tanto Daichi torna a casa fischiettando (“Ho preso il massimo al compito di scienze!”, “Ho segnato tantissimo alla scorsa partita, abbiamo anche vinto!”, “La nuova scuola mi piace parecchio, mi sono adattato subito!”, “Mi sono iscritto al club di volley del liceo, i senpai sono forti!”, “Ho un nuovo amico a scuola, anche lui frequenta il club, si chiama Sugawara, Sugawara Koushi”) ma che si conclude più o meno sempre con la medesima formula di congedo: “Bravo, figliolo. Hai fatto un quarto del tuo dovere”

Nel corso della sua vita quegli altri tre quarti Sawamura Daichi non ha mai davvero capito quali fossero. Questi cambiavano al cambiare delle stagioni, dell’età, delle priorità, erano inafferrabili e irraggiungibili, ed era proprio quello il punto. 

“Bene, buonanotte. Adesso passami tua madre”

“In primo, appena arrivato, sfioravo probabilmente il metro e sessantatre- sessantaquattro, con i capelli messi a casaccio e tanta fantasia il metro e sessantacinque. Da lì comunque penso mi prese il vizio di guardare tuo zio sempre dal basso. E dall’alto lui invece lo vedeva perfettamente quanto fossi impacciato, quanto incapace, a tratti sgraziato, quanti centimetri più basso di chiunque altro lì dentro. Eppure non me ne fece mai una colpa e sin da subito mi suggerì di provare ad allenarmi per diventare alzatore. 

Io annuì con vigore senza la minima idea di chi, cosa, dove, quando ma soprattutto perchè fosse questo alzatore. La sera stessa mi informai - tv, internet, il Monthly Volleyball che mio padre comprava ma io che non leggevo con troppa attenzione - e come sempre tuo zio aveva ragione, con il tempo poi capii quanto sul serio ne avesse. 

All’epoca mi sembrava solo il ruolo in cui avrei potuto fare meno schifo e dare meno problemi: sapevo a malapena palleggiare, o meglio, tra tutte quella era la cosa che portavo a termine senza sentire il bisogno colpirmi il petto per la vergogna… Insomma, mio padre era un entusiasta sostenitore delle mie passioni, non un preparatore atletico. Mi comprò il pallone e si limitò a rincorrerlo per il giardino, restituirmelo e dirmi che andavo alla grande, che se mi sentivo triste per la mamma allora dovevo puntare lo sguardo verso l’alto e fare 100 palleggi - ne facevo a malapena 40, già mi passava.

Comunque Daichi si era anche accorto, da quei suoi pochi centimetri più in su, che avevo buon occhio per le azioni e i miei compagni, buon fiato e il sorriso sempre stampato in faccia. Che - vergogna a parte - non mi demoralizzavo mai, che addirittura la cosa, quella di fare schifo e riprovarci sempre, mi rendeva comunque felicissimo. Che, in breve, amavo giocare a pallavolo. 

Avevo atteso quattro anni per farlo, come potevo non esserlo. 

Quando mi chiese perché proprio la pallavolo - due verticale, sei lettere: si chiede quando accade qualcosa di insolito, inusuale - qualcuno può dire strano. Perchè. - , gli risposi esattamente come quei quattro anni prima avevo fatto con mio padre: “Beh, perchè no?”. E tuo zio, come anche Suga Senior, per fortuna rise. 

“Perchè no, hai ragione” disse con quell’espressione felice che gli sale sempre quando viene preso alla sprovvista. La adoro, Daichi non è mai imbarazzato, come se gli piacesse essere colto in fallo. Soprattutto dai suoi coetanei. Una cosa che non gli capitava quasi mai, in realtà, che per la sua età avrebbe dovuto essere la regola, non l’eccezione. Una cosa che gli ricordava ogni volta di essere ancora soltanto un ragazzino.

Dicevo, per fortuna rise, perchè vaglielo a spiegare che mi aveva colpito con una Mikasa quattro anni prima ed era stata colpa sua se alla fine mi ero appassionato a quel gioco. Anche quello fu puro caso, una reazione a catena di casi, forse un cane che si morde la coda o il dilemma dell’uovo e la gallina: era stato Daichi a condurmi alla pallavolo o la pallavolo da Daichi? 

