Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: J Stark    28/08/2022    2 recensioni
Cosa succederebbe se inaspettatamente ti ritrovassi nel mondo dell'Attacco dei Giganti? Conoscendo la storia agiresti per cambiare gli eventi o lasceresti che facciano il loro corso? Assisteresti da spettatrice/spettatore alla morte dei tanti personaggi o cercheresti a tutti i costi di salvarli?
Ti invito a scoprirlo unendoti all'avventura di Carol, la protagonista di questa storia.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Salve a tutt*! Chiedo nuovamente scusa per essere sparita, purtroppo ai vari impegni si è aggiunto uno spiacevole “blocco dello scrittore” che ora dovrei aver risolto. Spero che il capitolo valga la lunga attesa, buona lettura e grazie ancora per seguire la mia storia!


 
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«Figliolo, vieni qui per favore»

Il piccolo Erwin si siede al tavolo di fronte al padre obbedendo a quella richiesta calma che al tempo stesso tradisce però l’urgenza di un ordine. La loro piccola, povera cucina è illuminata dalla debole luce di una candela, le tende alle finestre sono state tirate in modo da oscurare alla vista di eventuali curiosi di passaggio ciò che sta accadendo in quella stanza. Il ragazzino non capisce come mai sia necessaria una tale precauzione, ciononostante si limita ad assecondare il volere del padre. L’unica domanda di cui gli interessa risposta, in fondo, l’ha posta quella mattina in classe durante l’ora di storia ed è una risposta per la quale gli è stato detto di attendere la sera.
Il Signor Smith si guarda in giro furtivo, come se nascoste dietro ai tendaggi o nelle globose ombre che si allungano nell’oscurità della casa ci fossero appostate spie nemiche.
Estrae dalla tasca dei pantaloni il fazzoletto con le iniziali ricamate e si asciuga la fronte un po’ sudata.


Erwin aspetta paziente.

«C’è un motivo ben preciso se questa mattina in classe non ho risposto alla tua domanda» esordisce finalmente il padre, parlando a voce bassa «non perché fosse una richiesta insensata o futile, tutt’altro. Hai posto un quesito intelligente che mi rende molto fiero di te perché dimostra quanto tu possegga un grande senso critico andando oltre le apparenze. Nella vita è fondamentale interrogarsi costantemente sulle nostre azioni, su quelle degli altri, sui tanti misteri che ci circondano e non accettare passivamente tutto quello che ti viene raccontato, poiché non sempre il mondo sarà onesto con te nello svelare i propri segreti. Devi sapere che la conoscenza è un potere a tutti gli effetti ed in quanto tale si farà sempre a gara per detenerlo. Perché quando una verità che risulta scomoda diventa di dominio pubblico conferisce una forza più grande di eserciti ed armi, può far cadere monarchie sovvertendo ogni sistema. Ci sono verità “pericolose” di cui il Governo cerca disperatamente di controllare la divulgazione, ben consapevole di non poter impedire l’insorgere di dubbi, domande nelle persone … come è successo a te. Quello che ti sto per dire ha una portata devastante perciò ho bisogno che tu mi prometta che non lo racconterai a nessun altro, rimarrà un segreto tra me e te. Mi dai la tua parola, figliolo?»

Erwin annuisce ma in cuor suo non comprende tale supplica, sente solo una grande smania di sapere e l’adrenalina che gli scorre in corpo a tutta velocità.

Perché aver paura della verità se essa è ciò che bisogna perseguire? Dopotutto, è proprio suo padre ad averglielo insegnato.

L’uomo prende un profondo respiro, nell’arco di quei pochi minuti pare invecchiato di dieci anni.

«Nel corso delle lezioni in classe hai imparato che l’unica storia di cui abbiamo traccia è quella risalente a 107 anni fa, dal confinamento dell’umanità all’interno delle mura fino ai giorni nostri. Tuttavia…per quanto ci sia stata effettivamente un’invasione da parte dei giganti e ci sia stato detto che insieme alla stragrande maggioranza del genere umano siano andati perduti registri ed archivi, è assai inverosimile che non esistano informazioni sul periodo precedente alla nostra reclusione, come se prima di questo evento vi fosse il nulla. Sai, i libri ed i resoconti scritti non sono l’unico modo per raccontare una storia… c’è un’altra via molto più antica e profondamente radicata nella tradizione popolare, fatta di informazioni tramandate oralmente. In parole semplici, anche in mancanza di supporti cartacei le persone dell’epoca avrebbero potuto raccontare a voce le loro memorie sugli eventi passati, facendole arrivare ai giorni nostri. L’unica spiegazione che si può dare a questa strana amnesia collettiva è che i capi del nostro Governo, o chiunque qui detenga il potere, abbiano in qualche modo alterato la memoria della popolazione facendo loro dimenticare gli eventi precedenti alla venuta dei giganti»

Il ragazzino guarda il padre completamente affascinato da ogni singola parola.

«E per ricollegarmi alla tua domanda, qui tutti hanno accolto senza riflettere una storia che continua ad essere tramandata per vera quando invece fa acqua da tutte le parti. Si dà per certo che fuori dalle mura non esista più il genere umano, ma come possiamo esserne sicuri se, per l’appunto, non possediamo alcuna informazione in merito e nessuno si è mai davvero avventurato oltre i confini delle nostre terre?»

Quelle parole mandano in fermento l’animo del giovane Erwin, che ora è più che mai determinato a varcare lui stesso quei confini lontani per vedere con i propri occhi la verità che da sempre gli viene negata. Già si immagina mentre rivela ai suoi compagni ogni cosa, prefigurandosi la ribellione del popolo verso il dispotico governo che li ha solo presi in giro.

«Ma allora questo cambia tutto, le persone devono sapere, bisogna assolutamente capire cosa è davvero accaduto!» esclama entusiasta il futuro Comandante del Corpo di Ricerca ed il signor Smith, accortosi di quella scintilla nell’espressione del figlio che durante la conversazione ha lentamente acquisito vigore, non può negare di averne paura.
Perché sa che indagare e portare alla luce ciò che l’autorità vuole tenere nascosto comporta un rischio che né lui né il piccolo Erwin sono in grado di gestire.

Per questo si affretta, suo malgrado, a smorzare quella curiosità rivolgendosi più serio che mai al piccolo.

«Erwin ascoltami bene, nessuno meglio di me può comprendere ciò che ti sta passando per la testa. So quanto è intenso il desiderio di conoscenza, la voglia di andare a fondo e smascherare la menzogna, di rendere partecipi le altre persone di questa grande scoperta... Ma ti chiedo di nuovo di promettermi che terrai per te quanto ti ho detto e che non cercherai di fare azioni avventate che possano metterci in pericolo, intesi?»

Erwin sposta lo sguardo sulla candela ormai dimezzatasi. Una grande delusione si impossessa di lui nell’osservare la cera che si solidifica lungo il fusto prima ancora di raggiungere la base della bugia.

Più o meno nello stesso modo in cui la sua corsa verso la verità sta subendo una brusca frenata.


«Sì papà» risponde mestamente a testa bassa.



 
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Sobborghi di Stohess, due mesi prima della battaglia di Shiganshina

«Certo che non potevi scegliere serata più azzeccata, Quattrocchi» si espresse seccato Levi, abbassandosi ancora di più il cappuccio sul volto, per schermarsi dall’acquazzone che si stava abbattendo con forza sulla città e che li aveva inseguiti dal momento in cui avevano messo piede fuori dalla carrozza.

«Uuuff quante storie per un po’ di pioggia… e poi c’era bisogno di acqua, i pozzi erano quasi a secco sai?» disse per tutta risposta Hange, saltellando di pozzanghera in pozzanghera come se fosse tornata bambina.

«L’acqua sta bene nei fiumi e nelle brocche, non nelle mie cazzo di mutande»

La donna si voltò di scatto verso il corvino sfoderando un sorriso ammiccante.

«Ma tu guarda, da quando in qua menzioni il contenuto delle tue immacolate mutande?»

