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Autore: drisinil    21/09/2022    2 recensioni
[kurotsuki] [nospoiler] [canonverse] [long: 2 capitoli/settimana]
«Signor è-solo-un-club sei senza parole?» lo provoca Kuroo. «Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!»
«Okay, ma solo se il brindisi mi piace» risponde Kei con arroganza, spingendosi gli occhiali sul naso.
Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»
«Se vuoi...»
Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di scostarsi dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, crea pressione e controlla il gioco.»
Kei sorride, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto.
E' il vino più buono che abbia mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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15 - Stupidi e bugiardi


25 settembre 2006 

«No, non c'è» sta dicendo Akiteru al telefono.

Kei, mentre legge disteso sul tappeto in camera sua, sente distintamente la voce del fratello dal piano di sotto. Mamma e Aki non si sono mai accorti che il posto in cui si trova la basetta di ricarica del telefono, una specie di nicchia fra le scale e la cucina, ha uno strano effetto acustico: se parli da lì, si sente in tutta la casa.

Papà lo sa, invece. Evita sempre di fermarsi lì quando è al telefono, o quando parla con mamma. Non può essere per caso: papà non fa mai niente per caso.

«Sul serio? Ma gli avevi detto...»

A Kei piace cercare di indovinare chi c'è dall'altra parte e cosa dice. Si immagina che sia qualche compagno di scuola, magari qualcuno della nuova squadra di pallavolo. Vorrebbe sapere di più di quello che fa Aki quando non è a casa. Prima gli raccontava tutto e giocava con lui molto spesso.

Adesso non ha tempo. Passa a scuola tutto il giorno e la sera deve studiare. Ma Kei è sicuro che, alle superiori, succedano cose fantastiche da grandi e Aki non abbia voglia di condividerle con un bambino. Un po' lo capisce, ma gli dispiace lo stesso.

Kei adora il fratello. Spesso si trova a pensare che vorrebbe essere un po' più Aki e un po' meno Kei. Aki fa subito amicizia, è bravissimo nello sport, piace a tutti, sempre, senza doversi sforzare di tenere la bocca chiusa o di sorridere. E' come se sapesse sempre cosa dire agli altri per piacergli. Certo per le cose di scuola è meglio essere Kei, che Aki.

«No! Non glielo voglio dire io!» protesta Aki nel microfono.

Fa ridere, come parla. La voce ultimamente gli è diventata gracchiante. Perfetta per la scuola superiore dove si è iscritto: Karasuno, i corvi.

«Non è giusto! No! Non lo faccio e basta! Lo fai tu!» Sta urlando, ma con la voce soffocata, come se non volesse farsi sentire. Il che è inutile, perché da dove si trova si sentirebbe anche se stesse bisbigliando.

«Kei! Scendi!» urla, a piena potenza dei polmoni. «C'è papà al telefono che ti vuole parlare.»

Regola numero uno: non bisogna mai fare aspettare papà, visto che è molto occupato. Kei si precipita giù per le scale e strappa al fratello il telefono.

«Ciao papà.»

«Ciao, Kei. Come va, piccolo?»

«Non sono piccolo!» protesta. «Sono alto centocinquantadue centimetri. E mezzo. E sto per compiere dieci anni.»

«Quanti mesi? Quanti giorni? Quante ore?»

E' il loro gioco. A Kei piace fare calcoli a mente e a papà piace che lui li faccia.

«Centoventi mesi. Tremilaseicentocinquanta giorni. E...Ottantasettemilaseicento ore! Col dieci è facile!»

«Troppo facile! Non hai pensato abbastanza e sei caduto in pieno nel mio tranello, Keicchin.»

Kei riflette, ricalcola le moltiplicazioni, che sono facilissime, e non trova nessun errore. Purtroppo, è impossibile che si sbagli papà.

«Pensaci bene. Vuoi un aiutino?»

«No, aspetta... faccio da solo»

Kei riflette febbrilmente, ma non ci arriva.

«Ti stai agitando, Kei. Le emozioni non aiutano mai. Pensaci con calma.»

Kei prende un respiro, cerca di svuotare la mente e concentrarsi. Ma è difficile, con papà che aspetta dall'altra parte del telefono.

«Quanti giorni ha febbraio, Keicchin?»

«Ventott...» Kei allarga gli occhi. La risposta è una folgorazione attorno alla quale il suo cervello lavora alla velocità della luce. «Sempre centoventi mesi, ma Tremilaseicentocinquantadue giorni. E...Ottantasettemilaseicentoquarantotto ore! »

«Bravissimo!» Papà ride. A Kei piace sentirlo ridere, perché non succede tanto spesso. «E un ragazzo così alto e così intelligente non mangia le zucchine?»

