Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: innominetuo    23/09/2022    7 recensioni
Essere medico in un reparto militare composto da potenziali martiri non dev’essere di certo una passeggiata. Meti questo lo sa bene.
Ma si sa: ci sono vocazioni e vocazioni, non sono tutte uguali.
Alcune sono un po’ più folli e disperate di altre.
Ma può andar bene… anche così.
(Questa fanfiction è scritta per puro diletto e senza scopo di lucro alcuno, nel pieno rispetto del diritto d'Autore)
N.B. La presente fan fiction è pressoché ultimata, ragion per cui le pubblicazioni saranno - salvo imprevisti di varia natura - regolari e nel fine settimana.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Cuori in volo'
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(This image is from a google search, no copyright infringement intended)


 
Si fissarono per qualche istante. Non era facile, per nessuno dei due.

«Alphaia.»

«Padre.»

«Come inizio non è male. Ma potremmo fare di meglio, non credi?» le sorrise con dolcezza.

Lei annuì. Si lasciò condurre ad una saletta laterale, tranquilla e silenziosa. Si sedettero su un divanetto. L’imbarazzo e la tensione erano palpabili, ma anche molta emozione. Timidamente, il vecchio conte posò la mano su quella della figlia, appoggiata sulla seduta del canapè, per stringergliela forte.

«Sono felice di vedere che stai bene, sono sempre stato in pensiero per te… mai una parola, figlia… mai …» lacrime silenziose gli rigarono il volto, appassito ma ancora bello.

Meti non riusciva a piangere: era come se le lacrime le si fossero congelate dentro. Ma non ritrasse la mano. Chinò il capo, sotto il peso della colpa. Quando finisce lo spirito di ribellione ed inizia l’ingratitudine?

«Mi dispiace.» mormorò. Non riuscì a dire altro. Si sentiva stringere il cuore in una morsa.

«Dobbiamo rivederci. Ma a casa nostra. Qui ci sono troppe orecchie. Sarà possibile per te avere una licenza?»

«Certo… da anni non ne chiedo una. Me la accorderanno di sicuro!»

Goram sorrise, sollevato. «Ne sono contento… così potremo stare un po’ insieme… Dimmi: sei… sei felice? So che anni fa sei rimasta vedova.»

«Come lo sai? Mi hai fatto spiare?» sbottò lei, ritrovando l’antico spirito ribelle dei suoi diciott’anni.

Il padre la guardò con infinita tenerezza: eccoli di nuovo a discutere, come diversi anni prima. «Esatto. Non ti ho mai persa di vista, figlia mia. Sono sempre riuscito ad avere qualche notizia, su di te.»

Lei lo scrutò, provando una fitta al cuore nel vederlo così dimagrito, invecchiato, incurvato. Un giorno l’ordine naturale delle cose glielo avrebbe portato via per sempre. La sua intransigenza giovanile l’aveva resa dura e cattiva verso un padre che aveva solo cercato di fare il meglio per lei, anche se secondo antiche e sorpassate convenzioni sociali. Dopo tutto, i matrimoni combinati erano la regola, nel ceto sociale degli aristocratici: suo padre aveva semplicemente osservato delle usanze ormai consolidate, credendo di fare la cosa giusta.

«Diciamo che sì… adesso sono di nuovo felice, dopo molto tempo. Anche se ho paura di perdere tutto, ancora una volta.» le tremò la voce.

Il conte annuì.

«È normale avere paura, quando si è felici. La condizione umana sa trascinarsi ogni giorno, incessantemente. Ma ecco che se all’orizzonte si profila la possibilità di beffare il destino, e di sentirsi in pace con il mondo, si teme di perdere questo stato di grazia, che non ci confà. E ora dimmi una cosa: durante la parata ho visto che zoppicavi un po’. Come mai, ti sei fatta male?» le chiese, preoccupato.

Meti sorrise, per cercare di non turbarlo troppo.

«Non è nulla di grave… vedi, anni fa, mentre stavo soccorrendo un soldato durante una missione, un gigante mi diede un calcio. Per il trauma il mio bacino non si è più rinsaldato in modo perfetto e così se sono stanca o in piedi da molte ore, oppure se cammino molto, mi capita di zoppicare un poco. Ma sto bene, non devi preoccuparti, posso lavorare tranquillamente. Solo che non posso più cavalcare, se non al massimo al trotto e all’amazzone, per non sforzare troppo l’ossatura dell’anca, che mi è rimasta delicata, con i movimenti del cavallo. Peccato, amavo cavalcare…»

Il padre, in silenzio, le accarezzò la gota, annuendo. «Alphaia mia, devi farmi una promessa.»