«Di certo non con te, Quattrocchi di merda»

«Bambini» li interruppe Erwin cercando di mediare l’ennesimo dei tanti battibecchi ai quali ormai si era abituato ad assistere. Non c’era giorno che passasse senza che li sentisse litigare ed il peggio si verificava quando li convocava entrambi nel proprio ufficio per fare rapporto; bastava una frecciatina di Hange per far scattare Levi sulla difensiva e a sua volta quest’ultimo non perdeva mai occasione di stroncare malamente sul nascere i balzani progetti dell’altra.
Nonostante le emicranie a cui aveva fatto abbonamento Erwin dovette però ammettere che la faccenda lo divertiva, insieme erano un trio alquanto bizzarro ma funzionale. Hange era un vulcano di idee in perenne attività, Levi un’inarrestabile macchina da guerra e lui…

Già, si chiese.  

Chi era lui?

Ma prima di potersi soffermare su tale quesito la bruna ne interruppe i pensieri facendo segno di aver raggiunto la loro destinazione.

Si trovarono di fronte ad un edificio dai muri di pietra consumati e macchiati che faceva il paio con le altre case malmesse di cui era disseminato il quartiere. L’acqua colava a fiumi dai tubi delle grondaie e le strade, che contrariamente alle vie più lussuose della città erano sprovviste di un efficiente sistema di scarichi, si erano praticamente allagate. Non era quella che si sarebbe definita una zona raccomandabile ma in giro, complici l’ora tarda ed il temporale, non si scorgeva anima viva e ciò faceva perfettamente al caso loro.
Hange aggirò lo stabile imboccando un vicolo defilato e maleodorante per arrestarsi poi davanti ad un portone di legno marcio.

«Sbrigati ad aprire, non sopporto questo puzzo di piscio» inveì il Capitano mentre la donna armeggiava per ruotare la chiave nella toppa.

Quando finalmente la porta cedette i tre si affrettarono ad entrare in un ambiente immerso nel buio e pregno dell’odore di alcol e tabacco.
Sulla parete di fondo si intravedeva il profilo di un caminetto ed il debole pulsare delle braci ancora ardenti sembrava il respiro di una strana creatura addormentata. Hange estrasse da sotto il mantello una lanterna, ne accese la candela e si apprestò a ravvivare quel fuoco morente. Qualcuno aveva già disposto ordinatamente a terra i ciocchi di legna e l’attizzatoio, mentre sul ripiano di pietra che faceva da tetto al camino era appoggiata una scatola di fiammiferi.
Quando la calda luce delle fiamme rischiarò ulteriormente la stanza questa si rivelò essere una vecchia taverna dall’aspetto spartano ed informale, il tipo di locale frequentato dagli ubriaconi dei sobborghi, da avventori in cerca di compagnia e prostitute oppure, come in quella determinata circostanza, da militari che tramavano per rovesciare la monarchia. Il proprietario era una vecchia e fidata conoscenza di Hange che aveva accettato, incentivato dall’allettante prospettiva di trarre profitto dalla caduta del governo, di fornire loro quel luogo come base strategica per la messa a punto del piano.

«Allora, che ve ne pare?» chiese la bruna appendendo all’ingresso la propria cerata fradicia.

Levi osservò schifato le grosse ragnatele che decoravano i quattro angoli del soffitto, nonché gli aloni di unto o altra discutibile natura di cui erano ricoperti i tavoli.

«È una bettola»

«Sìsì Bella Lavanderina lo sappiamo, vorresti pulire tutto da cima a fondo. Intanto ringrazia che sei all’asciutto»

Il corvino fece per scattare ma Erwin lo anticipò.

«Ci serviva un posto sicuro in cui parlare lontano da occhi e orecchie indiscrete, qui andrà benissimo»

«Allooora, intanto che aspettiamo il resto della compagnia vediamo di bere qualcosa di corroborante. Con un intero bar a disposizione posso dare libero sfogo alla mia creatività» esclamò Hange fregandosi le mani e studiando il novero di bottiglie che riempivano gli scaffali.
Al contrario del resto delle suppellettili del locale quelle erano lucidissime tanto era frequente il loro impiego.

Gli altri due presero posto sugli sgabelli del bancone e mentre Erwin, stanco della giornata piena dei gravosi oneri da Comandante, si sedette senza fare caso alla polvere che li circondava lo stesso non si poté dire di Levi che invece fu bene attento a limitare al meno possibile i contatti con quelle superfici poco linde.

Dal canto suo invece Hange sembrava divertirsi un mondo a miscelare liquori improvvisandosi barman.

«Ecco qua provate e ditemi» affermò nel disporre sul bancone tre bicchieri il cui contenuto assumeva un colore quasi ambrato nel tremolante chiarore nella stanza.

«Io non lo bevo, non ti sei nemmeno lavata le mani»

«Ma cosa c’entra? Ho toccato le bottiglie non il liquido»

«È questione di igiene, cazzo. E poi ho visto come hai preso quei bicchieri con le tue dita lerce e li hai passati con uno strofinaccio altrettanto sudicio»

«Questo dici?» scherzò l’altra sventolando l’asciugamano davanti al volto inorridito di Levi, che quasi per evitarlo si sbilanciò sullo sgabello.

«Avanti su, brindiamo» tagliò corto Erwin accaparrandosi un bicchiere.

«Cosa ci sarebbe da brindare, la nuova situazione di merda in cui ci stiamo per cacciare?»

Hange lanciò un’occhiataccia al commilitone.

«Dai Levi, le nostre avventure partono sempre di merda ma poi…»

«Poi finiscono anche peggio» sentenziò il Capitano storcendo il naso nell’odorare lo strano intruglio preparato dalla donna.

«Volevo dire che alla fine per quanto malconci e feriti riusciamo a cavarcela, anche quando ogni speranza sembra persa»

«Tsk ma ti pagano per dire certe cazzate?»

«Avete presente la formazione a tre che utilizziamo per gli abbattimenti dei giganti?»  parlò improvvisamente Erwin e i due compagni ammutolirono osservandolo perplessi.  

«Due soldati attaccano per primi i punti deboli dell’avversario… generalmente occhi, polpacci, avambracci. Lo scopo è quello di renderlo il più inoffensivo possibile affinché il terzo compagno possa sferrare il colpo decisivo in relativa sicurezza. Relativa perché in quell’istante il gigante, seppur menomato, è più pericoloso ed imprevedibile che mai»

Il biondo parlava tenendo lo sguardo fisso sul proprio bicchiere e lo scintillio dorato del liquore giocava con l’azzurro dei suoi occhi, dando l’impressione che in essi vi si potesse scorgere una distesa d’acqua immota alla luce del tramonto.

«È una delle prime strategie che vengono insegnate ai corsi di addestramento ma pochi poi effettivamente la sfruttano. Preferiscono provare il brivido, la soddisfazione, di abbattere da soli un gigante, senza tenere conto di quanto in realtà le possibilità di successo di un’azione compiuta in solitaria siano minime. Ciò ovviamente non si potrebbe dire per te Levi… parliamo sempre della stragrande maggioranza dei militari. Nel Corpo di Ricerca invece il lavoro di squadra è fondamentale perché abbiamo capito che là fuori, dove siamo in costante balìa del nemico e del caso, l’unica certezza che possediamo è il sostegno dei nostri compagni. Perché per quanto solitamente nella formazione a tre si scelga per l’ultimo colpo il soldato più abile del gruppo, comunque il successo della sua azione dipende dalla bravura dei compagni che gli hanno preparato il terreno e prima ancora dalle vedette che hanno tempestivamente segnalato la presenza del gigante. Siamo una catena in cui ogni anello è fondamentale. Se ciascuno nelle spedizioni pensasse per sé a quest’ora non esisterebbe più una Legione Esplorativa»

Erwin si girò di tre quarti verso i propri interlocutori fissandoli attentamente negli occhi con uno sguardo deciso e pungente.

«Quindi…per riallacciarmi a quanto affermato da Hange, è vero, abbiamo affrontato tante battaglie. Il mondo sembra costantemente impegnato nel tentativo di affossarci ma nonostante tutto eccoci qui a progettare il nostro contrattacco. Riusciamo a reagire…a cavarcela…perché siamo l’uno lo scudo dell’altro, restiamo uniti. È questa la nostra forza, è questo che ci distingue dai nostri avversari»

Nella stanza calò un silenzio irreale che diventò presto intollerabile. Levi si affrettò a porvi fine, a modo suo, spinto dall’urgenza di sciogliere la spiacevole sensazione che gli aveva ghiacciato lo stomaco.

