Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    11/09/2022    0 recensioni
Mikasa l'ideale, Marco l'amore in carne ed ossa…
E Armin?
Cos'era Armin?
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Erwin Smith, Hanji Zoe, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Fanfic scritta per il gruppo Facebook Prompts are the way

 

Fandom: Attack on titan 

Titolo: Irresistibile

Personaggi: Jean, Armin, Hanje, Erwin

Prompt: Baci rubati

Genere: romantico, sentimentale, introspettivo

Rating: giallo per la presenza, nella parte finale, di tematiche che potrebbero turbare.

Warning: la fic è in realtà molto tranquilla, solo, nella parte finale, si fa cenno a esperienze (non esplicitate) di abusi e molestie.

 

Note: da collocarsi in un momento non ben determinato del primo periodo, in cui Jean e Armin cominciano ad avvicinarsi, non so bene se dovrebbe stare prima o dopo la vicenda del gigante femmina, forse poco prima o comunque in quei giorni.


IRRESISTIBILE

 

Non c'era stato tempo per rendersi conto della situazione. 

Un attimo prima erano con i compagni a godersi uno dei rari momenti di pausa, poi la voce di Hanje pronunciò i loro nomi e il loro destino fu irrimediabilmente segnato.

Non importava il suono mellifluo che quel richiamo avevo assunto sulle labbra della caposquadra: loro sapevano benissimo che, quando Hanje si mostrava così gentile, di sicuro non c’era da aspettarsi nulla di buono.

Infatti, pochi minuti dopo si trovarono di fronte ad un tavolo, ricolmo di fogli e fascicoli gettati alla rinfusa uno sull'altro, senza ordine logico.

"Sono rapporti e resoconti che devono essere riordinati per anno e data e Erwin li vuole entro domani mattina. Ma sapete com'è, io ho svariate altre incombenze e…". 

"Entro domani mattina?!" la interruppe Jean. Il panico gli impedì di mantenere la formalità che sarebbe stata auspicabile nei confronti di un superiore. "Ma ci vorrà tutta la notte e domani mattina abbiamo le esercitazioni!".

Hanje mise una mano su un fianco, con l'altra si sistemò gli occhiali sul naso e, mantenendo intatta la solita flemma, diede loro la risposta peggiore che potessero prevedere:

"Beh, siete fortunati. Allenamento extra. Consideratelo parte di un corso di sopravvivenza".

Jean arriccio' il naso.

Davvero avrebbe voluto trovare qualcosa da ribattere, ma l'atteggiamento della caposquadra non ammetteva possibilità di replica.

Poterono solo osservarla, mentre si voltava e, con un cenno di saluto e voce flautata, augurava "Buon lavoro", prima di chiudersi la porta alle spalle e lasciarli soli nel silenzio, tra montagne di carta.

Rimasero immobili per qualche istante. Gli occhi di Jean, straniti, sembravano non riuscire a staccarsi da quella porta chiusa. Solo dopo un po' cambiò la direzione del proprio sguardo e lo puntò su Armin.

Lo trovò immobile, rigido, il collo incassato tra le spalle e le mani sulle ginocchia, le labbra serrate e lo sguardo fisso al tavolo con tutte quelle scartoffie che impedivano alla superficie lignea di fare capolino.

Jean aveva bisogno di una valvola di sfogo e Armin era il bersaglio più prossimo.

"E allora, grande genio?". 

Tono duro, voce aspra… un leggero senso di colpa che cacciò immediatamente.

Il ragazzino si raddrizzò, sollevò un poco gli occhi, poi lo guardò:

"Dici a me?".

"No guarda, parlo al fantasma dello studio di Hanje Zoe! Non mi sembra ci sia qualcun altro qui!".

Sul viso delicato del piccolo Arlert comparve un broncio indignato e Jean dovette ammettere che quel visetto dall'apparenza timida e dimessa sapeva mostrarsi focoso. Non era la prima volta che Arlert rivelava doti nascoste.

"Ce l'hai con me, Jean?".

Ce l'aveva con lui?

Chissà…

In realtà, ce l'aveva col mondo in quel momento.