Mamma deve aver fatto la spia. Kei ha capito di recente una cosa, del mondo dei grandi, che quando i discorsi si fanno spinosi, bisogna cambiare subito argomento. «Senti, papà, quando arrivi domani? Mattina o sera? Ce la fai a venire a vedere la mia partita? E' alle cinque.»

Kei è molto fiero di giocare a pallavolo. Un po' perché è lo sport che fa anche Aki, un po' perché gli piace molto essere alto e fare qualcosa che solo la gente alta può fare bene, tipo saltare a muro e schiacciare. Yama è un tappo e non riflette mai abbastanza prima di fare le cose, ma forse prima o poi crescerà, perché ha dei piedoni enormi. 

Domani, in partita, giocheranno entrambi come titolari.

«Non posso venire domani, Keicchin. Mi dispiace.»

Kei fa un respiro, per ingoiare la delusione. «Allora ci vediamo direttamente a Sendai dopodomani?» Nella sua voce bianca brilla ancora una fiammella di speranza.

«Non ce la faccio proprio. Mi dispiace tanto, davvero piccolo. Tornerò fra una decina di giorni, magari ci andiamo allora, a Sendai.»

«Ma papà... »

«Niente ma, Kei. Ho un buon motivo. Non credi? Non credi che dispiaccia anche a me?» La voce di papà è diventata fredda e dura. Sembra una superficie di ghiaccio su cui scivolare è facilissimo.

«Ci credo. Ma... » la vocina di Kei ora suona lamentosa.

«Ancora un ma? Vuoi farmi sentire in colpa? E' poco nobile, da parte tua, Keicchin.»

«No! Ma...»

Si sente il suono di un lungo sospiro rassegnato. «Coraggio, dai. Sentiamo questo ma... »

«Ma lo avevi promesso! E' il mio compleanno!»

«Non posso rispettare la promessa, perché sono cambiate le condizioni al contorno, Kei. Lo sai, vero, cosa significa?»

«Che non te ne importa del mio compleanno.»

«Non essere illogico come tua madre e tuo fratello. Significa che il calcolo che avevo fatto quando ho promesso non vale più, perché le premesse sono cambiate. Quindi il risultato è cambiato.»

E' una faccenda strana, ma quando le cose lo colpiscono, Kei prova una bizzarra sensazione, come di distacco. Più duro è il colpo, più lui si ritrova lontano, a rifletterci sopra senza farsi davvero toccare, o almeno senza darlo a vedere. E quindi, anche se sente dolore o paura, invece di disperarsi (come Yama), o di estraniarsi(come mamma), o di spaccarsi le mani prendendo a pugni le porte (come Aki) gli sembra di riuscire a pensare più velocemente. Di essere più lucido.

«Se ragioni così, otosan, nessuna promessa vale mai. Perché le cose possono sempre cambiare. E' questo il senso delle promesse, che quando le fai tieni conto anche degli imprevisti.» Anche la voce infantile di Kei ora è fredda. Non si rende conto di quanto il tono somigli a quello del padre.

«E' un buon ragionamento Kei, te lo concedo. Ma alcune cose hanno un peso maggiore di altre.»

«Che vuoi dire?»

«Che se devo tenere conto degli imprevisti, devo mettere nel mio calcolo una variabile che li rappresenta e dargli un valore ipotetico. Mi segui?»

«Sì. Visto che sono imprevisti, non li prevedo e devo indovinarli.»

«Esatto. E più il valore che gli do nel mio modello è piccolo... »

«Meno imprevisti sto considerando» borbotta Kei fra i denti, assestando piccoli calci ritmici al tavolino che ha di fronte.

«Bravo. Oppure ne considero molti, ma di piccola entità. Che pesano poco sul risultato.»

«Mn» Kei sta seguendo. Però quello che davvero pensa è che tutti i suoi piani per il compleanno sono distrutti. Niente museo di storia naturale di Sendai. Niente negozio di modellini. Niente parco della scienza, che mercoledì prossimo chiude e chissà se torna l'anno prossimo.

«Io ho avuto un solo imprevisto, che però pesa tantissimo. Se dovessi metterlo tutte le volte nel calcolo, non riuscirei mai a fare una promessa. Mi capisci?»

«Capisco benissimo. Quello che stai dicendo, in pratica, è che il mio compleanno vale meno del tuo imprevisto» conclude Kei. 

Dall'altra parte, si sente un lungo silenzio. Che vale come assenso. Kei dà al tavolino un calcio più forte e lo rovescia, insieme a una statuetta di legno a forma di elefante, a una candela profumata e a una pianta grassa. La terra si spande sul pavimento e sui calzini bianchi di Kei.

«Il tuo regalo lo ha la mamma.»

«Il mio regalo era andare a Sendai dopodomani. Con te.»

«Mi dispiace molto, Kei. Però ho un'altissima stima di te e penso che tu sia abbastanza maturo da capire.»