«Cosa è, una specie di dichiarazione d’amore?»

Gli altri due scoppiarono a ridere per la battuta e la tensione si allentò.

«Questa tua avversione nei confronti dei sentimenti è davvero singolare» commentò Hange appoggiandosi con i gomiti al bancone per scrutare da vicino il volto pallido di Levi.

«Non era l’assenza dei genitali nei giganti a risultarti interessante?» le rinfacciò tagliente l’altro.

«In quanto ad interesse scientifico ti assicuro che tu concorri alla grande con i giganti. Decifrarti sarebbe la scoperta del secolo»

«Che ti decidessi a chiudere la bocca, questo sarebbe un avvenimento straordinario»

«Ma guarda… è rossore quello che scorgo sulle tue guance?»

«Complimenti oltre che strabica sei anche daltonica»

«Errato, la mia percezione dei colori funziona a meraviglia. E poi non sono strabica ma miope»

«Sempre Quattrocchi rimani»

Erwin li osservò sorridendo.

Il monologo al quale si era lasciato andare era servito in primis a lui stesso, perché in quel momento gli fu chiaro chi fosse davvero. Il ruolo di Comandante lo rende il cuore della Legione, colui che conferisce forza ai propri sottoposti portando avanti il senso di unità e di appartenenza.

Ma se normalmente egli veniva considerato come la figura da tutelare e che non doveva mai esporsi più di tanto al pericolo, guardando il proprio braccio mutilato Erwin concluse che per lui non era mai stato così.Lui avrebbe continuato ad impartire ordini e guidare i soldati ma non avrebbe mai rinunciato alla prima linea, ad entrare lui stesso in quella formazione a tre per sferrare l’ultimo colpo per abbattere il nemico.
Tuttavia per quanto non si sarebbe mai tirato indietro di fronte al pericolo, l’essere ad un passo dalla morte lo aveva spinto a riflettere su come non fosse ancora pronto, o meglio non volesse, dire addio a quel mondo. Nel proprio arrovellarsi aveva capito che alla base di tale rifiuto non c’era tanto il terrore della morte in sé, quanto un bisogno restare in vita per sapere, per scavare sempre più a fondo ed arrivare a quella verità.

Perché lui aveva un sogno.

E solo una volta realizzato quel sogno avrebbe potuto mettere in gioco la propria vita al cento per cento, senza trucchi, senza scommesse.

«Allora a noi» brindò il biondo levando in alto il bicchiere per poi trarne un lungo sorso.

Il drink preparato da Hange avrebbe fatto sembrare l’inferno una landa di ghiaccio tanto erano intense le fiamme che scatenò nella discesa lungo le gole degli sfortunati bevitori. Sia Erwin che Levi strabuzzarono gli occhi dallo shock e si aggrapparono con forza al bordo di legno del bancone.

«Che cazzo ci hai dato da bere, svitata?» tossì il Capitano con il viso contratto in una smorfia di puro ribrezzo.

«È una ricetta segreta, l’ho chiamata “Bomba di Hange”»

«Erwin, penso che se servissimo questa schifezza ai piani alti li faremmo fuori all’istante senza nemmeno sparare un colpo» dichiarò Levi allontanando da sé l’imbevibile intruglio.

«Potrei prendere in considerazione la tua proposta»

«Pff si vede che non avete dei palati sopraffini» fece l’offesa Hange incrociando le braccia.

«Grazie al tuo veleno non possiedo più un palato» rincarò la dose il Capitano.

Improvvisamente si udirono cinque colpi battuti sul legno del portone, due lenti e tre veloci come prevedeva il segnale in codice.

I soldati si ricomposero ed Erwin si alzò per andare ad accogliere il nuovo arrivato.

Quando aprì la porta una figura massiccia interamente avvolta in un impermeabile nero entrò nel locale, con l’acqua che gocciolava a terra dalla tesa del cappuccio e dalle larghe maniche.

«Buonasera signori» annunciò il Comandante Supremo Zachary «davvero un tempo da lupi, perfetto per tramare un colpo di stato»




       
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Non c’era stato nulla di epico in quella carica suicida verso la morte, niente fronzoli come nelle edulcorate trasposizioni delle battaglie cavalleresche.

Nessuna raffinatezza nel modo in cui i corpi di uomini e cavalli erano stati smembrati e scaraventati in aria.

Nulla di eroico nella distesa di cadaveri stracciati e sanguinolenti che riempivano il suolo attorno a Carol disegnando un macabro tappeto.

Un rumore viscido, simile a quello di un insetto schiacciato, ruppe il silenzio quando Stranger pestò con lo zoccolo le interiora di un soldato sparpagliate sul terreno macchiato di sangue.

Per la giovane fu troppo, dovette smontare da cavallo e liberarsi lo stomaco. I conati erano talmente violenti che il sudore le colava lungo le tempie fino ad infradiciarle il colletto della camicia.

«P-p-perdonatemi vi prego» proruppe in singhiozzi accasciandosi a terra ed affondando nel fango cremisi, compressa da un peso invisibile di cui tuttavia riusciva perfettamente a percepire l’immensa e concreta mole.

Non fece caso al sudiciume che le lordava i vestiti, tanto si sentiva già sporca.

La rabbia e la disperazione le montarono dentro ed iniziò a prendere furiosamente a pugni l’erba.

Lacrime, sudore, muco e terriccio insanguinato si mischiavano nella sua bocca creando un disgustoso composto viscoso dal sapore salato e ferroso che si infiltrava dappertutto fino a correrle giù per la faringe.

Un grido gutturale si liberò poi dalla sua gola facendole vibrare dolorosamente le corde vocali e bruciandole i polmoni. Un ululato disperato che si perse nel silenzio di quel paesaggio maledetto, sotto lo sguardo impietoso di un cielo plumbeo che assisteva dall’alto estraneo alla scena.

Aveva fallito, si disse.

E la sconfitta puzzava di vomito, feci, urina, sangue.

E morte.

Attorno a lei c’era solo un tetro silenzio che la schiacciava senza pietà.

Staccò la spilla dalla camicia e la guardò con odio, l’unica emozione che in quel momento riusciva ad indirizzarle. Voleva scagliarla via, lontano dalla propria vista ma non riuscì a farlo perché quella era la sua unica speranza di tornare a casa, nonostante cominciasse a credere che sarebbe morta lì.
Perché la strategia che aveva pianificato con tanto impegno, illudendosi potesse funzionare, era stata un completo disastro ed ora non era più sicura di ciò che sarebbe potuto accadere, di ciò che ne sarebbe stato di lei e di tutti gli altri.

Si coprì le orecchie con le mani nel disperato tentativo di zittire le grida di quei cadaveri che le rimbombavano in testa. Urla che si sommavano ai futuri pianti delle povere famiglie quando sarebbe giunta la notizia che avrebbe reso realtà i loro peggiori incubi. 

Incassò il capo più che poté nelle proprie ginocchia, serrando con forza le palpebre già intrise di lacrime.

Perché, perché stava andando tutto a rotoli? Si domandò mentre un profondo terrore le cresceva nell’addome, pronto a divorarla.

Le sembrava che i polmoni non riuscissero ad incamerare ossigeno a sufficienza, come se annaspasse sott’acqua o come se delle mani invisibili le si fossero serrate attorno alla gola.

Non era certo la prima volta che si ritrovava preda di simili sensazioni ma un attacco di panico così intenso non le capitava da mesi.

Puntini neri le invasero il campo visivo e la testa prese a vorticarle come una giostra. Il suo corpo fu scosso da brividi e vampate di calore nello stesso momento.

E mentre la sua mente deragliava incontrollata un ricordo nebuloso iniziò ad affiorare.

«Non puoi vincere se non combatti»

Proprio come in quella lontana notte di due anni prima il grido di battaglia di Eren le tornò alla memoria, offrendole nuovamente una guida per attraversare quel labirinto di angosce in cui si era addentrata.