«Dimmi…»

«Non devi tornare a vivere a Mitras, mai più.»

Meti batté le palpebre, visibilmente perplessa. Di tutte le richieste possibili rivoltele dal padre, mai se ne sarebbe aspettata una del genere.

«Promettimelo.» quasi le intimò, fissandola negli occhi.

«Va bene… te lo prometto… papà.»

*****

«Comandante Smith. Ti trovo bene, nella tua fiammante uniforme nuova. Hai ottenuto quello che volevi?»

Con queste parole, Erwin si sentì apostrofare da Nicholas Lovof, intento a libare un corposo vino rosso. 

Il nobile era comodamente seduto su una bassa poltrona di velluto blu e fissava, da sotto in su, con chiara alterigia, l’alto militare biondo.

Erwin non si lasciò intimidire. In silenzio e senza batter ciglio, si limitò ad un impeccabile e dignitoso saluto militare all’indirizzo del duca, per poi voltarsi ed andarsene.

Nel frattempo, nel buio notturno dei cieli di Mitras esplodevano, nel fuoco, fiori colorati, che i buoni cittadini miravano, a coronamento di una giornata perfetta.

****

Qualche ora più tardi, raggomitolata tra le braccia di Erwin, Meti ripensava all’incontro con l’anziano genitore. Adesso si trovavano, tutti loro ufficiali, ospitati presso un’ala della Reggia. Meti era stata raggiunta dal suo uomo nella bella e lussuosa camera degli ospiti che dava su un delizioso e raccolto giardinetto.

Con immensa gioia di Hanji, la sua stanza era giusto a fianco di una piccola ma fornita biblioteca: praticamente, aveva trascorso tutta la notte leggendo quanti più testi scientifici possibili, anche a costo di farsi saltare le sinapsi.

Mike non si era ritirato a dormire in stanza: aveva preferito affrontare la calda notte estiva all’aperto, sotto un odoroso albero di cedro: dopo aver annusato l’aria, si era addormentato, più che soddisfatto.

Quanto a Levi, la camera assegnatagli era linda e in ordine, oltre che indubbiamente confortevole: nessun granello di polvere era rimasto attaccato alle sue dita, dopo il consueto test di pulizia. Faticò ad addormentarsi, ma è pur vero che non è affatto facile adattarsi ai comfort del lusso, dopo una vita in situazioni disagevoli.

Nel bel mezzo della notte, mentre una calma apparente avvolgeva il Palazzo Reale, si sentì un urlo, accompagnato da voci concitate.

«Il Duca!»

«Hanno assassinato il Duca!»

«Presto, fate presto!»

Nel giro di pochi minuti, i militari del Corpo di Gendarmeria si sparsero per tutta la Reggia, alla ricerca del colpevole, cui si aggiunsero gli ufficiali ospiti della Guarnigione e dell’Armata Ricognitiva. Meti andò a constatare lo stato di decesso del nobile. Proprio un lavoretto con i fiocchi: Lovof era stato sgozzato come un maiale. La carotide era stata tranciata di netto, con un colpo preciso e pulito: una mossa da sicario professionista. La raggiunse l’anziano padre, che impallidì.

«Nicholas…» mormorò.

A cosa ti sono serviti i tuoi maneggi, il tuo denaro, la tua alterigia?

In silenzio, Meti ricoprì il corpo del duca con un lenzuolo candido. «Vado a preparare il rapporto sul decesso. Padre…» al che trasse il conte un po’ in disparte, mentre gli astanti fissavano il sudario, ancora increduli, «credo che dovremo anticipare il nostro incontro, il prima possibile.» gli sussurrò.

