Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
03.
“I can’t explain and I won’t even try”
Bartholomew Simpson non era certo famoso per la finezza d’espressione e la
quiete di carattere, anzi: il suo essere stato lasciato allo sbando da bambino
lo aveva portato a crescere a ritmi autonomi, con i propri tempi, una certa
educazione – assorbita a pelle dagli sforzi della madre, ma archiviata in un
angolo polveroso – e una impazienza innata.
La chiamata era arrivata circa un’ora prima, la voce di sua sorella minore Lisa
pareva allarmata, anche se in qualche modo lei tentava sempre di mantenere un
certo contegno.
Pure per le brutte notizie.
«Bart, mamma e Maggie sono in ospedale.»
Il ragazzo aveva mollato ciò che stava facendo, lasciando cadere l’attrezzo
dalle mani. La ditta di demolizioni in cui lavorava con cui stava facendo pratica nella vita con
alta probabilità non avrebbe apprezzato. Si trattava di sua madre però, l’unica
persona che l’aveva sostenuto fin da piccolo, nel dolore, nella rabbia, nella
frustrazione. Sua madre era in Pronto Soccorso, la sua piccola sorellina pure…
come avrebbe potuto restare impassibile? Il suo centro stava per esplodere, avrebbe
dovuto essere con loro.
Tolse il caschetto di protezione lanciandolo sul pavimento dissestato del
vecchio caseggiato di periferia, incurante delle parole scurrili cadutegli
addosso da parte del supervisore, troppo impegnato a grattarsi il didietro con
la mano guantata impolverata dai calcinacci. «Simpson, dove credi di andare?
Stavolta sarà l’ultima, ti abbiamo già avvisato!»
Le ultime sillabe si persero nel nulla durante il tragitto rapido fino alla
moto. Bart lanciò i guanti di protezione sull’asfalto, fregandosene altamente.
Sono in ospedale, Bart. Hanno bisogno di te.
Il motore spingeva, le ruote mangiavano i pochi chilometri che separavano
il cantiere dallo Springfield General Hospital. Il casco era annebbiato dal
fiatone corto che non lasciava spazio all’ossigeno.
Non ora, non ora.
Il panico saliva a mangiargli la trachea. Il ragazzo stava lottando con se stesso e una debolezza che si vergognava ad ammettere di
avere; inspirò ed espirò.
Una.
Due.
Tre volte.
Dentro e fuori.
Dentro nel naso, fuori dalla bocca.
Altrimenti l’iperventilazione se lo sarebbe trascinato nell’annebbiamento della
vista, e non sarebbe stato divertente essere un pericolo stradale in piena
emergenza medica, su una due ruote sgangherata d’epoca e con la paura che stava
rizzando i capelli biondi sulla nuca al guidatore.
Respirare.
Concentrarsi nel respiro era la soluzione.
Facile a dirsi, con le sue due Speranze chiuse in quattro mura bianche da far
spavento e che puzzavano sempre di disinfettante.
«Dove cazzo è il Pronto Soccorso?»
Lisa rispose diligente, sapeva bene che far preoccupare il fratello più del
dovuto sarebbe stata una mossa stupida. Già nel dedalo sotterraneo di corridoi la
ricezione era quel che era, poi la presenza di decine di diversi padiglioni non
migliorava. Bivio: destra dal primo al nono, sinistra dal dodicesimo al
quindicesimo, direzione ospedale nuovo. E gli altri numeri? Naturalmente invece
di accedere dall’esterno attraverso il traffico e il pagamento del ticket
parcheggio, Bart aveva preferito posteggiare abusivamente sul marciapiede di
una laterale secondaria, ingresso posteriore.
Gran bella idea, Bart.
Una cosa aveva capito: l’ospedale nuovo era dietro, e lui doveva andare al
padiglione principale… indovinandone l’ubicazione nella mappa dimostrativa
appesa al muro del bivio numero sei: il punto più lontano in assoluto. Neanche
un formicaio pareva così intricato. Cacciò nella tasca posteriore dei blue
jeans il cellulare facendo tintinnare la catenella del portafoglio, e ripartì
di corsa. Scappare dai ragazzi più grandi da bambino era stato un gran allenamento,
così come giocare a baseball solo per qualche misera stagione fino alla tarda adolescenza;
si sentiva allenato. E per fortuna, così raggiunse il tanto agognato PS di cui
aveva bisogno. Entrò dall’ingresso, sollevato e speranzoso.