"Avresti potuto cercare di renderti utile!".

"In che senso?".

Con quella vocetta da angioletto faceva il finto tonto?

Jean lo aggredì a parole, accompagnate da un gesticolare nervoso:

"Non so, magari spremendo quel cervellino che tutti idolatrano per trovare il modo di sottrarci a questo casino! Anziché tremare di paura, usare la tua testolina che, proprio quando serve, decide di non funzionare!".

"Io non sto tremando di paura!" scattò Armin e quella vocetta si fece acuta. Colto di sorpresa da una reazione così energica, Jean fece una smorfia e lo fissò con una certa curiosità. 

C'era qualcosa in quel ragazzino che…

Armin si ritrasse quasi subito, rintanò di nuovo la testa tra le spalle e i suoi occhi fuggirono.

Rieccolo timido e dimesso.

"Tremo di paura per cose ben più serie" borbottò, appena udibile questa volta. "Non certo per una scemenza simile".

"Scemenza?" Trasecolò Jean. "Una notte senza dormire e esercitazioni che cominciano all'alba tu la definisci scemenza?!".

"Certo non da tremare di paura!".

Armin ritrovò vigore, si tese verso di lui e i loro nasi quasi si sfiorarono, tanto che Jean, vedendoselo arrivare contro così, ebbe l'istinto di ritrarsi.

"Ci stai girando intorno per cercare giustificazioni al fatto che il tuo cervellino non ha funzionato!".

"Non ci ho neanche pensato!".

Armin si tese ancora, il suo entusiasmo nel rispondere era tale che Jean credette avrebbe finito per ritrovarselo in braccio se si fosse avvicinato un altro po’. 

"Come sarebbe a dire?!".

"Non ho preso in considerazione neanche per un istante la possibilità di oppormi all'ordine di un superiore!".

Jean si alzò di scatto, non sapeva se il nervosismo fosse dovuto più a quell'invadenza fisica o alla frustrazione per ciò che aveva udito.

Incrociò le braccia sul petto:

"Ah, è così! Il bravo, obbediente e ligio cadetto che non si ribella neanche ad un evidente sopruso!".

"La stai facendo troppo tragica, Jean!".

"Come no, me lo racconterai domani quando crollerai per la stanchezza e il tuo Eren dovrà venire a raccoglierti, come sempre!".

Non aveva fatto in tempo a frenarsi, ma si rese al tempo stesso conto di aver esagerato. Glielo dimostrò l'espressione di Armin che, da agguerrita, assunse tante diverse sfumature, fino ad un'evidente malinconia. Quegli occhi incredibilmente grandi ed espressivi, per un istante sembrarono ancora più immensi, poi le palpebre si strinsero e la loro direzione deviò a terra.

Anche il corpo ruotò su se stesso e le mani cominciarono ad armeggiare nervose tra i pezzi di carta.

"Diamoci da fare" mormorò con voce ora un po' incerta. "Altrimenti neanche la notte intera ci basterà".

"Armin…".

Jean era sinceramente dispiaciuto, avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, ma non era bravo a chiedere scusa e neanche a confortare. 

Così, non ottenendo risposta al proprio leggero richiamo, sospirò, aggirò il tavolo per portarsi dalla parte opposta e si sforzò di imitare il compagno ed impegnarsi nello snervante lavoro che li attendeva.

 

Seguì un lunghissimo silenzio, l'unica colonna sonora erano i loro respiri, piccoli colpi di tosse ogni tanto e il frusciare dei fogli che venivano sapientemente classificati.

Con impegno e solerzia da parte di Armin, con molta più fatica e noia da parte di Jean i cui occhi, sempre più frustrati, cercavano di cogliere qualche cambiamento su quel tavolo invaso dalla carta.

Invece, più fascicoli sistemavano più sembravano spuntarne, il mucchio non sembrava scendere e il piano del tavolo al di sotto non si decideva a mostrarsi.

Non seppe quanto tempo fosse passato quando i suoi occhi cominciarono ad incrociarsi, era convinto di trovarsi lì da ore. 