****

Furono organizzati i funerali di Stato in onore del duca, e fu indetta un’inchiesta, per scoprire il responsabile del suo omicidio. Il ruolo di capro espiatorio venne ricoperto da un anziano affittuario agricolo del duca, cui doveva molto denaro, e che, poco tempo prima, aveva avuto la malaugurata idea di insultarlo pubblicamente, dandogli dell’uomo avido e dell’approfittatore, e di minacciarlo di morte, in uno sfogo personale comprensibile ed umano, ma assai imprudente. Essendo stato presente alla Reggia in occasione dei festeggiamenti per la consegna, alle cucine reali, dei suoi prodotti ortofrutticoli, fu molto semplice imprigionare quel povero disgraziato, torturarlo e fargli confessare un delitto mai commesso. La sua condanna a morte fu pressoché automatica, anche in forza delle testimonianze dei cittadini che, all’epoca dei fatti, avevano assistito alla sua aggressione verbale nei confronti del duca. Ma il poveretto non ci arrivò mai, al patibolo. La mattina dell’esecuzione, i guardiani della Gendarmeria che avrebbero dovuto portarlo sul palco dell’impiccagione, lo trovarono bell’e morto nella sua cella: un provvidenziale infarto lo aveva risparmiato dall’esecuzione e dal pubblico ludibrio.

****

«Ho bisogno di una licenza.»

Meti era nel suo laboratorio, con l’alta figura di Smith che la osservava, appoggiato allo stipite della porta. La donna era intenta a terminare il riordino dell’archivio dei medicinali.

«C’è bisogno di chiederla?» le sorrise. Adorava la sua espressione concentrata, la stessa che tanto lo aveva colpito al loro primo incontro, alcuni anni prima. Gli occhi di Meti diventavano, se possibile, di un blu ancora più scuro ed intenso, ai limiti del violaceo, quando la donna era assorta nel suo lavoro.

Meti si voltò a guardarlo. «Erwin… non dimentichiamo chi siamo»

Il tono era serio, impersonale, mentre riponeva lo schedario dei farmaci in un cassetto.

«Fuori dal letto siamo un comandante e un ufficiale medico. Non voglio assolutamente dei favoritismi. Se ritieni che io possa avere una breve licenza, bene. Sennò vorrà dire che farò diversamente, per poter incontrare di nuovo mio padre. Te ne avevo parlato, ricordi? Alla festa, mio padre ed io non abbiamo ritenuto di approfondire certi argomenti, per tema di essere spiati… poi, hai visto cos’è accaduto al duca, no? Dobbiamo essere molto prudenti e discreti. Forse Lovof si era messo di traverso con gli Aristi e con il sovrano… e forse i suoi maneggi lo avevano esposto sin troppo, tanto da portare i suoi stessi pari ad eliminarlo. Le nostre sono solo ipotesi, ma tant’è. Solo che non voglio che mio padre faccia la stessa fine. Per questo è necessario che io lo incontri in privato.»

Smith la scrutò, a braccia conserte. Sapeva essere ben volitiva, la sua dolce dottoressa.

«Meti… la tua licenza è più che accordata. Sai benissimo che abbiamo assoluta necessità di risposte, che solo tuo padre può darci. Lui sa che abbiamo bisogno del suo aiuto: gli avevo scritto proprio per questo, dato che Pixis ed io avevamo rivenuto il nome della vostra casata in stralci di antichi documenti, reperiti con molto lavoro e con molta fatica dall’intelligence della Guarnigione. Organizzati come preferisci e vai pure da tuo padre, insieme al Capitano.» le disse, pacato.

«Ti ringrazio: però solo a una condizione.» sospirò la donna.

«E sarebbe?» domandò lui, perplesso.

«Voglio andarci da sola. Niente Levi.»

«Non se ne parla» Erwin sciolse le braccia per andare a posare le mani sulle spalle di lei, traendola a sé.

Ma Meti fu irremovibile.

«Se fossi accompagnata da Levi o da chiunque altro, desterei dei sospetti. Preferisco incontrare mio padre non a Mitras ma nella sua tenuta di campagna, come semplice civile. Niente divisa e niente armi. Sarò una donna comune che va in visita al suo anziano genitore. Se adesso mi muovessi in uniforme e scortata dal Capitano Levi, capisci bene che daremmo troppo nell’occhio.»

«È troppo pericoloso…» mormorò Erwin, pur ammettendo a se stesso che la donna potesse avere ragione.

«Saprò cavarmela, so badare a me stessa. Per favore: non complichiamoci inutilmente le cose.» Sollevandosi sulle punte dei piedi, gli diede un lieve bacio a fior di labbra, e uscì dal laboratorio.

Smith si sentì in trappola nella rete da lui stesso ordita: aveva organizzato tutto affinché Athiassy rivelasse quanto sapesse alla figlia… ed ora si stava pentendo di tale scelta.

Niente rimpianti, Comandante Smith?

****

Lasciò la caserma il giorno seguente, di primo mattino.