Capienza massima tot imprecisato numero di persone.
Comunque, non abbastanza per la scena che gli si era presentata davanti. La
sala d’aspetto era ricolma. Pregò di non dover incontrare nessuno di sua
conoscenza, ci sperò anche perché non era nemmeno in vena di dover parlare con
qualcuno, chiunque. Faccia anonima, faccia sconosciuta, indifferente, ragazza
carina, ragazzo idiota, vecchio indefinito, e via così fino a che non inquadrò
la figura famigliare di Lisa accanto alla porta che dava agli ambulatori.
Punto strategico, accanto alla macchinetta del caffè.
Bart inspirò, si sistemò alla bene e meglio i capelli scompigliati e si
avvicinò. La sfiorò appena e la vide letteralmente balzare sul posto.
«Babi, mi hai fatto venire un infarto! Giuro che prima o poi mi farai
collassare…!» il momento di pausa, un semplice gioco di sguardi e Lisa si
lasciò andare, sfinita. Abbracciò il fratello e inspirò forte l’odore familiare
di cemento, catrame, di strada. Era il suo Babi, il suo fratellone.
«Ehi, ciuccellona, mi stai soff…
ouf! Dai, spostati, ci stanno guardando!» L’aveva
detto troppo forte, ricevendo l’occhiataccia contrariata di un buon quarto di
locale. Un’alzata di spalle e li aveva già liquidati con una linguaccia – non
era mai cambiato poi così tanto.
«Allora?»
«Beh… allora… da dove comincio?»
«Da un tramezzino, direi. Il distributore è lì, sto svenendo dalla fame e ho
pure saltato la pausa pranzo.» Bart si fiondò alla macchinetta e ci rovesciò
una quantità indefinita di spiccioli prima di riuscire a mettere le mani
sull’agognato sacchettino. Ingozzandosi come pochi, ebbe il tempo di finire
prima ancora di far parlare Lisa.
«Sei proprio il solito, Babi. Comunque, Maggie è stata male.»
Le palpitazioni Bart le conosceva più che bene, ne aveva sofferto parecchio
qualche anno prima, per poi godere di quella sgradevole compagnia solo un altro
po’ e vederla scemare con l’allontanamento da casa. Da suo padre. Ora si erano
ripresentate forti, dritte fino ai timpani, pompando contro le costole e
minacciando di romperle per forare il petto, lasciandolo direttamente a morire
stramazzato al suolo. Inalò, si sforzò cercando di ricordare le tecniche di
rilassamento che una delle sue ex gli aveva insegnato in un periodo di grande
ansia.
Peccato che pareva non funzionare.
E il battito era sempre forte, sempre chiaro, un muscolo lasciato andare
all’impazzata senza un freno a mano a stabilire un blocco di sicurezza.
«Babi, calmati, sta bene. Giuro che sta bene adesso.»
«Allora posso entrare a vederla?» Aveva già mosso i primi passi verso la porta
scorrevole bloccata, il lampeggiante rosso spento. Non voleva saperne di
immaginare la sua sorellina intrappolata in una scomoda barella dentro al corridoio
di un ospedale sovraffollato, non lei. Chiunque, ma non lei.
«No, non ancora, al momento è in osservazione e stanno registrando i parametri
così da vedere se si tratta di un caso isolato o altro.»
Altro?
Brutta parola dentro a un Pronto Soccorso.
Come altro?
Era sempre stata bene, a parte il problema dal logopedista.
«Ah, ma non stare in ansia, sul serio, tranquillo.»
Lo sapeva Lisa, l’aveva sempre saputo che suo fratello non era in grado di
gestire le emozioni forti, non lo era mai stato. Come sapeva che il conforto
dato da una persona amica era una medicina efficace in quei casi; il tocco
delle dita di lei sulla sua spalla parve tranquillizzarlo a sufficienza anche
se lo vedeva contrarsi e rilassare la postura in modo ancora troppo rapido. «Le
sono venute le convulsioni a casa. Pensano sia colpa del cambio di temperatura
troppo veloce, non è raro anche se non è più una bambina. Certo, devono vedere
se succede ancora, ma è alquanto improbabile.»