«Ho solo nove anni. E forse sono troppo stupido, perché invece non capisco. Ho capito solo che le tue promesse non valgono...» Kei esita, «... un cazzo.»  Papà odia le parolacce. Neanche a Kei piacciono, ma ha già imparato che come arma funzionano benissimo.

«Linguaggio, Kei.» Non si arrabbia mai. Diventa solo più freddo.

Anche Kei sta imparando. «Che c'è? L'ho pronunciato benissimo: cazzo.»

«Detesto quando ti comporti da stupido. Non voglio parlare con gli stupidi.»

«Io non voglio parlare con i bugiardi. Quindi forse è meglio se non parliamo.»

«Parliamone, invece, ma quando ti sarai calmato.»

«Sono calmissimo. Ma tu resti bugiardo.»

«Smettila, Kei.»

«Altrimenti che mi fai? Vieni a mettermi in punizione? Ah, già, non vieni. Che peccato.»

«Kei, smettila subito.»

«La smetto. Vado a giocare. Ciao.»

Kei chiude il telefono prima di sentire la risposta. Si asciuga una lacrima traditrice. Non lo capisce bene, ma è di rabbia, più che di tristezza.

«Mi dispiace tanto, piccolo» dice Akiteru, alle sue spalle, allargando le braccia.

Kei guarda quel gesto come se non lo capisse, finché le braccia del fratello non si abbassano, lentamente.

«Perché ti dispiace? E' il mio compleanno, non il tuo.»

«Ti ci porto io, a Sendai. Prendiamo il treno. Magari chiediamo a Yama se vuole venire con noi, che ne dici?» propone Aki, scompigliandogli i capelli.

Kei sospira. «Portare Yama al museo di storia naturale è come portare mamma a vedere un film di fantascienza. O te a lezione di ballo.»

Akiteru ride di gusto. «Sei uno spasso, Keicchin.»

«Papà mi ha appena dato dello stupido.»

«Con me non lo fa mai, lo sai perché?»

«Perché tu piaci a tutti più di me. Anche a nostro padre.»

«Perché pensa che io lo sia veramente.»

In un'intuizione superiore alla sua età, Kei capisce che quel che dice suo fratello è vero. Aki non è stupido, per niente. Ma non è intelligente nel modo in cui papà intende la parola.

«Credo che non gli interessi niente di noi, Aki.»

«Credo che faccia un lavoro molto importante.»

Akiteru odia difendere il loro padre, ma più ancora odia che Kei si senta poco amato, o si dia delle colpe. E detesta vederlo triste. Kei è la bella copia di papà e Akiteru è determinato a fare in modo che le somiglianze si fermino all'aspetto e al quoziente di intelligenza. Per tutto il resto, Kei è diverso: è sensibile, è onesto, sa essere affettuoso, anche se non sarà mai estroverso.

«Sai, Aki? Non me ne frega niente se lui viene o non viene» mente Kei, spavaldo.

«Per questo il cactus di mamma è in agonia sul pavimento?»

«Si è suicidato» risponde Kei. «Se sei cactus non ti resta neanche l'onore del seppuku, puoi solo buttarti di sotto» risponde, mentre torna dallo sgabuzzino con la scopa in mano.

Akiteru dubita che Kei si renda conto di quanto è divertente sentirgli dire certe cose con quel tono serio e l'espressione indisponente dietro gli occhiali colorati. Però è anche un po' inquietante quanto riesca a essere cinico alla sua età.

«Hai bisogno di aiuto?»

«Posso fare da solo.»

Sembra ieri che non riusciva a scollarselo di dosso e l'altro ieri che lo portava in braccio e gli cambiava il pannolino. Quello che ci vuole, più tardi, è un'intensa sessione di solletico, prima che decida di essere diventato troppo grande.

***

Kei non si è assicurato che anche dall'altra parte avessero chiuso la comunicazione. Seduto alla scrivania del suo ufficio, Tsukishima Leon ascolta la conversazione fra i suoi figli, che arriva lontana, come fossero su un altro pianeta. E forse è così.

Si toglie gli occhiali e si soffia il naso.

Qualcuno entra e gli chiede come è andata, se il figlio l'ha presa molto male.

Naturalmente l'ha presa molto male, ma invece Leon risponde che è andata bene, che Kei è molto maturo per la sua età. 

Mentre chiama l'ascensore per raggiungere la sala riunioni per le emergenze meteo, al primo piano, Tsukishima Leon si chiede come è potuto succedergli di essere diventato identico al proprio padre, quando aveva giurato a se stesso che non lo avrebbe mai permesso.

«Leon, se fossi davanti a uno scambio ferroviario e da una parte ci fossimo io e la tua mamma e dall'altra tutto il resto della città, chi salveresti?»

«Mamma e papà!»

«Pensaci bene, Leon. Te lo chiedo in un altro modo. Manderesti il treno a uccidere due persone soltanto o molte migliaia?»

   
 
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