Eppure, sul tavolo, nulla mutava.

Infine non potè trattenere un lamento, lasciò cadere i fogli che aveva in mano, allungò le braccia sul tavolo e vi posò sopra una guancia:

"Sono tantissimi, non faremo mai in tempo".

"Stai tranquillo e concentrati" gli rispose Armin, senza distogliere gli occhi dal lavoro. "Non è passata neanche un'ora, abbiamo ancora tutta la notte, ce la faremo".

Jean sussultò, raddrizzò il busto e sperò di aver capito male.

"Neanche un…" mormorò. Poi la voce esplose in un boato che fece saltare Armin sulla sedia e gli fece scivolare di mano le carte: "Cosa significa che non è passata neanche un'ora?!".

Armin sbuffò, riprese in mano i fogli e vi riportò sopra lo sguardo:

"Fare l'isterico non ti servirà a nulla. Piuttosto renditi utile, non hai svolto neanche la metà del lavoro che ho fatto io".

"Senti, pulce!".

Come si permetteva quell'esserino, che non era neanche in grado di cavarsela senza avere vicino l’angelo custode - Yeager?

Il piccolo gli rispose con un'occhiata indecifrabile: per quanto potesse essere espressivo il suo volto, c'erano momenti in cui comprendere cosa pensasse si rivelava tutt'altro che semplice.

Tuttavia, ebbe l'impressione di intravedere un fondo di tristezza.

Si impose di smettere di fissarlo: gli procurava una strana sensazione all'altezza del petto e una mollezza che si diramava dagli arti inferiori.

"Sono un cretino" pensò. 

Poi sbuffò e smanettò tra le scartoffie con mosse nervose:

"E va bene, diamoci da fare!".

"Così finirai per disperderle, le mischi con quelle che sto sistemando io e triplichiamo il lavoro".

Sbatté le mani sul tavolo e si alzò in piedi, quasi volesse saltarci sopra per raggiungere il ragazzino dall'altra parte:

"La vuoi smettere?!".

"Cosa intendi?".

"Sei una piccola peste, petulante e saccente! Se ci fossero Connie o Sasha a fare questo lavoro con me, almeno mi farei qualche risata!".

Si era già pentito e aveva riportato lo sguardo altrove quando lo raggiunse, più dimessa e sottile che mai, la voce di Arlert:

"Scusami…".

Lo scrutò di sottecchi, ma Armin non lo stava guardando, teneva il volto basso e le mani in movimento, in apparenza tutto concentrato sul lavoro.

Ma Jean percepì qualcos'altro. 

Di nuovo, quel senso di languore si impossessò del suo corpo.

Si impose di ignorarlo e, con un grugnito, anche lui si rimise all’opera.

Passarono altri lunghi momenti, intervallati da sbadigli e sospiri generati da noia e stanchezza. Momenti durante i quali Jean si rifiutò categoricamente di concedere qualunque tipo di attenzione a quel bizzarro compagno con il quale Hanje lo stava costringendo a collaborare. 

Non che gli fosse antipatico…

Non gli era mai stato antipatico.

Eppure, spesso non poteva fare a meno di mostrarsi sgarbato nei suoi confronti, senza sapersi spiegare cosa lo infastidisse a tal punto.

La risposta si presentò insieme a un pensiero che lo colse del tutto alla sprovvista:

"Eren… è lui che ti infastidisce. È quel loro essere sempre così appiccicati. Eren che neanche si accorge della fortuna che ha ad avere tante attenzioni da parte di Mikasa e sembra vivere solo per Armin".

Era questo, quindi?

Era arrabbiato per Mikasa?

Eppure…

"Eren che, senza meritarlo, è tanto adorato da questi due per i quali tu faresti carte false!".

Sobbalzò.

C'era qualcosa che non andava…

Per questi due?

Certo… 

Per Mikasa…

Cosa c'entrava Armin?

Il viso si sollevò lentamente verso quel ragazzino che, di colpo, fu come una calamita. 

Se c'era una cosa che aveva capito di Armin, si trattava del fatto che non si lamentava mai.