Per colpa di chi o per conseguenza di cosa, un po’ da entrambi però imparai una lezione fondamentale e per me impensabile fino a poco prima, una lezione che ancora oggi mi porto dietro, e cioè che oltre ad una buona dose di fortuna, nella vita, per le cose davvero importanti, ci vuole anche una buona dose di impegno. Che al cielo non si deve mettere fretta ma si deve comunque aiutare, dare qualche indizio, alle volte indirizzare. All’epoca per me quelle due cose importanti erano proprio l’uovo e la gallina, la pallavolo e Daichi.

Per questo il primo anno mi dedicai completamente all’una, a fare almeno un po’ meno schifo, e poi il secondo all’altra, a Daichi. Indirettamente migliorai sia nell’uno che nell'altro."

“E’ l’anno in cui vi siete messi insieme, giusto?” gli domanda la ragazza.

“No" le fa Koushi - quanto avrebbe voluto dirle di sì. "E' l’anno in cui me lo sono quasi perso. In cui entrambi fummo sul punto di perdere tutto. L’anno in cui sentii all’improvviso quel filo rosso che ci univa e sul quale, sicuro, avevo camminato fino ad allora, il filo rosso della nostra amicizia voluta dai segni e dal destino, sfibrarsi. I lacci che si assottigliavano, si riducevano di numero, poi al minimo. Si sfrangiavano e il suono acuto e metallico delle corde che saltano mi perseguitava ovunque. Anche io avevo preso a dormire male la notte.”

Dalla pausa estiva del secondo anno Koushi torna con quasi dieci centimetri d’altezza e almeno cinque chili di peso in più, la pelle diafana solo un ricordo attorno al polso sotto un braccialetto di corda, i capelli non più grigi ma di un distinto biondo cenere. Il tratteggio dalla stretta alle scarpette è finalmente completo eppure a Daichi al rientro viene difficile riconoscerlo. Figuriamoci abbracciarlo. Sente che gli manca un pezzo. 

Non lo stringe ma lo cerca, lo osserva come i padri i propri figli, come il primogenito il resto della ciurma quando l’ultimo cresce all’improvviso e loro hanno quello sguardo misto della circospezione, della curiosità, in fondo del timore. Ed è uno sguardo persistente che non vuole perdersi un istante di quell’evento insolito. Suga si sente più alieno di prima.

“Per tuo zio il secondo liceo fu duro. Durissimo. Lo vedevo perso. Faceva finta di nulla, cercava di dare il massimo, ma lui era definitivamente perso. Glielo leggevi negli occhi, irrequieti, assonnati, quelli di un sonnambulo durante un lungo terrore notturno. Era cambiato tutto in fretta e lui non ci aveva ancora dormito bene sopra: io ero cresciuto all’improvviso, suo padre era in congedo dopo una missione e i senpai gli avevano lasciato praticamente in mano le redini di una squadra in decadenza e senza coach. 

Daichi era perso, mentre tutti noi guardavamo lui per un cenno, una guida. Lui non sapeva che dire a nessuno, nemmeno a sé stesso"

Al rientro dell'inter liceale d’agosto, il Karasuno conquista il diritto fattuale di disputare le qualifiche d’ottobre, ma non quello morale. L’ultima vittoria è un mero contentino, il nome sulla lista dei prossimi turni nessuno è voluto andarla a leggere. Nemmeno il capitano, Kurakawa Hiroki: impassibile, è il primo a salire sul bus. Sono passati, questo è quanto. 

Per le tre settimane successive Daichi diventa estremamente evasivo. In quei 21 giorni risponde di rado ai messaggi, o se sì in ritardo, alla fine degli allenamenti si defila senza salutare nessuno, smette di elargire inviti a Suga e Asahi per un cinema o i compiti, declina quelli che gli vengono fatti - “E’ tornato papà, devo tornare a casa”. Koushi all’ennesimo rifiuto non ci sta e si palesa senza preavviso al portone dei Sawamura. E’ domenica, 2059, stanno sparecchiando.

2100, il campanello suona. Va ad aprire Daichi. Per poco non cade all’indietro vedendolo lì sull’uscio.