Ma la via d’uscita da quel dedalo di insidie avrebbe potuto trovarla solo lei.

Si costrinse a fare dei respiri lenti e profondi prendendo aria dal naso ed espellendola dalla bocca, cercando di calmare il proprio cuore impazzito.

Visualizzò quel terrore farsi strada nel proprio corpo avvolgendola dalla testa e correndo giù fino alla punta delle dita, con la stessa violenza di un inarrestabile rogo che divampa nel folto della foresta.

Ascoltò il dolore e l’atterrimento che esso le procurava, per la prima volta senza respingerlo bensì offrendoglisi in una resa volontaria.

Rimase così per un tempo imprecisato fino a che sentì quel fuoco ritirarsi dietro lo sterno consumandosi da solo prima di scomparire. E sul fondale di tenebra dietro le palpebre dove credeva avrebbe visto una piana deserta e divorata dall’incendio scorse invece una brillante luce.

Pur essendo cosciente di essere ancora inginocchiata a terra le sembrò di avanzare davvero verso quella fonte luminosa e di sparirvi dentro come varcando un portale.

Riaprì gli occhi recuperando il controllo del proprio corpo ed assaporando la lucidità che era ritornata a scorrere in lei.

“Combatti”

Finché era viva, finché rimaneva in quel mondo poteva agire e nulla era ancora definitivo. La sua presenza indicava che qualsiasi impresa fosse stata mandata lì a compiere non era ancora conclusa.

Sì rialzò da terra e rimontò sul dorso di Stranger che nel frattempo era rimasto pazientemente ad aspettarla.

«Grazie bello» gli disse accarezzandogli il muso mentre scrutava l’aria polverosa attorno a sé ragionando sul da farsi.

Sapeva che presto da qualche parte tra tutti quei cadaveri un frastornato Floch avrebbe trovato il proprio Comandante in fin di vita e l’avrebbe trasportato da Levi.
Ma in quel momento il Capitano stava affrontando Zeke e visto come gli eventi stavano mutando, non era escluso che potesse essere in pericolo.
Spronò Stranger a tutta velocità verso il limitare del bosco lasciandosi alle spalle quella piana maledetta finché la spessa coltre di sabbia smossa dalle pietre scagliate dal Bestia cominciò a diradarsi. Carol notò allora con terrore che, contrariamente alla storia originale, mentre Zeke era impegnato ad esultare per essere riuscito a sterminare la Legione Levi non lo aveva ancora raggiunto.
Le fila dei giganti da abbattere si erano infatti arricchite grazie ai soldati trasformati poc'anzi con il gas e di questo passo il Bestia si sarebbe accorto di Levi ben prima del dovuto.

C'era una sola cosa da fare e per quanto folle era l'unica scelta possibile.



 
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Caldo. Terribilmente caldo.

Era tutto ciò che Armin riuscisse a provare mentre il fuoco gli bruciava pelle e muscoli, divorandogli il corpo fino alle ossa e trasformandolo in un tizzone umano.

Agganciare gli arpioni ai denti di Berthold si era rivelata la scelta giusta poiché il calore non ne consumava lo smalto impedendo così agli ancoraggi di staccarsi.
E come risultato di questa brillante intuizione Armin si ritrovava ora ad essere sospeso nel vuoto, in balia delle folate ustionanti emesse dal Colossale che lo investivano senza pietà.

La tentazione di sganciarsi e porre fine a quel supplizio era forte ma il ragazzino sapeva di dover resistere per garantire ad Eren più tempo possibile, perché la salvezza di tutti dipendeva dal coraggio che avrebbe dimostrato in quel momento.

Se quel vapore rovente non gli avesse arso i dotti lacrimali probabilmente avrebbe pianto.

Perché era chiaro che sarebbe morto quel giorno stesso, ironicamente nella città in cui era nato e dove aveva coltivato il sogno di quel mare che non avrebbe mai visto.

Quello a cui stava andando incontro altro non era che il logico epilogo di una vita che per quanto a tutti era sempre apparsa normale, con la normalità non aveva proprio nulla a che spartire.

Era forse giusto che ad un ragazzino di quindici anni venisse riservata una tale fine? Certo che no, si disse. Come non era mai stato giusto vivere nel terrore dei giganti, rimanere soli al mondo, essere costretti ad arruolarsi sacrificando ogni cosa alla ricerca di un’esistenza diversa, libera. Un diritto che sarebbe dovuto appartenere ad ogni essere umano fin dalla nascita era stato invece per loro un privilegio da conquistare a caro prezzo.

Anche se a quel punto non possedeva più nemmeno una faccia poté sentire le proprie labbra lacerate sollevarsi in un sorriso.

Sì, nonostante tutto andava bene così, avrebbe affidato la sua vita ed i suoi sogni ad Eren.

Il fuoco si fece più intenso ed il metallo dei cavi del dispositivo raggiunse la temperatura di fusione sciogliendosi in un liquido argenteo.  

Armin perse quindi l'appiglio ed il suo corpo di cui ormai non aveva più percezione venne sbalzato via come una bambola di pezza.

Mentre fluttuava alla deriva di quella nube rovente fu, per la prima volta in vita sua, fiero di sé stesso.

Era stato coraggioso, non aveva perso.

Perché lui non era mica scappato.



 
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Arpionare, prendere velocità, tagliare, riavvolgere.

Ormai era un movimento talmente automatico che non ci pensava più.

Levi aveva perso il conto di quanti giganti avesse abbattuto in quei pochi minuti ed i muscoli, benché temprati da anni di duri allenamenti, iniziavano a bruciargli.

Ma non gli importava.

Doveva proseguire la sua danza mortale, ciò che sapeva fare meglio, ed annientare quell’infame essere che aveva massacrato tutti i suoi compagni.

Che gli aveva portato via Erwin.

Il sangue di quelle orride creature schizzava ovunque infradiciandolo da capo a piedi e riempiendogli la bocca di quel particolare sapore ferroso che da sempre lo aveva accompagnato nella vita.
Il gusto della morte e della vendetta.

Inaspettatamente udì un grido in lontananza che lo distolse dalla trance violenta in cui era assorto ed il sangue gli si gelò in corpo come se fosse caduto nelle acque ghiacciate di un torrente in pieno inverno.

Vide Carol emergere dalla caligine polverosa del campo di battaglia sparando in aria un fumogeno verde, lanciata al galoppo verso il Bestia e senza il minimo accenno a rallentare.
Non fu difficile intuirne le intenzioni, lo stava facendo per permettergli di mantenere l'elemento sorpresa, di cogliere alle spalle il gigante.

Ma a Levi restavano ancora quattro titani da abbattere.

Velocizzò ulteriormente le proprie mosse, mulinando le lame senza sosta ed ansimando pesantemente per l'angoscia.

Tre.

Il Gigante Bestia emise un risolino di scherno, beffandosi di quell’insulsa umana che si illudeva di poterlo anche solo fronteggiare. Si chinò ad afferrare una manciata di pietre e come aveva fatto in precedenza serrò l'enorme pugno peloso per frantumarle.

Due.

Lo vide posizionarsi in assetto di lancio, inarcando il busto per poi portare le braccia sopra la testa.

Uno
 


      
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Quando Hange riprese conoscenza tutto ciò di cui si accorse all’inizio fu un incredibile mal di testa, la sensazione di avere un pugnale che si facesse strada dall’occhio sinistro verso l’interno del cranio. La sua schiena era distesa su una superfice dura ed umida mentre sopra di sé scorgeva un cerchio di luce, anche se c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo visualizzava.

Poi lentamente, come acqua che sgocciola da una grondaia le ripiombarono addosso i ricordi degli eventi di quel giorno.

La trasformazione di Reiner e la lotta tra lui e quell’incauto di Eren. L’illusione di aver abbattuto il Corazzato con le lance fulmine, l’esitazione dei ragazzi a scaricare il colpo decisivo. Quell’urlo agghiacciante seguito dalla comparsa di Berthold nel cielo e la corsa disperata per allontanarsi dalla bomba umana in cui il ragazzo si sarebbe convertito.