Era tra quelli che affrontava con maggior difficoltà le loro giornate scandite dal duro regime militare, eppure non tentava di sottrarsi, non chiedeva aiuto e non mostrava alcun atteggiamento vittimista. 

Tuttavia, per lui era davvero difficile, il suo fisico fragile spesso non rispondeva ad una volontà fin troppo ferrea e doveva arrendersi alla malattia, alla stanchezza, all'esaurimento del corpo e della mente.

Era forse proprio quell'incrollabile coraggio, che non cedeva a causa di una fin troppo evidente fragilità, a spingere gli altri a volerlo proteggere, nonostante tutto.

Anche Jean lo faceva, perché mentire a se stesso? 

Non poteva farne a meno.

Pure in quel momento, alla vista di quegli occhi che si ostinavano a restare aperti, ma che con ogni evidenza desideravano chiudersi, il primo istinto di Jean sarebbe stato quello di andare a prenderlo in braccio per portarlo a letto.

Si strofinava gli occhi, cercava di soffocare gli sbadigli e, quando si pizzicò una guancia e si diede uno schiaffetto per tenersi sveglio, Jean si ritrovò a sorridere, poggiò il viso sul palmo della mano e rimase a contemplarlo, suo malgrado: era impossibile negarlo, ne era attratto, per quanto non comprendesse in che modo, di quale genere fosse tale attrazione.

"Ma quant'è carino" cinguettò una vocina dispettosa nella sua testa. 

In un altro momento, l'avrebbe messa a tacere con stizza, ma…

Non ne aveva voglia.

"Sto bene" pensò. "Sto bene qui, vicino a lui, a guardarlo…".

A coccolarlo con lo sguardo per essere precisi.

Fece una scommessa con se stesso: quanto ci avrebbe messo, Armin, a cedere al sonno?

"Uno…" cominciò a contare mentalmente. "Due… tre…".

Il volto di Armin era sempre più ciondolante, le dita sui fogli avevano una presa sempre più incerta finché, quando Jean arrivò al dieci, il foglio scivolò e la guancia di Armin si adagiò sul braccio appoggiato al tavolo, mentre l'altro braccio oscillò verso terra, privo di sostegno.

"Il sonno ha vinto" ridacchiò Jean tra sé. 

Si alzò, girò intorno al tavolo e si acquattò accanto alla sedia di Armin, portando il volto all'altezza del suo e rimase così, pensieroso, a guardarlo senza fare nulla per un po'.

"Facevi tanto il forte… e ora guardati…".

Non aveva più smesso di sorridere e il sorriso si accentuò, alla vista della bocca di Armin rimasta aperta sotto quel nasino sempre arrossato e dalla forma decisamente buffa.

Avvicinò ad esso il dito, ma si fermò prima di toccarlo: gli dispiaceva l'idea di sottrarlo al sonno.

Però, cosa avrebbe dovuto fare? 

C'era ancora tanto lavoro e di finire tutto da solo non se ne parlava. 

Sospirò, il sorriso svanì, sostituito dal senso di colpa, quando posò la mano sulla spalla di Armin con l'intenzione di scuoterlo.

Ma, nel momento in cui giunse a toccarlo, il suo corpo venne attraversato da un brivido.

I loro visi erano vicinissimi e quello di Armin era grazioso… davvero tanto grazioso.

Jean non aveva mai fatto del tutto i conti con la propria sessualità. 

Fin da bambino aveva sognato la sua donna ideale, la disegnava di nascosto con materiale di fortuna.

Poi era comparsa Mikasa, l'ideale che si manifestava davanti ai suoi occhi in tutta la perfezione possibile. 

In seguito, nella sua vita era piombato Marco, quel legame così intenso da mettere in crisi tutte le sue certezze. Aveva cercato di negare quel che provava finché, un giorno, si erano amati in maniera così intensa da ritrovarsi a piangere l'uno nelle braccia dell'altro.

Perdere Marco aveva significato perdere una parte di sé che era diventata, a tutti gli effetti, quella più importante. 

Eppure, un lato di lui continuava ad essere cieco, a definire disgustoso il legame eccessivo tra Eren e Armin.  

