Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
02.
febbre
«La-lasciami stare, mamma… ahn… non… non ho bisogno di aiuto, lo sai.»
Marge guardò sua figlia minore con aria contrariata: aveva solo dodici anni
Margaret, certo che aveva ancora bisogno della mamma. Sicuro. Così come era
sicuro vedere il sole nascere al mattino da est.
«No, no, signorinella. Ti sei presa un febbrone da cavallo, ora dammi quel
termometro e bevi la tisana che ti ho portato.» La donna adagiò il vassoio con
la tazza bollente sul comodino, raccattando fazzoletti usati e spostando il
blocco note su su cui Maggie annotava, disegnava,
schizzava: parole accostate a segni di carboncino si mescolavano sulla carta,
mostrando un lato della ragazzina che la madre ancora non aveva ben inquadrato.
Si chiedeva spesso da chi avessero preso le sue bambine, la maggiore una
musicista jazz che portava fieramente avanti la sua passione, esibendosi in
qualche locale di Springfield e limitrofi; la minore riusciva a estrarre di
tutto dalle mine di quelle matite.
E lei? Beh, Marge aveva una certa predisposizione per le pulizie, lo skip delle
pubblicità alternate ai video sul cellulare e una buonissima gestione delle
faccende della casa.
Suo marito? Beh, sapeva…
Sapeva…
Era un uomo multitasking, questo bisognava concederglielo. Era capace di
mangiare, ubriacarsi e fare danni nello stesso identico, preciso momento;
litigare, ridere ed estraniarsi senza nemmeno accorgersene. Non che fosse un
vanto, ma era sicura che questa sua capacità di sdoppiarsi sarebbe tornata utile
un giorno. Se fosse rimasta con lui fino a quel momento, ovvio.
Wow. Non lo pensò e basta. Lo disse proprio.
«Cosa… cosa c’è, mamma?»
La donna si riscosse dalle riflessioni in cui si era chiusa, scuotendo la testa
e scacciando i pensieri con un gesto distratto della mano. «Nulla, tesoro.
Nulla. Adesso bevi questo, ci ho messo un po’ di miele dentro, sai?»
Anche se la voce aveva esternato un chiaro “non sono più una bambina”, Maggie
bevve rifugiandosi in un calore dolce, avvolgente, famigliare: sua madre sapeva
sempre come trattarla e da che lato prenderla, questo
era certo.
«Mamma, sono tornata!» La voce squillante di Lisa riscaldò l’ingresso di casa,
colorò le pareti invecchiate dal tempo, spezzò il silenzio. «Dove è papo?» Aveva una grande notizia per lui, era elettrizzata:
sapeva un giorno sarebbe stata in grado di unire ciò che le piaceva al burbero
genitore che pareva non avere nulla in comune coi propri figli. Era riuscita a
ottenere due pass VIP per una serata speciale in uno dei locali in cui lavorava
sporadicamente: nonostante sapesse dell’odio che Homer nutriva nei confronti
del jazz, sapeva del suo amore per la musica rock e per i Rolling Stones. E
quella serata era dedicata a entrambi, rendendo facile così una occasione di
vicinanza. Stringeva così forte i biglietti da sentirli tremare tra le dita. Urlò
un paio di volte il nome di lui cercandolo con lo sguardo in salotto,
raggiungendo poi la cucina camminando a passo spedito.
«Papo?»
Niente. Non c’era traccia di lui.
Il volto di Lisa si illuminò mentre saliva le scale per raggiungere il primo
piano, ricordandosi all’ultimo di saltare il terzultimo gradino che
scricchiolava un po’ troppo. Guardò in direzione del bagno, poi si voltò verso
le camere nella speranza di una sua presenza: in fondo l’orario di lavoro era
finito da un pezzo, l’avrebbe trovato steso a letto a bersi una Duff e guardare
la replica di qualche stupido talk show datato. Lo conosceva fin troppo bene,
sì, sapeva sarebbe stato così.
A metà corridoio incrociò la madre. Ancora speranzosa sventolò il tesoro che le
era costato quattro giorni di lavoro non retribuito per ottenerlo, attirando
l’attenzione della donna: le occhiaie profonde che contornavano infelicemente
il volto di Marge la bloccarono, ma si riscosse subito. Mamma aveva quei segni
violacei ogni volta che qualcuno stava male in casa, se lo ricordava più che
bene: da bambina registrava con attenzione elementi e caratteristiche dei suoi
familiari, così da captare in anticipo qualcosa che non andava.
E infatti…
«Cosa c’è?»
«Tesoro, ben tornata. Scusami, ma proprio non ti avevo sentita arrivare… niente
di che, tranquilla, Maggie ha la febbre alta e faccio fatica a fargliela
scendere. La mia piccolina…»
Lisa sospirò rassegnata e le sorrise con il cuore in mano: «mamma, Maggie non è
più tanto piccolina, puoi stare tranquilla. Ormai è capace di dirci cosa le
succede e perché sta male. Adesso scendi con me e ci beviamo un caffettino, che
dici?»
«So che non è piccola, ma sai che si rimane mamme per sempre, vero?»
Questa frase la ragazza la registrò nella sua banca dati cerebrale, ma non
sarebbe riuscita a comprenderla se non anni dopo; anche se incuriosita preferì glissare
sull’argomento, ricordando il motivo per cui stava correndo per tutta casa con
grande foga.
«Ma come? È impegnato anche questo fine settimana?»
La parola “anche” uscì in modo esasperato dalla bocca di Lisa. Tutto
l’entusiasmo che aveva incamerato nelle ultime due settimane, regalando le sue
ore al locale e ottenendone in cambio una serata padre/figlia che attendeva da
parecchio, scemò.