Hange si portò una mano alla bocca quando nella mente le riaffiorò il volto apprensivo di Moblit.

«CAPOSQUADRA HANGE!»  le aveva gridato spingendola in quel pozzo prima di essere inghiottito dalle fiamme dell’esplosione.

Si era sacrificato per lei, Moblit non c’era più.

E quella consapevolezza le provocò un agghiacciante e doloroso senso di vuoto.

«Moblit…» gemette stringendosi il petto.

Avrebbe voluto gridare ma in quel momento sembrava non esserne più capace.
Non lo aveva mai considerato un semplice assistente, per lei era stato fin dall’inizio un amico fidato. E quando alla scoperta dell’assassinio del Reverendo Nick aveva preso le sue difese, proteggendola dall’ufficiale di Gendarmeria, Hange aveva finito per innamorarsi di quel soldato biondo che la guardava sempre con occhi gentili.
Ed ora si ritrovava pentita di non essersi dichiarata quando ne aveva avuto la possibilità.
Non che comunque lei e Moblit avrebbero avuto chissà quale vita idilliaca, nel Corpo di Ricerca non sarebbe stato possibile. E lei non avrebbe mai abbandonato l'esercito rinunciando alle proprie ricerche, al lavoro che amava, per accudire dei figli.
Però sarebbe stato bello condividere con lui come una coppia a tutti gli effetti quell'esistenza priva di garanzie ed in compenso zeppa di giganti. Ma tale prospettiva era stata cancellata dalle fiamme, a dimostrazione di quanto il destino fosse beffardo e gli esseri umani stupidi a non sfruttare al meglio il poco tempo a loro disposizione.

Alzò di nuovo lo sguardo verso l’apertura circolare constatando la stessa difficoltà di prima nel metterne a fuoco i contorni.

Si passò le dita sul volto per asciugarsi le lacrime ma si accorse che non erano solo quelle ad appannarle la vista.

Un liquido caldo e appiccicoso le impiastrava la guancia e laddove si sarebbe aspettata di incontrare l’occhio sinistro trovò invece un’orbita vuota e ridivenne cosciente di quel dolore trafittivo che le martellava la testa.

Con una calma che non le apparteneva si chinò a tastare le pietre squadrate del pavimento che nel passare degli anni si era coperto di un umido tappeto di muschio. Trovò i propri occhiali la cui lente sinistra era frantumata. Non che questo facesse differenza, si disse, dal momento che non l’aveva più un occhio sinistro.

Recuperata così parzialmente la capacità visiva controllò l'integrità del proprio dispositivo di manovra e si accinse ad uscire da quel rifugio improvvisato.

Emerse in superficie dove l'aspettava la strage di macerie che la trasformazione del Colossale si era lasciata dietro e ringraziò che Carol si fosse allontanata in tempo prima che accadesse il disastro.

Quando Armin le aveva riferito che la ragazza si era diretta verso il cancello interno Hange era andata su tutte le furie, ma presto si era dovuta ricredere perché assistendo alla rapida degenerazione degli eventi aveva concluso che in fondo era stato meglio così. Dovette inoltre ammettere che Carol aveva avuto ragione su un altro punto; abbandonare la missione per ritornare al Wall Rose non era decisamente più un’opzione e forse, riconobbe con rammarico, non lo era mai stata.

In lontananza scorse la sagoma di Berthold avanzare fumante di un intenso vapore che lo stava però consumando fino all’osso.

Udì delle grida non molto distanti da lei, dalla voce pensò potessero appartenere a Jean.

Istintivamente si tastò i fianchi constatando di avere ancora una lancia fulmine a disposizione.

Gli altri compagni erano tutti morti ma lei rimaneva pur sempre un Caposquadra.

 Non esitò due secondi per dare di gas e correre in aiuto dei suoi ragazzi.



 
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Carol pensava solo a gridare con quanto fiato avesse in corpo, in quella che le parve essere la reazione più adatta per farsi coraggio andando incontro alla morte.

Chi l’avrebbe detto che la sua fine sarebbe sopraggiunta a Paradis, in un universo di fantasia?

Non avrebbe più rivisto la propria famiglia e non sarebbe più tornata a casa.

Sarebbe morta in una manciata di secondi fatta a pezzi da quelle pietre micidiali.

Eppure in quegli ultimi istanti che le rimanevano da vivere non provò paura e non fu affatto come nei film, dove procede tutto a rallentatore mentre la tua esistenza ti scorre davanti.

No, i suoi pensieri seguivano in tempo reale le immagini catturate dai suoi occhi.

Zeke si mise in assetto da impeccabile pitcher pronto a segnare il punto decisivo.

Ad un tratto però lo vide girarsi verso qualcosa, o meglio qualcuno.

Con una furia impressionante di cui solo lui era capace Levi si avventò sul Bestia replicando la scena del combattimento ormai divenuta celebre. Dopo aver accecato la propria preda in un’azione fulminea il Capitano scattò a terra tranciandogli di netto i tendini delle gambe. La massa imponente di Zeke impattò al suolo rantolando e sollevando un polverone che oscurò alla vista di Carol il resto del duello.

Un'azione spettacolare, sovrumana.

E l'aveva salvata un'altra volta.

Non fece però in tempo a trarre un respiro di sollievo che si accorse di una sagoma che stava arrivando a grande velocità dalla foresta.

Non si trattava di Pieck, quell'agilità poteva appartenere ad un solo gigante.

Il Mascella.

Non era possibile, pensò immersa nell’ennesima ondata di sconforto, secondo la storia Galliard si trovava a Marley.

Ma poi un piccolo ed in apparenza insignificante dettaglio le tornò alla mente: il Gigante Carro portava due fusti sul proprio dorso, uno di essi aveva rivelato come ospite Berthold ma del secondo non era mai stato mostrato il contenuto.

Almeno fino a quel momento.

Carol cominciava ad averne decisamente sopra i capelli di tutta quella sequela di inconvenienti che continuavano a disseminarsi sulla sua strada.

Con Galliard lanciatosi in difesa del compagno Levi non avrebbe avuto tempo sufficiente per estrarre Zeke dal gigante.

Armandosi di tutto il coraggio che quel giorno sembrava possederla spronò quindi Stranger in direzione del Mascella, troppo concentrato sul Capitano per accorgersi di lei.

Quando fu alla giusta distanza Carol innestò le lame sulle impugnature e pregò qualunque entità fosse in ascolto di darle la forza di andare fino in fondo con quanto aveva intenzione di fare.
Solo quando gli arpioni ferirono il dorso di Porco quest’ultimo si rese conto del pericolo imminente e si girò verso di lei, che ormai era già a mezzaria pronta a sferrare il proprio attacco.
Il Mascella allora agitò il braccio come per scacciare un insetto fastidioso, ma prima che riuscisse a colpirla Carol ritirò prontamente un rampino deviando la traiettoria e diede nuovamente di gas. Riuscì così a mandare a segno un profondo taglio sul fianco del gigante che ululò dal dolore e cercò di strapparsi l’uncino ancora conficcato nella carne. Nel fare ciò diede un violento strattone alla fune che la giovane, nella propria inesperienza, aveva tardato a riavvolgere. Carol si ritrovò quindi ad essere trascinata sempre più vicino all’avversario, con la polvere che le bruciava gli occhi e la presa sulle lame sempre più scivolosa per il sudore.

In un lampo di lucidità si ricordò di avere appesa alla cintola una granata luminosa, gentile concessione di Hange.

Quando fu alla portata del Mascella attivò l’ordigno levandolo sopra la testa.

Un forte bagliore accecò il gigante che si coprì d’istinto il volto con le zampe mollando la presa sulla fune. Carol ritirò l’arpione, si rialzò di scatto e passò veloce sotto gli arti posteriori di Porco allontanandosi quel tanto per prendere sufficiente rincorsa. Approfittando dello stordimento di Galliard tentò un nuovo assalto puntando ai polpacci muscolosi del suo opponente. Quando le lame ne lacerarono la carne quest’ultimo perse l'equilibrio cadendo con la faccia sul terreno, incapace di rimettersi in piedi.