Aveva dismesso il camice d’ordinanza e il consueto abbigliamento militare, per indossare un grazioso abito celeste con una leggera stampa a fiori ed uno scialle candido: pareva più giovane e vulnerabile, così spogliata della sua divisa. Era importante, per lei, poter finalmente parlare con il padre. Questa esigenza l’aveva tenuta nascosta, dentro di sé, per anni, mentendo a se stessa e soffocando la nostalgia che spesso sentiva assalirla. Ma dopo averlo rivisto, anche se per poco tempo, Meti si era sentita travolgere dal rimorso e dal senso di colpa. Non era solo per avere delle risposte ai molti interrogativi sulle tre cittadelle, sui nobili e sul sovrano, che Meti volesse rivedere il padre. Pur essendo consapevole che quasi vent’anni di separazione non avrebbero potuto essere colmati da un semplice incontro, sentiva il bisogno di riallacciare i rapporti, almeno in qualche modo. Da bambina, rimasta precocemente orfana di madre, si era molto attaccata al padre, che aveva letteralmente adorato. Da ragazza, però, aveva preso coscienza dell’ipocrisia e del falso perbenismo della classe aristocratica di Mitras, che aveva iniziato a frequentare una volta fatto il suo debutto in società come fanciulla nobile.

Non gradì che le venisse proposto, come sposo, l’insulso rampollo di una famiglia molto potente e nota per la prepotenza e l’arroganza verso i comuni cittadini. Quando poi il padre le ebbe rivelato che il sovrano era, in realtà, un impostore, Meti aveva preso la sua decisione.

Pensava a tutte queste cose, mentre si avviava, su un anonimo carretto, alla vecchia tenuta di campagna, ove era solita trascorrere l’estate quando viveva con il padre. Dopo un tragitto durato quasi tre giorni, durante i quali aveva pernottato lungo la via in locande periferiche, arrivò, stanca ed impolverata, all’antica magione.

Eccola.

Sembrava che il tempo si fosse fermato. Era ancora lì, la villa Athiassy di campagna, bianca e con i suoi graziosi tetti rossi, con il lato ovest ricoperto interamente dall’edera rampicante, con i suoi meleti e, soprattutto, con quelle belle rose che sua madre tanto aveva amato e curato di persona. Quasi come se il padre avesse previsto il suo arrivo, se lo ritrovò, ritto sulla soglia di casa, ad attenderla, insieme ad un paio di anziani servitori, commossi di rivedere la loro padroncina dopo tanti anni.

La commozione la travolse.

Non era riuscita ad abbracciarlo, la sera della festa.

La Reggia non era stata degna di vedere qualcosa di più di un loro incontro trattenuto e poco spontaneo. Ma nella vecchia casa delle loro estati del passato… era ben diverso. Si strinsero forte.

«Sarai stanca… ora vai a riposarti, magari dopo un bel bagno.» il vecchio conte le accarezzò il viso, come quando era bambina.

«Bentornata, contessina» l’anziana governante aveva gli occhi lucidi.

«La vostra stanza vi sta aspettando …. Non è cambiato nulla …»

«Grazie. Sono felice di rivedervi. Vi trovo bene» Meti sorrise all’alta governante e al distinto maggiordomo.

Dopo un bagno ristoratore profumato di olii essenziali, Meti si rifugiò nella sua stanza di ragazza. Era tutto così fermo a prima. Gli oggetti di uso quotidiano erano rimasti posati nello stesso modo di tanti anni addietro. La spazzola d’argento e bosso posta a sinistra del piumino da cipria, sulla toilette di betulla laccata. La poltroncina ricoperta da un foulard azzurro. L’ultimo libro letto riposto sul tavolino. Meti lo prese in mano: era un libro di poesie d’amore, letto con particolare trasporto, avendo da poco conosciuto Basil. Al suo ritorno a Mitras qualche settimana dopo, al palazzo padronale, avrebbe poi abbandonato tutto: aveva appena compiuto diciott’anni. Si sedette sul bordo del letto dal copriletto di candido merletto. Cosa era rimasto della ragazza viziata e coccolata, circondata solo da cose belle, da agi e da sorrisi? Poco o nulla.

Ma, a ripensarci bene, Meti non aveva rimpianti.

Se avesse potuto tornare indietro, l’unica scelta diversa che avrebbe preso sarebbe stata quella di mantenere i contatti con il padre. Ma non avrebbe rinunciato a Basil, né agli studi di medicina, né alla vita militare.