Anzi, crollò letteralmente sul pavimento.
Con un tonfo sordo.
«Sì, tesoro, mi spiace. Ha preferito, beh…» Marge avrebbe edulcorato la sua
affermazione? «dicevo, ha avuto un impegno importante al lavoro, l’hanno
avvertito proprio all’ultimo e non ha potuto dire di no. Scusami.» Sì, anche
stavolta, dopo diciotto anni, aveva indorato la pillola per sua figlia, per
restringere il campo della delusione.
Lisa non rispose.
Di silenzio ne aveva parecchio ancora da donare dopo tutte le volte che Homer
Simpson aveva calpestato il suo entusiasmo e le sue ambizioni. Avrebbe stretto
tra i denti l’orgoglio e l’amore che provava per lui, facendo finta di nulla e
mandando giù, sempre più giù fino a camminare sulle sensazioni che stava
provando. Proprio come le aveva insegnato la madre durante l’infanzia. Sorseggiò
distrattamente il contenuto caldo della tazzina, non facendo caso al sapore da
discount della miscela; ci si abituava, come ci si era abituati da tempo a non
permettersi più le vacanze ogni anno, d’estate, oppure il nuovo modello di
smartphone. Non erano cose di gran peso per lei, ma ricordava con nostalgia i
viaggi fatti quando era bambina, le tante ferie sfruttate al massimo, aerei,
treni, città, monumenti… cibo per la sua mente curiosa, esperienza per la sua
voglia di imparare. Gli anni però le avevano insegnato che tutto costava sempre
di più, tanto da dover a un certo punto regolare l’intero tenore di vita della
famiglia in base all’unico stipendio che entrava. Naturalmente non aveva mai curiosato,
o stressato la madre sul motivo per cui lei stesse costantemente a casa, senza
produrre sostanzialmente nulla del reddito totale. Erano cose che non si
dovevano chiedere. Giusto?
O forse, semplicemente, era arrivato il momento di indagare?
Indecisa sulle parole da scegliere per domandare una cosa così ovvia ma
personale, notò come la mente della donna che se ne stava seduta di fronte a
lei stesse vagando da qualche parte: il cucchiaino tintinnava sulla tazza di
ceramica preferita di lei, una vecchia eredità della famiglia Bouvier. «Senti,
mamma, posso chiederti una cosa?»
Marge non rispose, ricordando con nostalgia profumi particolari, il gradevole
sapore sulle labbra, una conversazione iniziata nell’imbarazzo totale con un
certo reporter, portandola poi a sentirsi al centro dell’attenzione, di
un’attenzione qualsiasi. Da una persona qualsiasi, l’ultima da cui avrebbe mai
immaginato di sentirsi anche solo minimamente considerata.
«Mamma?»
«Mhn?»
«Dicevo, posso chiederti una cosa?»
«Certo tesoro, sono qui, dimmi pure.» Aggiunse un altro cucchiaino dalla
vecchia zuccheriera. No, il sapore del caffè non sarebbe migliorato. E questo
era davvero un peccato.
«Perché hai sempre lavorato poco?»
Il tintinnio del metallo sulle piastrelle della cucina risuonò più del dovuto:
la presa delle dita sulla posata aveva ceduto.
«Oh… scusami, cara…»
La donna si chinò a raccoglierla, rallentando la salita.
Da quando faceva così fatica a eseguire movimenti altrimenti naturali? Un
piccolo, leggero dubbio si insinuò nel cervello analitico di Lisa: un
campanello d’allarme?
E se lei non se ne fosse semplicemente mai accorta?
«Lascia stare mamma, non serve rispondere se non vuoi.»
Marge sospirò, una ciocca di capelli scuri ricadde sul viso, oscurandone la
luce ormai pallida che lo contornava; ciò che era rimasto di quella luminosità
fresca e piacevole di venti anni prima, era ben poco. Una vitalità giovane
scappata pian piano, un passetto alla volta. Dalla fede al dito alle nascite
non previste, persino la pelle pareva spenta.
«Tesoro, facciamo così: adesso lasciamo stare, dammi qualche giorno, recupero
un paio di cose dal dottor Hibbert e poi ne riparliamo.»
«Sicura?» Lisa pareva sospettosa e non solo per l’improvvisa tranquillità con
cui la donna si stesse esprimendo dopo essersi praticamente bloccata, ma anche
per il coinvolgimento del loro medico di famiglia. Stava già selezionando
alcune parole chiave da archiviare per una eventuale ricerca su Google quando
un forte gemito biascicato dal piano di sopra interruppe qualsiasi interazione.
Gli occhi di Marjorie si spalancarono, saltò dalla
sedia come scottata e guardò per un attimo la figlia maggiore, intimandole di
non seguirla. Non è necessario, le iridi avevano detto.
Non è necessario tu mi segua di sopra, sono una madre e so cosa fare in
questi casi.
Non è necessario tu approfondisca, tu sei mia figlia, non devi preoccupartene.
«Mamma?»
La risposta non arrivò. La casa era gelidamente silenziosa, non certo per la
temperatura ben poco mite di un autunno più freddo del solito. Un dolore
lontano le morse le costole, schiacciandole contro lo sterno e i polmoni.
Troppo silenzio.
Per una logorroica come sua madre, era davvero raro.
Si alzò e seguì i primi gradini.
«Mamma? Tutto a posto?»
Era arrivata a metà scala, la mano poggiata distrattamente su una delle tante
fotografie appese sul muro: la cornice semplice, color legno scuro, inquadrava
tutti e cinque, un adorabile – ipocrita – quadretto familiare.
«Li… Lisa…! Lisa, chiama l’ambulanza, Maggie ha le convuls-»