Inebriata dall’adrenalina pura che le pompava nelle vene ed invasa dalla sensazione di essere un’inarrestabile macchina da guerra, Carol volle a tutti i costi ultimare il lavoro mirando alla nuca.

Per essere una principiante lo stacco da terra fu eseguito alla perfezione, il quantitativo di gas erogato dosato con maestria ed altrettanta fu l’eleganza del suo volteggio.

Una mossa che non avrebbe lasciato scampo ad alcun nemico.

Se non fosse che Galliard, in uno sforzo estremo, compì un'istantanea rotazione su sé stesso fendendo l'aria con le grinfie acuminate e per Carol non ci fu tempo sufficiente per cambiare direzione.

Una zampa artigliata calò implacabile su di lei, sostituendo la scarica di endorfine con un dolore lancinante all'addome.

L'impatto con il terreno fu altrettanto devastante, si sentì mozzare il respiro e batté violentemente le coste.

Prima di perdere i sensi scorse Levi conficcare la spada nella gola di Zeke.

Non c'era traccia di Pieck all'orizzonte e Porco giaceva a terra esausto e sanguinante almeno quanto lei.

Il Capitano aveva campo libero per agire, forse c'era ancora speranza.

L'ultima immagine che riuscì a mettere a fuoco fu il volto pallido di Levi che la guardava atterrito, sulla bocca di lui lesse il proprio nome, sillabato con estrema lentezza.

Trovò la forza di rassicurarlo con un sorriso placido appannato dal dolore.

Un ottundimento dei sensi la avvolse in uno strano torpore mentre il suo sangue caldo innaffiava l’erba sotto di lei.

Udì la voce di Levi che la chiamava ma era troppo lontana per distinguerne le parole.

E lei troppo stanca per rispondere.

Una mano gigantesca le si strinse attorno al corpo sollevandola dal suolo come se pesasse solo pochi grammi.

Al contrario la sua coscienza sprofondava sempre di più verso il fondale di un abisso bagnato e buio dove solo un fascio di luce vaporosa riusciva ancora a raggiungerla.

Poi anche quell’ultimo bagliore scomparve e la voragine di tenebre si chiuse su di lei velandole gli occhi con una colata di pece nera.



 
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«CAROL! CAROL! Mi senti dannazione?»

Fu riportata al presente dalla voce straziata di Levi che cercava disperatamente di bloccarle l’emorragia tamponandola con il mantello.
Poteva udire distintamente il rumore prodotto dal tessuto già inzuppato, che le ricordò quello degli scarponi che avanzano su un terreno fangoso…o dell’intestino calpestato da Stranger poco prima.

«Cazzo…cazzo» imprecò l’uomo con voce strozzata, il volto contratto in un’espressione di angoscia e terrore.

Alle sue spalle saliva ancora al cielo la nuvola di vapore proveniente dal gigante che il corvino aveva abbattuto per evitare che Carol venisse divorata. Si chiese come quel mostro potesse essere sfuggito alla furia del Capitano, probabilmente un anomalo che non aveva ubbidito a Zeke e si era nascosto dietro la linea degli alberi.

«È veramente brutta, eh?» tossicchiò Carol sentendo il sapore ferroso del proprio sangue sulle labbra.

L’altro le rispose con un grugnito rabbioso, senza apprezzare il tono ironico che lei si era sforzata di dare a quelle parole.

«Levi…dove è Zeke?»

«Fanculo Zeke»

La ragazza ruotò la testa alla ricerca del Bambino Prodigio.
Lo scorse poco lontano che agonizzava sull’erba, con la spada del Capitano ancora conficcata in gola. Pieck non si vedeva mentre Porco, dopo aver abbandonato la carcassa del proprio gigante, era riuscito a trascinarsi carponi al capezzale del compagno guerriero. Carol sorrise tra sé nel constatare quanto filo da torcere gli avesse dato nonostante lei fosse solo una principiante.

Ma quella soddisfazione non durò che un istante e fu una magra consolazione per l’esito della vicenda.

«Levi… devi occuparti di Zeke»

Il corvino scosse la testa, chinandosi ancora di più su di lei per esercitare una maggiore pressione sulla ferita. Dalle ciocche acuminate dei capelli piovevano gocce di sudore tanto era intenso il suo affanno.

Chiamando a raccolta le proprie forze la ragazza mise la mano su quelle di lui, constatando che erano bagnate fradice del proprio sangue.

Il soldato continuò ad evitarne lo sguardo.

«Levi… è finita, basta» mormorò con una calma che stupì sé stessa «è una ferita troppo grave…su di me non puoi usare il siero e qui non ci sono le tecniche adeguate per curarmi»

Lui finalmente si girò verso di lei, con la disperazione dipinta in volto.

«No non è vero, Hange sistemerà tutto»

Carol rise e ciò le procurò subito una fitta lancinante.

«Non vuoi proprio mollare…»

Lei invece era tanto stanca e non riusciva più a tenere gli occhi aperti.

«Ehi! Non addormentarti, è un ordine!» la richiamò lui perentorio.

«Va bene…Capitano…» ubbidì lei, ma aveva ancora le palpebre serrate.

Stava per lasciarsi andare alla tranquilla serenità che la pervadeva quando un fragore le rimbombò nelle orecchie, seguito da un suono simile ad una forte folata di vento.

Un vortice.

Spalancò gli occhi e vide alla propria sinistra a qualche metro di distanza lo stesso portale che l’aveva condotta a Paradis.

Nel medesimo istante alle loro spalle si palesò Pieck, che dopo aver osservato perplessa lo strano fenomeno caricò sul dorso Porco e Zeke allontanandosi di gran carriera verso le mura.

«No! No!» gridò Carol abbattuta, certa che a quel punto la storia non potesse più essere modificata.

Levi, che aveva fissato il vortice in trance a bocca spalancata, udendo la ragazza si riscosse e la sollevò prontamente da terra.

«Cosa fai, fermo!»

Rianimata da un’improvvisa scarica di adrenalina ed incurante dello squarcio che le apriva l’addome Carol tentò di liberarsi da quella presa, mentre il corvino la trasportava verso il portale.

«Cosa faccio? Ti rimando a casa! Lì sapranno curarti di certo»

«No Levi… così non ti rivedrò più» disse lei con la voce rotta dall’emozione.

Lui la guardò severo ma Carol vide riflesso in quegli occhi scuri il suo stesso dolore.

«Non dirlo nemmeno, tu devi vivere»

La luce si fece più intensa e la giovane capì di avere poco tempo e di dover usare quegli ultimi secondi al meglio.

Se si fosse trattato del finale tragico e sdolcinato di quei film romantici che lei non aveva mai tollerato, l’eroina protagonista avrebbe confessato apertamente i propri sentimenti all’amato.

Ma Carol non si sentiva una protagonista, tantomeno un’eroina quindi scartò quell’opzione a vantaggio di un consiglio che sperò potesse essere di maggior aiuto al Capitano.

Si concentrò sul suo volto affilato che stava sfumando sempre di più, imprimendosi nella memoria ogni particolare.

«Non fidarti mai di Zeke» buttò fuori tutto d’un fiato, mentre le mani di Levi la abbandonavano ed il vortice la inghiottiva nel suo sfolgorante bagliore.
 



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Come può un ricordo essere così nitido?

Come è possibile conservare perfettamente intatti nella memoria i dettagli di un luogo che non si visita da anni?

Questi ed altri interrogativi affollano la mente di Erwin mentre sosta sull’uscio della classe che frequentava da ragazzino.

Il tempo sembra non aver intaccato quello spazio, ogni cosa è rimasta come era allora; I banchi di rovere sono nella stessa posizione e lui individua subito il proprio nel posto vuoto nella fila centrale, lo stesso da cui in quel lontano giorno aveva posto la fatidica domanda, inconsapevole delle conseguenze che da essa sarebbero derivate.
Dalle finestre filtra la medesima luce polverosa che colora i ricordi delle giornate trascorse in quella stanza ed Erwin può quasi afferrare i minuscoli granelli di pulviscolo che gravitano nell’aria durante l’ora di storia, la lezione di suo padre.

Eccolo infatti davanti a lui il maestro, che trascrive meticolosamente alcune date alla lavagna mentre gli alunni lo seguono attenti con occhi colmi di ammirazione.