“Suga che ca-”

Poi quasi cade sul serio quando alle sue spalle una voce domanda “Chi è?”, dei passi si muovono pesanti sul pavimento in legno e li raggiungono. 

Il Maggiore Sawamura sfiora in altezza e larghezza il corridoio d’ingresso, è il doppio di quanto suo figlio racconti, ma per il resto Koushi è pronto, non lo è mai stato così tanto in vita sua. Ha previsto ogni cosa: l’inchino, il saluto, la stretta di mano che sicuramente il Maggiore gli avrebbe offerto e ora gli porge. Ha sentito così tanto parlare Daichi di suo padre che crede di conoscerlo da una vita, di vedere riflessi in suo figlio tutte le sue debolezze e difetti, pregi e punti di forza, di averlo studiato per mesi a sua insaputa tipo missione top secret. Sa perfettamente a che profondità inclinarsi, a che decibel parlare, quale forza imprimere alla sua destra quando gliela tocca: è pronto, è pronto.

Viene invitato dentro.

In cucina è accolto dal resto dei fratelli che lo assalgono con abbracci e saluti a tutto volume, la mamma di Daichi è contenta di rivederlo, aveva iniziato a mancargli. Suga le sorride e chiede di poter posare lo zaino sul tavolo, lo apre e quello si trasforma in una assurda borsa magica, del tipo senza fondo con mille trucchi dentro, poi la bocca uguale, fila fuori un monologo da Oscar, una motivazione da medaglia all’onore. 

Koushi ha con sé un pensiero per ogni componente della famiglia, dolciumi per i più piccoli, la copia inedita del segretissimo ricettario di nonna Yuna per la signora Sawamura e un discorso impeccabile da rifilare al Maggiore. Anche lui si scopre bardo, cantastorie, prega la sua Kaguya di mandargliela buona. Poi per Daichi un ultimo dono che però tiene per dopo, per quando saranno soli, loro due. E’ piano d’azione studiato al millimetro, anzi al secondo, per lui, la squadra, per il prossimo mese: a quelle qualifiche vuole prendersi un biglietto per le nazionali, anche questa cosa devono farla insieme.

“Un’ora” gli concede il padre, laconico, e nessuno dei due replica. Si defilano in camera e inizia il conto alla rovescia.

0:59:59

0:59:58

0:59:57

“Suga, che diavolo ci fai qui. Lo sai che la domenica-”

“Tuo padre è tornato, no? E’ già qui, non deve mica chiamarti.”

Di fronte alla scrivania di Daichi i due si guardano e la conversazione continua con alcuni Sì però di uno e Sì però un corno dell’altro. Non se lo dicono sul serio, accade tutto tra un battito di ciglia e l’altro, le fronti espressive, quella di Koushi che non molla. 

0:59:30

Sawamura alla fine sospira e si siede, gliela dà vinta - il tempo (s)corre. L’altro invece resta in piedi e lo guarda dall’alto. 

0:59:27

Suga caccia un fascicolo che già solo da fuori, già solo a sentirlo rimbombare contro la scrivania con un tonfo deciso incute timore, dentro poi sembra il lavoro di un pazzo, o di un mago. Koushi in quei 21 giorni ha creato delle cartelle personalizzate per ogni membro della squadra, le ha classificate, colorate e ordinate dentro quel gigantesco contenitore: è pieni di dati, punti di forza, debolezze, età, peso, altezza - a Daichi la cosa piace moltissimo. Seguono pagine fotocopiate dagli ultimi quarantotto volumi di Monthly Volleyball e un calendario fino alle qualifiche d’ottobre - è tutto segnato, lì alla fine vincono.

“Suga, ma quando hai preparato tutta questa roba?! E questo?? Dove-”

“Nelle ultime tre settimane in cui hai deciso che anche stavolta potevi farcela da solo. Notizia flash: non puoi.”