Avrebbe dovuto ammettere che, allo stesso modo, lui e Marco erano stati disgustosi? 

Mai e poi mai.

E allora…

Allora era tutta una costruzione mentale per non ammettere la propria gelosia.

Perché avrebbe voluto avere ancora Marco accanto a sé, come Eren aveva Mikasa e Armin…

Due persone così speciali…

Mikasa l'ideale, Marco l'amore in carne ed ossa…

E Armin?

Cos'era Armin?

Cos'era, per lui, quell'adorabile piccola peste, talmente piccolo che, lì seduto, a stento i piedi toccavano terra? 

Erano quasi coetanei, ma al suo confronto Armin sembrava un bambino.

Dalla spalla, la mano di Jean si spostò sulla tempia e raccolse tra le dita una ciocca di capelli.

"Che razza di pettinatura" borbottò. 

Armin arricciò il naso, mormorò qualcosa, ma non si svegliò. 

Le labbra di Jean si piegarono in un nuovo sorriso, mentre si chiedeva cosa stesse sognando. 

Sperò si trattasse di qualcosa di bello…

Se solo fosse stato possibile, per loro, sognare qualcosa di bello.

Armin parlava sempre di quel sogno assurdo che chiamava mare e sembrava crederci davvero.

"Sogna il tuo mare" sussurrò Jean. "Per una volta non sognare sangue, membra dilaniate e giganti. Sogna il tuo mare".

Fece una smorfia, messo a disagio da se stesso: che razza di sentimentale stava diventando? 

Era questo, quindi, Armin per lui?

Tirava fuori quel suo lato mellifluo?

"Che schifo" borbottò. 

Ma dannazione, quant'era carino!

E quanto erano ancora vicini i loro volti!

"Vorrei portarti via da tutto questo… vorrei salvarti, come avrei voluto salvare Marco".

Mentre lo sussurrava, il respiro delle labbra soffiava sul viso di Armin.

La bocca del ragazzino era lì, bastava solo un impercettibile movimento per toccarla con la propria.

Jean ormai lo sapeva: se fosse rimasto ancora così vicino, non sarebbe più riuscito a tornare indietro.

No, non ci riusciva più: era già troppo tardi.

Quelle labbra semiaperte erano invitanti, gli sembravano così dolci mentre, nel sonno, tremolavano un po', quasi a chiedere attenzione.

"Macché attenzione" si rimproverò Jean. "Sono tutte scuse, mi sto suggestionando da solo. E comunque, se davvero chiedessero attenzione, non sarebbe certo la mia".

La sua coscienza lo metteva in guardia, ma il suo corpo agiva in completa autonomia.

Le labbra si posarono su quelle di Armin, un lieve sfiorarsi seguito da un bisogno più pressante: erano morbide, si mossero un poco come in risposta, quelle di Jean desiderarono di più e il contatto si fece più deciso.

Jean chiuse gli occhi, ma il sussulto di Armin lo costrinse a riaprirli e ad incrociare i suoi, fin troppo svegli, enormi, il capo sollevato dal tavolo e ogni parte del corpo nell'atto di fuggire.

Jean si ritrasse e si mise in piedi con una foga tale che faticò a controllare il proprio equilibrio, mentre Armin seguiva ogni suo movimento con espressione sconvolta.

"Scusami… non so cosa mi sia preso, davvero… non…".

Balbettava, non osava ricambiare lo sguardo e i suoi occhi vagavano ovunque.

"Jean...".

Era evidente che Armin volesse dire qualcosa, aveva bisogno di risposte, voleva capire.

Come dargli torto?

Eppure anche Jean voleva capire: neanche lui era in grado di rispondere a se stesso.

Fu in quel momento che la porta si aprì e una voce sovrastò la confusione di entrambi: 

"Hanje, posso?".

Seguì un istante di immobilità assoluta.

Il comandante Erwin Smith li fissava con aria stranita e loro due ricambiavano quello sguardo, ancora storditi da ciò che era appena accaduto tra loro e incapaci di dare un senso al nuovo scenario che si stava presentando. 