Bart sorrise sospirando, aveva voglia di piangere: Margaret, la sua pulce
ribelle e strana – proprio come lui – ora era sotto controllo, e pareva stare
meglio. Gli occhi pungevano, si strofinò la manica della felpa da lavoro
lasciando una scia di polvere grigiastra sul volto.
«Allora è tutto a posto, mi sono preoccupato per niente… cazzarola, potevi
dirmelo subito, no? Insomma, ho lasciato il lavoro su due piedi, ho rischiato
tre incidenti e passato un paio di semafori rossi. Mi sono fatto chilometri di
corsa in quella cosa che chiamano percorso interno coperto, e ora è tutto a
posto…» l’ultima parola la sussurrò piano, voleva godere di quel suono: “a
posto.” Un bel accostamento di sillabe, assolutamente.
Cuore meno veloce.
Dolori più lievi.
Orecchie vuote di pensiero.
Formicolii meno pesanti.
Si lasciò cadere improvvisamente sfinito su una delle sedioline in plastica
senza neanche premurarsi di scostare la borsetta della sorella, e sbuffò sollevato.
Una stanchezza strana gli aveva prosciugato ogni singola energia. Un respiro
fresco dopo una alterazione che non era sicuro sarebbe riuscito a gestire
ancora, in mezzo a tutta quella gente.
«Le aspettiamo e andiamo allora? Stasera ordino da Luigi, pizza per tutti. Mi
hanno pagato l’altro giorno, si festeggia.»
«Aspetta, Babi. Aspetta.»
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lei contrariato, non gli pareva affatto una
cattiva idea ciò che aveva proposto, anzi.
«Dobbiamo aspettare mamma.»
«Vabbè, esce una, esce l’altra. Ci vorrà qualche minuto per la carta di
dimissioni ma poi andiamo, e stavolta mamma non potrà lamentarsi se porterò
Maggie in moto con me.»
Lisa parve fortemente a disagio.
«Beh?»
«Maggie sicuramente verrà con noi, ma mamma… non credo.»
Sigillato lo stomaco, chiusa la bocca.
Trachea stretta, polmoni fermi.
Cuore nel cervello, tutto troppo forte.
Tutto troppo doloroso.
«Tesori, che ci fate qui?»
Marge era tranquilla, così tranquilla da sembrare… finta?
Rilassata, sfiancata sul letto dell’ambulatorio numero 3. Un accesso alla flebo
sulla mano sinistra, il misuratore di pressione e il saturimetro sull’altro
braccio. Una coperta a coprire il classico lenzuolo a trame geometriche azzurre
e bianche, tipico di ogni singolo plesso ospedaliero del Paese. Lei lì, i
capelli disordinati e sciolti sul cuscino, il letto elettrico impostato su una
comoda seduta; i tre figli avrebbero pensato al meglio, non fosse stato per i
cerchi violacei attorno agli occhi e un sorriso stranamente sgargiante sul
volto pallido e sfatto.
«Come che ci facciamo qui, mamma? Ho scaricato il lavoro quando ho saputo di
Maggie, sono diventato un isterico quando Lisa mi ha detto di te. Si può sapere
cosa ci combini?»
Marge pareva confusa, come se non ci fosse stato alcun bisogno di spiegare nulla.
Era lì, Margaret stava bene, Bart non litigava con nessuno e Lisa era passata pure
a trovarla: le sue tre meraviglie al suo capezzale e non se ne rendeva nemmeno
conto, drogata di tranquillanti com’era. Più che parlare biascicava stanca, un
anomalo rumore di risucchio proveniva dalle sue labbra, come se stesse
insistentemente succhiando una caramellina dura. Lei non era mai stata
sostenitrice delle caramelline dure.
La conversazione non fu poi così lunga: i parametri parevano nella norma,
l’ossigenazione era perfetta, la temperatura anche, e i quattro erano lontani
dal caos del reparto ancora affollatissimo. L’ansia pareva essere stata
abbandonata al di fuori della stanza, i medici avevano infatti permesso ai
ragazzi di entrare; solamente Lisa era impostata nella conversazione, era
quella che aveva parlato meno e anzi stava psicanalizzando i due fratelli come
era solita fare – come era solita fare sbagliando.