Eccolo il pezzo, la scatola del puzzle. Eccola proprio lì davanti ai suoi occhi l’immagine completa che è Koushi: 17 anni; 174.3 centimetri per 63.5 chili; non ha fratelli e vive da solo con il padre ad un isolato da lì, tutte le estati vanno a Tojinbo nella prefettura di Fukui; dorme bene, di media sette ore filate; è il ragazzino con cui ha stretto amicizia sin dal primo giorno, poi la mano e confidato che suo padre in realtà non è un mostro ma solo un tipo particolarmente impegnato ed estremamente esigente, un tipo di altri tempi, un tipo che ha imparato prima a comandare una brigata poi una famiglia, e che “Suga, la domenica il telefono lo faccio squillare una volta sola non perchè ho paura di farlo arrabbiare, ma perchè mi manca tantissimo. La domenica è il mio giorno preferito. Spero sia anche il suo”. 

Suga vede per la prima volta in 21 giorni gli occhi di Daichi brillare, accendersi di vita e quasi folgorarlo. Li vede svegli. Suga che si sentiva alieno ora si sente letto, perforato da quei due fari da lato a lato e teme quello che può averci trovato in mezzo l’altro. Suga lo guarda e fa un calcolo a mente, molto veloce e approssimativo, della fatica fatta per stilare tutto quel piano, delle ore di sonno in meno e delle cose che non riusciva a capire ma si è incaponito ad imparare. 

Poi Suga si ricorda per un secondo suo padre - anche questo è un pensiero veloce e approssimativo -, parlava di Kaguya e dell’amore, che quello vero è disinteressato, non chiede nulla in cambio, che si alimenta della felicità dell’altro e un sorriso basta ad un cuore per mesi interi, tipo il sole con un pannello fotovoltaico - “Papà, non ho capito”, “Sai quelle lastre nere che mettono sopra le case, Koushi?”. 

Suga si dice che ne è valsa tutta la pena. Suga lo farebbe di nuovo, altre mille volte. Suga vorrebbe baciarlo.

Suona un timer.

Esattamente un’ora dopo - i 60 minuti d’orologio che aveva promesso al Maggiore Sawamura di rubare a suo figlio - Koushi se ne torna a casa sua. Ancora all’ingresso Daichi chiude la porta ma trema e non ha il coraggio di voltarsi. E’ immobile con la mano sul pomello.

“Come si chiama quel ragazzo?” chiede il padre alle sue spalle. Sa che ha le mani sui fianchi e i piedi larghezza spalle.

Il figlio balbetta l’inizio di un’arringa mal posta e inutile in difesa dell’amico Suga, giusto un paio di battute prima di venire bruscamente interrotto.

“Ti ho chiesto come si chiama quel ragazzo, Daichi, non perché era qui. Quello lo so già, me lo ha spiegato”

“Sugawara” Non si è ancora voltato. “Sugawara Koushi, te ne avevo parlato-” 

“Sugawara. Koushi.” ripete il Maggiore Sawamura e Daichi d’istinto stringe gli occhi come suo padre lo avesse appena chiamato al patibolo. Si morde la guancia e attende il colpo della ghigliottina. Però non arriva. 

“Mi piace molto. Tienitelo stretto.”

“Tuo zio il mattino dopo mi scrisse qualcosa come un centinaio di messaggi, io ancora dovevo capire come mi chiamavo. Diceva che aveva dormito come un ghiro, che non vedeva l’ora fosse pomeriggio per allenarsi, che voleva sbattere in faccia a Kurokawa - "Metaforicamente. Lo sai non lo farei mai" - il mio fascicolo, e che voleva pure tartassare al più presto quei due mastini fuori controllo di Tanaka e Nishinoya. Ah, e che in cinque minuti sarebbe stato sotto casa mia, come sempre. Ah, e che mi ringraziava, che qualcuno doveva avermi mandato tipo manna dal cielo. Risi. 

Io invece quando quella mattina me andai in bagno a sciacquarmi la faccia mi resi conto che forse sarebbe stato il caso rimanermene a letto. Riflesso nello specchio vidi un volto devastato che quasi non riconoscevo, due grosse occhiaie segnate, il nero colare tutto intorno e scriverci Mi dispiace amico mio, mi sa che ti sei innamorato di Sawamura Daichi.

Scendendo le scale di casa invocai di nuovo il cielo, sperai che Daichi fosse troppo gasato e distratto per notare quel segnaccio. Purtroppo o per fortuna mi ascoltò.”

   
 
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