Armin fu il primo a rendersi conto, di colpo, della situazione.

Saltò giù dalla sedia, incespicò e si sorresse al tavolo per non cadere:

"Buonasera, comandante!".

“Scusatemi, io…”. Erwin sollevò le sopracciglia, portò una mano dietro la nuca e apparì imbarazzato lui stesso. “Credevo di trovare Hanje”.

Jean avrebbe ghignato se il senso di disagio non fosse stato ancora padrone delle sue reazioni.

“No, è che…”.

Armin stava cercando le parole adatte a giustificare la loro presenza in quel luogo: probabilmente, temeva di fare un torto alla caposquadra che li aveva imprigionati lì dentro e Jean si chiese perché dovesse preoccuparsi tanto per qualcuno che, nei loro confronti, non aveva mostrato le medesime premure.

Erwin alzò gli occhi al cielo, fece uno sbuffo e poi avanzò verso di loro:

“Ho capito. Credo di aver capito”. 

Quindi scosse il capo, allargò le braccia con rassegnazione e si fermò davanti ad Armin, sovrastandolo con la sua notevole altezza. 

Persino Jean, che basso non era, di fronte a lui si sentiva minuscolo: Armin era come una formichina al cospetto di un gigante, e guardava quel gigante dal basso con un’adorazione palpabile, era impossibile non notarlo.

“Mi dispiace, ragazzi. Dovreste essere a riposare, non qui a compiere lavori che spettano ad altri”.

“Dillo a noi” pensò Jean, tenendo ovviamente per sé la considerazione, mentre Armin arrossiva fino alle orecchie.

“D’accordo” soggiunse il comandante. “Il lavoro è finito, non c’è nessuna fretta in fondo. Potete andare a dormire”.

“Ma noi…” cercò di obiettare Armin e Jean avrebbe voluto mollargli un calcio negli stinchi per farlo tacere.

Ci pensò invece Erwin Smith a bloccare sul nascere ogni obiezione:

“Non preoccuparti, ad Hanje parlerò io”.

“Ma non è un problema…”.

“Come non è un problema?” avrebbe volentieri urlato Jean. Quello scricciolo aveva velleità da masochista, ma Jean no! 

Che parlasse per sé!

Erwin ridacchiò e, come fosse la cosa più naturale del mondo, posò una mano sulla testa di Armin e gli arruffò i capelli. 

A Jean venne da sorridere, Armin richiamava gesti del genere persino dai superiori: non era difficile comprendere perché.

“Stai tranquillo, Arlert. Non la punirò per aver disobbedito ai miei ordini, la lascerò vivere”.

Il rossore del ragazzino, sulla pelle bianca, spiccava con particolare intensità.

Abbassò lo sguardo e non seppe più cosa replicare.

“Adesso vi voglio fuori di qui, raggiungete i vostri compagni e fatevi una bella dormita”.

Jean chinò il capo in segno di rispetto:

“Grazie, comandante”.

Afferrò Armin per un braccio e se lo trascinò dietro, mentre questi balbettava a propria volta un ringraziamento e augurava una timida buonanotte al loro superiore.

 

Camminarono in silenzio per parecchi minuti.

Armin si teneva un po’ indietro rispetto a Jean, l’imbarazzo tra loro era palpabile.

Jean si chiedeva se avrebbe dovuto dirgli qualcosa: forse era logico, dopotutto lo aveva baciato mentre dormiva, cogliendolo in un momento di vulnerabilità. 

Armin doveva essere furioso, anche se non lo dimostrava.

Furioso, imbarazzato, o che altro?

“Jean?”.

Si voltò al richiamo, senza sapere cosa aspettarsi.

Armin si era fermato e lo guardava, nella penombra del corridoio con la sua illuminazione soffusa.

Era serio e gli occhi sembravano lucidi: Jean si chiese se si trattasse di un gioco di luce o se era un lucore che veniva da dentro, da un pianto trattenuto o da chissà quale emozione.