E neppure ad Erwin.

A nessun costo.

****

Erwin Smith si volse a scrutare i suoi capisquadra, con un luminoso sguardo dei grandi occhi azzurri.

In piedi, a fianco della lavagna, aveva appena spiegato come affrontare, per il futuro, le ricognizioni all’Esterno, dopo aver tracciato con un gessetto le disposizioni delle squadre ricognitive. Era necessario, in primo luogo, cercare per quanto possibile di ridurre al massimo le perdite. Le continue falcidie di giovani vite avevano reso impossibile la vita a Keith Shadis, al punto da indurlo alle dimissioni. Troppe morti, e senza “nessun risultato”.

Tutto questo doveva finire.

Per giorni e notti, Smith aveva studiato soluzioni e stratagemmi, per rendere più efficaci le missioni, col minimo dispendio di risorse ed energie e, possibilmente, nell’ottica di riportare i soldati sani e salvi al rientro dalle missioni. Aveva quindi escogitato l’uso di fumogeni di diverso colore da portare unitamente al movimento tridimensionale, a seconda dell’azione da compiere nel corso della missione: spiegò ai capisquadra quali razzi utilizzare e di quale colore, in modo da poter segnalare a distanza quanto necessario per poter agire tempestivamente e bene, come l’arrivo di un gigante, l’urgenza di una ritirata o la presenza di feriti da recuperare. All’epoca di Shadis, infatti, l’uso dei fumogeni, seppur già previsto, era limitato solo alla segnalazione di Giganti in arrivo: ma Smith comprese che tale stratagemma andasse ulteriormente perfezionato e reso più articolato.

Smith si era reso conto, altresì, che lo squadrone di ricognizione avrebbe dovuto essere, d’ora in poi, più dinamico e snodabile, suddiviso in vari fronti, in modo da potersi adattare in modo più elastico alle emergenze: il corpo unico fino ad allora adottato dalla Legione Esplorativa ed applicato pedissequamente da Keith Shadis non poteva più essere utilizzato, in quanto obsoleto, poco efficace e foriero di grandi perdite, in termini di uomini, cavalli ed attrezzature.

Come avanguardia, avrebbe avanzato in testa la squadra di prima linea, seguita dalle squadre di supporto; il comandante, coadiuvato da una piccola scorta, si sarebbe trovato proprio nel corpo centrale, ed avrebbe monitorato tutta la situazione, modificando al momento movimenti e strategie; dietro di lui si sarebbero mossi i soldati semplici e le nuove reclute, il cui compito sarebbe consistito nel sparare i fumogeni di diverso colore, per comunicare tra loro la presenza dei Giganti o le nuove traiettorie da seguire, secondo le direttive del comandante.

In retroguardia si sarebbero mossi i carri, dotati di efficaci sospensioni e trainati da due cavalli ciascuno, contenenti tutti i rifornimenti necessari per le spedizioni, quali cibo, armi, gas, lame, forniture mediche: essi avrebbero avuto la protezione di squadre ad hoc. Gli ufficiali pendevano letteralmente dalle labbra del loro nuovo Comandante.

Egli sapeva spiegare in modo semplice e convincente le sue teorie, in modo da esser ben compreso dai sottoposti. Rispondeva con assoluta pazienza ad ogni domanda, cercava di fugare i loro dubbi e di rendere partecipi i suoi uomini: egli non faceva “cadere dall’alto” le proprie disposizioni, ma voleva che ogni soldato si sentisse parte di una squadra coesa. Ognuno poteva dire la sua e dare suggerimenti. Era il capo che cercavano da tempo, da seguire e ammirare. Le doti oratorie di Smith erano inconfutabili: egli sapeva quindi rendere onore alla memoria del suo sventurato padre, un insegnante che aveva dato una spiegazione di troppo.

«Non escludiamo neppure l’opportunità di costituire delle squadre speciali per azioni mirate. Di questo magari ne potremo parlare successivamente. Cosa ne pensate?»

Noi” e mai “io”.

Questa era la chiave di volta del nuovo Comandante, Erwin Smith.



Avviso per i gentili Lettori: la prossima settimana sarò all'Estero, per cui il prossimo aggiornamento avverrà in data 7 ottobre. Grazie di esserci, la Vostra vicinanza mi è di sprone per continuare a scrivere! innominetuo
  
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