È così bello rivederlo felice, vivo, immerso con encomiabile dedizione nel lavoro che ama.

In questo sente che loro due si assomigliano molto, entrambi decisi a votare anima e cuore alla verità, ai sogni, finendo per sacrificare sé stessi.

E adesso Erwin non vede l’ora di raccontare ciò che ha scoperto, di confermare al padre che aveva ragione.

Tutto risulta talmente reale come se ciò a cui stesse assistendo non appartenesse ad un’epoca ormai lontana ma al presente. Non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui ha provato una simile sensazione di pace e di serenità.

Avverte il proprio corpo muoversi come se ripescasse anche lui una memoria alla quale non attingeva da anni ma che non è mai stata dimenticata.

«Maestro» la sua mano si alza con un gesto naturale all’unisono con la sua voce che, commossa, riecheggia nella stanza «ora conosco la verità»

Il padre si volta in direzione del figlio sorridendogli orgoglioso, per nulla colto di sorpresa da quell’affermazione come se fosse la cosa più scontata del mondo, come se avesse sempre saputo che la verità sarebbe stata prima o poi raggiunta.

Ripone il gesso nel cestello della lavagna, chiude il libro di testo e si siede alla cattedra facendo segno ad Erwin di prendere posto a sua volta.

L’ex Comandante del Corpo di Ricerca sfila nell’aula sotto gli sguardi miti dei vecchi compagni, l’eco di ogni suo passo risuona potente nell’aula emanando una grande solennità come se presenziasse ad una cerimonia.

Ed Erwin l’avverte appieno l’importanza di quel momento perché, dopo una vita trascorsa alla ricerca dell’ultimo pezzo di un puzzle troppo importante da lasciare incompleto, finalmente l’attesa è finita.

«Questo è per te papà, ce l’abbiamo fatta» ripete a sé stesso.

Quando si siede accarezza con nostalgia quel legno ruvido e sente che tutto è come deve essere, che è giusto concludere la propria storia lì nel luogo dove ogni cosa ha avuto inizio.

Il padre intreccia le mani sotto il mento e dietro gli occhiali le sue iridi azzurre ardono di curiosità quanto quelle del figlio.

«Siamo tutti orecchi, Erwin»




 
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Con un tonfo Carol ricadde su qualcosa di morbido, che riconobbe essere il letto della propria stanza.

Gimli la spiava guardingo dall’angolo in cui si era nascosto quando il portale si era aperto per la prima volta.

Per lei erano passati sette giorni, nella sua dimensione invece il tempo sembrava essersi fermato.

Si portò istintivamente le mani all’addome e laddove fino a pochi istanti prima vi era uno squarcio sanguinolento sentì solo la stoffa asciutta del pigiama.

Ansimando si lanciò giù dal letto per afferrare uno dei manga della sua collezione, doveva sapere come era andata a finire.

Con grande stupore si accorse che lo scaffale dove teneva ordinatamente i volumi era vuoto.

Senza curarsi del baccano che stava facendo rivoltò mezza stanza alla ricerca della raccolta perduta.

Gimli la guardava sempre più perplesso.

Sentì bussare piano alla porta e poi vide la maniglia abbassarsi. Sua mamma comparve sulla soglia in vestaglia da notte.

«Carol ma cosa è questo caos, è notte fonda…» la rimproverò a bassa voce per non svegliare il marito che dormiva ancora.

La ragazza rimase paralizzata sul posto fissando la madre come se fosse un’apparizione.

«S-scusa mamma…» farfugliò trattenendo l’emozione «stavo…cercando un libro»

L’altra le rivolse un’occhiata allibita.

«A quest’ora? Dai torna a letto, sono sicura che la tua voglia di leggere può aspettare domani mattina»

Carol annuì, ma prima che la donna sparisse dietro la porta la richiamò con urgenza.

«Mamma!»

Lei sussultò per lo spavento.

«Santo cielo Carol, c’è qualcosa che non va?»

«Volevo solo dirti…che ti voglio bene»

La madre dovette pensare che la figlia quella sera fosse più strana del solito, nonostante ciò le sorrise benevolmente.

«Anche io te ne voglio. Buonanotte»

Quando la porta si richiuse Carol, ancora scossa, si sedette alla scrivania ed accese il portatile.

Appena il sistema si fu avviato cliccò sull’icona di Chrome e digitò “Shinjeki no kiojiin”.

Trattenne il respiro mentre la pagina elaborava ironicamente con infinita lentezza la richiesta.

Ma sullo schermo comparve solo una scritta “Siamo spiacenti, la ricerca non ha prodotto risultati”.

Atterrita, provò ad inserire nella barra di ricerca il nome di Isayama, quelli dei personaggi, qualsiasi cosa che rimandasse all’opera.

Ma niente, sembrava che l’Attacco dei Giganti non fosse mai esistito.

Si abbandonò allo schienale della sedia con lo sguardo incollato alla pagina bianca di Google.

Cosa aveva combinato?
 




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Levi avrebbe voluto capire una volta per tutte il motivo che inducesse il destino, o chi per esso, a scaricargli addosso una disgrazia dietro l’altra.

Ma si rese conto che in realtà, come accade sempre nonostante la gente preferisca leggervi una causa divina, l’artefice di quegli eventi altri non era che un umano in carne ed ossa.
Perché se Carol aveva ragione e loro erano tutti personaggi fittizi, allora la persona verso cui indirizzare le proprie invettive era l’autore di quello strambo racconto.
Era con questo illustre Superiore che Levi avrebbe desiderato un’udienza, magari con la propria spada a portata di mano tanto per fargli sentire quanto fosse finto l’acciaio partorito dalla sua immaginazione.

Ciononostante chi ora doveva gestire quella tragica situazione era solo Levi.

L’ennesima scelta, l’ennesimo interrogativo su cosa fosse giusto o sbagliato.

Da una parte un ragazzino coraggioso che sognava di vedere il mare.

Dall’altra un Comandante che fino alla fine aveva inseguito la verità.

In mezzo ad essi un altro essere umano, chiamato suo malgrado a decidere chi condannare e chi salvare con quell’unica siringa che stringeva tra le dita.

Cosa fare dunque?

Iniettare il liquido ad Armin consentendogli di realizzare il proprio sogno e diventare magari un bravo Comandante?

«Né io né il Comandante riusciremo a salvare l’umanità, sarà soltanto Armin!»

C’era del vero nelle parole di quel petulante di Eren? Più volte il Capitano aveva assistito ai ragionamenti ed alle osservazioni di Armin, riconoscendo il grande potenziale che cresceva in quel ragazzino sul quale nessuno a prima vista avrebbe scommesso un centesimo.

«Allora, per prima cosa raggiungeremo il mare, vedrai Eren sono sicuro che esiste!»

Ma il Corpo di Ricerca necessitava di un eccellente Comandante nell’immediato presente, per fronteggiare battaglie che senza l’ingegno e l’esperienza di Erwin potevano considerarsi perse in partenza. Carol era stata molto attenta a non lasciarsi sfuggire rivelazioni su ciò che sarebbe accaduto dopo lo scontro di Shiganshina, tuttavia i suoi sforzi per cambiare il corso di quegli eventi lasciavano intendere quanto essi fossero disastrosi.

«Levi, voglio entrare in quella cantina»

Salvare Erwin lasciando morire un ragazzino non era comunque una scelta più allettante.

E Levi non poté fare a meno di pensare che anche la persona a cui venisse inoculato il siero ricevesse a tutti gli effetti una condanna, seppur di un altro tipo. Essere costretti a divorare un altro essere umano non era infatti quello che forse si sarebbe potuto definire “aver salva la vita”.

Ma uno di loro doveva sopravvivere, in questo non vi era alternativa e il Capitano aveva preso la sua decisione.

«Accidenti, siete uno peggio dell’altro… fate i capricci proprio come dei mocciosi» disse mentre avanzava mettendo faticosamente un piede davanti all’altro e trascinandosi appresso il busto senz’arti di Berthold.