Il cuore di Jean prese a battere all’impazzata e, in quel momento, avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro luogo, ma non lì, solo con Armin, che lo interrogava con quell’espressione, che sembrava volergli affondare quegli occhi un po’ persi, un po’ indagatori, un po’ taglienti, fino in fondo all’anima.

Naturalmente non poteva scappare: lui aveva agito, lui doveva prendersi le responsabilità di quel che aveva combinato e che non sapeva spiegare neanche a se stesso.

“Perché l’hai fatto?”.

Ecco…

Appunto…

Perché?

Cosa rispondere?

Scosse il capo, sbuffò, cercò una via di fuga che non esisteva.

Alla fine si rassegnò a dire la prima cosa che gli venne in mente:

“Non lo so, Armin… davvero… non lo so”.

Non osava guardarlo nel frattempo, ma la voce di Armin lo obbligò ad un nuovo incontro di occhi e di reciproca confusione:

“Per prenderti gioco di me?”.

Quello non se lo aspettava.

“Cosa?”.

Lo sputò fuori con fin troppa energia.

“Per dimostrare a te stesso e forse anche a me quanto io sia facilmente raggirabile, quanto non sia degno di essere trattato come un uomo?”.

Armin continuava, implacabile e, sull’ultima parola, furono i suoi occhi a fuggire, la testa si reclinò su una spalla e sembrò ancora più piccolo:

“D’altronde è così… per molti è così… io non servo a niente, se non ad essere un giocattolino con cui sfogarsi a piacimento”.

“Armin!”.

Urlò il suo nome facendo tremare il silenzio della notte e provocando un tremito anche nel piccolo, che risollevò il viso e gli puntò di nuovo gli occhi contro, ora pieni di stupore.

Forse aveva ragione, non c’era niente da spiegare: c’era solo da capire, ormai, non era giusto costringere Armin a tirare fuori qualcosa che, evidentemente, per lui era un’ennesima fonte di dolore e umiliazione.

Capire…

Capire ciò che quelle poche parole sfuggite al ragazzino avevano reso sufficientemente chiaro: ad Armin era stato fatto del male in modi che chi gli era più vicino, forse, non era stato in grado di immaginare.

Una cosa era certa, tuttavia e Jean desiderava dimostrargliela in quell’occasione.

Gli mise una mano sotto la nuca e lo attirò verso di sé, prima di abbracciarlo con forza:

“Io non volevo farti del male con quel bacio, Armin… non vorrei farti del male in nessun modo e ti chiedo di perdonarmi”.

Lo sentì rabbrividire nel suo abbraccio, la rigidità iniziale lasciò, lentamente, il posto ad un rilassarsi delle membra, sembrò sciogliersi nella stretta. Infine sollevò a propria volta le braccia e circondò il busto di Jean.

“Scusami”.

Lo disse in un singhiozzo sottile, soffocato contro il suo petto e l’istinto di Jean fu quello di accentuare la stretta. 

Si scoprì restio a lasciarlo andare, trovò in sé quel bisogno che si faceva sempre più urgente: proteggerlo…

Salvarlo… 

Salvare lui come non era riuscito con…

Scosse il capo, a propria volta trattenne un singhiozzo, affondò il naso nella nuvola di capelli biondi.

Si impose di riprendere il controllo prima di rispondere:

“Sei tu che devi scusarmi… essere assurdo che si sente sempre in colpa per tutto”.

Questo di lui l’aveva capito: Armin era incapace di volersi bene e di dare il giusto valore alla propria persona.

“Ho esagerato” borbottò Armin, la voce ancora ovattata dal petto di Jean. Poi sollevò il capo e tentò di divincolarsi, con calma, dall’abbraccio del compagno, che tuttavia oppose resistenza. Jean non si sentiva ancora pronto a lasciarlo andare. 

E quegli occhi azzurri come un cielo senza nubi, grandi quanto grande poteva essere quel cielo, lo rapirono, lo fecero smarrire nella loro vastità.

“Jean… dimentica quello che ho detto… davvero… non so cosa mi sia preso e perché mi sia espresso in quel modo… non lo so…”.