Effettivamente perché lei era l’unica che sapeva.
Era l’unica che aveva ricevuto le prime direttive dal medico del Pronto
Soccorso per la gestione di un ricovero.
Marge promise si trattasse soltanto di una notte di controllo, e li abbracciò
tutti, mostrandosi raggiante. Scrisse su Whatsapp una
breve lista di cose che le sarebbero servite, dal caricabatterie a un cambio
completo di vestiti, e perché no, un paio di pantofole. Ringraziò Bart per la
sua presenza, assicurandogli che un gesto così bello – quello di lasciare il
lavoro a metà per correre da lei in ospedale – non sarebbe stato dimenticato;
gli sussurrò quanto lei gli volesse bene e quanto avesse apprezzato la sua
presenza lì, sentendolo chiaramente sorridere sulla propria spalla. Maggie fu
meno fisica e impulsiva, lontana più degli altri emotivamente: che ci poteva
fare, era così, lo era sempre stata dal momento in cui aveva cominciato le
elementari. Salutò con un mezzo sorriso dipinto sul volto e con un rapido cenno
della mano, ricevendo in risposta uno sbuffo.
Si separarono al momento dell’ingresso di uno dei medici e dell’infermiere che
aveva disposto la saletta a controllo e visita, il sorriso cordiale con cui avevano
permesso ai ragazzi di entrare si era trasformato in una espressione dura –
stanchezza, bisogno e lavoro, tanto lavoro, troppa gente. Marge scrisse rapida
a Lisa di non accennare ancora nulla agli altri di ciò che era stato riferito
in privata sede, inviando incurante degli errori grammaticali dati dal
correttore automatico dell’app chiedendole una rapida, ultima conferma con gli
occhi.
Una conferma strappata a fatica.
L’ultimo posto a destra della stanza di ricovero temporaneo permetteva a Marge
uno scorcio sul corridoio ambulatoriale, notando con sfiancata e fumosa
lentezza lo scambio dei pazienti che si rinnovava poco a poco. Le lamentele di
chi stava al di là di quella porta schiusa arrivavano lontane ma costanti; lei
era già stata visitata, trasferita per la notte e con in vena un farmaco o due
per mantenerla tranquilla. I parametri continuavano sulla buona strada, venendo
registrati costantemente così come quelli degli altri pazienti presenti lì
accanto. Una semplice tendina verde a separarla dal resto, dai macchinari tutti
uguali, dal rantolo di chi non riusciva a prendere sonno e chi, invece, come
lei, stava riposando.
Un dormiveglia quieto.
E infine aveva ceduto, dopo tutti quegli anni a stringere i denti, serrare lo
stomaco e inghiottire l’orgoglio.
Per paura di non riuscire a controllare ciò che accadeva ai suoi figli, aveva
ceduto.
Non che fosse un episodio grave, Margaret in fondo era stata subito meglio già
in ambulanza, però era stato l’ultimo di una serie di snervanti accadimenti che
avevano portato la donna a non volerne sapere più di niente.
Per un attimo, eh.
Solo per uno.
Credette di poter mollare la presa e lasciarsi andare.
E la crisi era cominciata allertando gli stessi medici che avevano visitato sua
figlia.
Sapeva non sarebbe uscita di lì il giorno dopo, come probabilmente non quello
successivo. Lei e Lisa erano lì quando il medico spiegava di aver bisogno di
qualche tempo in più analizzando la storia clinica e i dati ricevuti. Era già
prevista una presa in carico da ulteriore reparto ma la donna aveva preferito
non allarmare gli altri due figli che erano all’oscuro di ciò che le stava
accadendo.
Ma Lisa no.
Lei aveva guardato, osservava, spiava, ecco.
Lisa spiava in casa, e aveva colto già qualche segno di forte malessere che da
sporadico si era presentato più spesso, fino a diventare improvvisamente
incontrollato. Così il messaggio ricevuto dalla madre durante il congedo da
quella stanza aveva di botto illuminato quel posticino della mente dove lei
aveva archiviato episodi, parole, sensazioni e teorie: “non posso spiegare, e
non ci voglio nemmeno provare.”