Si chinò sul corpo esanime di Erwin, lasciandosi alle spalle Armin perché non aveva intenzione di guardarlo morire mentre resuscitava il Comandante.

Ignorare l’ammasso di carbone in cui si era trasformato il ragazzino non bastò a farne tacere la voce, che continuò invece a risuonare nella testa del Capitano affermando la propria presenza.

«Ma non si limita tutto a questo… il mare!»

Levi provò a farla tacere concentrandosi sui propri gesti, sulla siringa che impugnava, sul liquido argenteo che riluceva al suo interno.

Era solo un oggettino di vetro sottile, così delicato che se Levi avesse fatto appena più forza con le dita si sarebbe frantumato in mille pezzi eppure nella sua mano pesava una tonnellata.

Si sentì immerso in una bolla dove tutto era sfumato, ovattato e dove un secondo sembrava lungo anni.

Afferrò l’avambraccio di Erwin e proprio quando stava per bucarne la vena il biondo si liberò dalla presa portando il braccio all’indietro con uno scatto.

La mano ricadde sulle tegole del tetto con il palmo rivolto verso l’alto, come nel gesto di chiedere il permesso di prendere parola.

Le palpebre si aprirono lentamente anche se quegli occhi ormai non erano più in grado di vedere, erano sono solo due palle di vetro azzurro opaco.

«Maestro…ora…conosco…la verità…» pronunciò il Comandante con un filo di voce, prima di esalare un lungo respiro di sollievo.

Di liberazione.

E a Levi bastarono quella frase e l’espressione pacifica di Erwin per comprendere, per realizzare che non poteva riportarlo a forza in quel mondo disfatto.

Kenny diceva che tutti si ubriacano di qualcosa per far fronte alle sfide della vita, trascorrendo così i propri giorni schiavi di tale dipendenza. Se ciò corrispondeva al vero allora Levi non poteva arrogarsi il diritto di sottrarre ad Erwin la libertà che egli, separatosi da quel sogno diventato un’ossessione, aveva appena conquistato.

Per il Comandante era giunto il momento di riposare.

Il corvino distolse lo sguardo dal biondo e si alzò lentamente per inginocchiarsi davanti ad Armin.

Quando gli appoggiò la lama della spada sotto le narici l’acciaio si appannò lievemente rivelando la tenacia che ancora teneva in vita quel ragazzino.

Mentre si ingegnava a trovare una vena in quella pelle annerita, chiedendosi se ciò che stesse facendo fosse una pazzia, il ricordo della conversazione avuta con Carol la notte prima della partenza irruppe nella sua mente.

«Non voglio che a quei ragazzini capiti lo stesso. Voglio che tutti e tre sopravvivano e vedano il mare, sempre ammesso che esista»

«Lo vedranno Levi, grazie a te»

Si accorse di star sorridendo nonostante le circostanze, perché in cuor suo aveva sempre avuto la risposta che cercava.



 
  …                                                                               
 




«Hai fatto ciò che dovevi Levi. Erwin ha affidato a te il siero per l’enorme fiducia che nutriva nei tuoi confronti, sapeva che avresti scelto la via migliore per il Bene del genere umano. Adesso solo il tempo ci mostrerà l’esito di questa decisione» affermò Hange qualche minuto dopo, mentre osservava insieme al commilitone Eren, Mikasa e gli altri riuniti attorno al corpo di Armin.

Il Capitano annuì mantenendo lo sguardo fisso sui ragazzini che piangevano di gioia nell’abbracciare il loro amico.

Le volute di vapore si levavano alte dalla carcassa del gigante che aveva ospitato Armin ed i colori del crepuscolo tingevano il mondo di un caldo arancio, conferendo alla scena un che di onirico e surreale.

«Hange»

«Sì?» rispose la donna, sorpresa che lui non l’avesse chiamata “Quattrocchi” come di suo solito.

«Una volta fatto ritorno a casa andremo in quella bettola in cui ci avevi portati, preparerai la tua disgustosa bevanda e la berremo in silenzio. Intesi?»

Hange si girò a studiare il profilo teso del compagno di avventure che quel giorno aveva detto addio a due persone che amava incassando quel nuovo, brutale colpo del destino e gli sorrise commossa.

«Intesi»




 
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Quando il Signor Eldar udì la porta del negozio aprirsi con forza ed il campanello trillare più acutamente del solito come seccato da quella brusca entrata, prima ancora di sollevare gli occhi dal libro contabile aveva già capito chi si sarebbe trovato davanti. 

«Bentornata Carol» la salutò educatamente sistemandosi gli occhiali sul naso adunco e chiudendo il registro che stava consultando.

«Mi rimandi là» tagliò corto l’altra decisa a saltare i convenevoli.

Lui le sorrise paterno, studiando con indulgenza quel volto arrossato dall’agitazione in cui si leggevano chiaramente i segni dell’avventura appena vissuta.

La Carol che lo stava fissando con occhi accesi di determinazione non era di certo la stessa giovane schiva che aveva incontrato il giorno precedente.

Sulla terra erano trascorse solo ventiquattro ore ma Eldar sapeva che a Paradis lei aveva passato un lasso di tempo ben più lungo.

«Non posso»

«Al diavolo! Certo che può, l’ha già fatto una volta!» sbottò la ragazza dimenando le braccia ed avvicinandosi al bancone.

«Mi permetto di dissentire, la spilla ti ha portato a Paradis, non io»

Lei lo guardò spazientita.

«Allora me ne dia un’altra»

«Non c’è un’altra spilla… mi dispiace»

Carol affondò il viso tra le mani appoggiandosi al bancone con i gomiti, le stava venendo da piangere per la disperazione. Il libraio versò del tè in un bicchiere da un thermos che teneva sempre vicino alla cassa, allungandolo alla giovane.

«Grazie» brontolò lei accettando l’offerta.

Stette un attimo in silenzio, come per riorganizzare i propri pensieri.

«Perché ogni traccia dell’Attacco Dei Giganti è sparita? Dove ho sbagliato?» domandò poi fissando titubante il suo interlocutore.

«Onestamente non lo so… è probabile che ciò che è successo abbia creato una sorta di glitch. O forse il tuo intervento ha determinato delle conseguenze che hanno messo in sospeso la storia»

«Ma addirittura cancellarsi mi sembra eccessivo. Effettivamente durante la mia permanenza ci sono state delle modificazioni degli eventi, ma quando ho lasciato Paradis comunque l’esito della battaglia di Shiganshina sembrava essere quello che conosciamo tutti»

Il Signor Eldar si strinse nelle spalle.

«L’unica cosa che possiamo fare è aspettare. Deduco che, dal momento che me ne hai chiesta un’altra, tu non sia più in possesso della spilla»

«Purtroppo è così, deve essersi distrutta dopo aver aperto il portale… una volta tornata nella mia stanza nelle tasche ho trovato solo questi»

Carol estrasse dalla borsa i cimeli che l’avevano seguita nel suo viaggio di ritorno e li porse all’anziano.

Lo sguardo di lui si accese immediatamente, le sue dita si chiusero tremanti attorno al taccuino ed al distintivo insanguinato come se stessero contemplando un tesoro perduto.

La ragazza corrugò la fronte senza capire cosa stesse succedendo.

«Elyn…» sussurrò il libraio con le lacrime agli occhi.

«Come fa a conoscere...ma… il taccuino sarebbe il suo? Come è possibile...» Balbettò lei ancora più spaesata.

L’altro le sorrise comprensivo mentre faceva il giro del bancone dirigendosi verso l’ingresso del negozio.

Girò la chiave nella toppa ed espose il cartello in modo che da fuori si leggesse “CHIUSO”.

«Eldar é il nome che uso ora in questo mondo, ma in realtà tanto tempo fa quando vivevo a Marley mi chiamavo in un altro modo...e si può dire che tu già mi conosca»

Carol strabuzzò gli occhi, connettendo in quell'istante i tanti puntini disseminati lungo quella tortuosa strada.

«Xaver» pronunciò a fior di labbra fissandolo sconvolta.

Lui annuì soddisfatto, poi le indicò con un gesto della mano il retrobottega.

«Mettiamoci comodi, adesso è il mio turno di raccontarti una storia»
 
   
 
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