L’espressione, per quanto triste, era piena di dignità, ma la voce era quella di un pulcino appena nato e Jean non si capacitava di tutte le contraddizioni che coesistevano in lui: un’anima complessa, tormentata, vasta come poteva essere il mondo fuori delle mura e quell’oceano che tanto sognava, in un corpo minuscolo che sembrava non voler crescere.

"Mi basta che ricordi una cosa, Armin… ".

Lo allontanò da sé, mantenendo le mani sulle sue spalle e trovando finalmente il coraggio di sostenere il suo sguardo: 

"Quello che ho fatto non aveva intento canzonatorio, né crudele… io ho tanti difetti, ma non sono un bastardo… non in questo senso".

Armin deglutì, strinse i denti, si vedeva che stava trattenendo il pianto. Abbassò il viso e i pugni si serrarono lungo i fianchi.

Jean avrebbe voluto accarezzare quella guancia pallida, ancora così liscia che sembrava non aver mai lasciato l'infanzia. Ma qualcosa lo tratteneva: forse imbarazzo, o pudore, o un insieme delle due cose, con in più il timore di fare ancora qualcosa che potesse ferirlo.

"Non l'ho mai pensato, davvero… scusami… so che sei una bella persona".

Armin e i suoi discorsi sulle belle persone…

C'era una certa saggezza nelle sue osservazioni sul mondo e sulla natura umana: se ne partiva con discorsi che potevano suonare ingenui ad un primo ascolto, ma che in realtà erano frutto di una matura consapevolezza. Armin rifletteva profondamente su ogni cosa e sapeva osservare azioni e reazioni con lucidità. 

E, nonostante questo, restava vulnerabile e fragile. 

"Sono una persona contorta".

Le sopracciglia di Jean si inarcarono: pareva aver ascoltato i suoi pensieri e aver risposto ad essi.

Jean contemplò quel viso rintanato tra le spalle, la frangia troppo lunga che non mostrava gli occhi tenuti bassi, i piccoli pugni ancora chiusi lungo i fianchi. 

La mano di Jean ne raggiunse uno, lo avvolse e ne percepì i tremiti.

L'altra mano si posò sulla guancia di Armin che, colto di sorpresa da quel nuovo gesto tanto intimo del compagno, sollevò il viso e lo fissò, cercando ancora risposte.

E la risposta di Jean stupì egli stesso:

"Sei irresistibile… per questo, mentre ti guardavo dormire, ho ceduto… non volevo spaventarti, non volevo giocare con te. Volevo… sentirti".

Le labbra di Armin tremolarono un po' prima che la voce trovasse la propria strada:

"I… irresistibile…".

Deglutì e lo sguardo sfuggi di nuovo a terra.

"Grazie… Jean".

Il più grande si morse il labbro, tossicchiò, guardò altrove anche lui e si portò una mano alla fronte: si stava rendendo conto di quanto si fosse spinto in là e le implicazioni di ciò che stava accadendo tra loro avevano preso una piega che, da quel momento, sarebbe stata difficile da districare.

Di nuovo, Armin sembrò leggergli nel pensiero:

"Jean… senti… so che può sembrare fuori luogo chiedertelo, ma…" si bloccò, come se dovesse riprendere fiato dopo una lunga apnea. "Ti prego, non dire niente…".

"A Eren…" a Jean sfuggì un sorriso, ma lo percepì amaro sul proprio volto. "Lo so, Armin, non preoccuparti. Comunque è stata colpa mia, tu non devi rimproverarti nulla".

"Ne… neanche tu…".

Lo disse, sussultò con le guance in fiamme e gli occhi, per un momento visibili a quelli di Jean, furono ancora in fuga.

Jean sbatté le palpebre e grugnì tra sé: situazione complicata… davvero troppo complicata.

E da rimandare a data da destinarsi.

Con un sospiro, affondò la mano tra i capelli di Armin, in quel gesto che già poco prima aveva visto fare ad Erwin e del quale si era sentito un po' geloso.

"Andiamo a dormire adesso… o davvero domani io… qualcuno… ti dovrà di nuovo raccogliere".

















 
   
 
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