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Autore: Ciuscream    04/10/2022    8 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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[#writober, 4ott – occhio]

 

La Senna scivola nera e placida sotto di loro, come un fiume di inchiostro senza foce, costellato di riflessi di luci e di insegne, a screziare una superficie altrimenti spettrale. Lucius osserva quella città, osserva Parigi, osserva quell'acqua e qualcosa lo aggrappa – un fastidio –, quello che avverte sempre quando mette il piede in fallo, quando il terreno è meno stabile del previsto. Si ritrova ad ammetterlo, controvoglia, che di quei luoghi, di quegli odori, di quel pizzicore acre di qualche vicolo o del profumo intenso del  marché aux fleurs, lui non si sente padrone. Si muovono le parole, i gufi, i galeoni – lui no. Lui è ancorato al Manor, alla sua vita, alla sua famiglia, alla campagna nebbiosa e mai scossa, stabile. Per quello, essere lì – in quella città eterna e mutevole, con quella donna sempre diversa e sempre uguale a quella che ha conosciuto bambina – raddoppia l'acredine per quella sua incapacità di trovare un punto fermo fuori dalla sua Inghilterra, fuori dai rapporti che ha costruito per anni, fuori – si dice – da un'abitudine sempre uguale a sé stessa, che nemmeno la guerra è riuscita a distruggere davvero

 

Non è padrone di Parigi, meno che mai lo è di Pansy. Una voce sinistra gli dice che non lo è più nemmeno di casa sua e di sua moglie.

E, a non essere padrone, Lucius non è mai stato abituato.

 

Sente quei pensieri sulla lingua, nel punto deputato a riconoscere l’amaro. E lì rimangono adesi, con forza. Tutto lo scuote: l'aver tradito Narcissa, per la prima volta. Averlo fatto con una ragazzina che ha visto sbocciargli davanti agli occhi (si odia per quei pensieri così inopportuni). Lo scuote aver fatto tutto quello in suo potere per farle dire di sì.

Parigi, una casa incastrata a Montmartre, valanghe di promesse vomitate. Sente il rosone di Notre Dame fissarlo, come un occhio che tutto sa e tutto vede. Si sente penetrato fin dentro le cellule. Lo vede là, fiero e ferito, come si sente lui. È lieto soltanto che lei non si stia accorgendo di quel suo macchinoso marciare (e marcire) di pensieri, perché lui se li sente dipinti addosso, da tutte le parti, scritti a caratteri cubitali dentro gli occhi dalle iridi dello stesso colore di una pagina tutta da scrivere.

Pansy – che di solito è chiusa in quel suo bozzolo di bellezza sfrontata e granitica – adesso le sembra molto più fluida, sciolta, come vittima di un incantesimo che nessuno – oltre quel luogo – avrebbe potuto evocare; non il più potente mago, non la più allagante pozione. La vede sfilare di fronte a lui, il naso all'insù, occhi che ogni tanto si voltano all'indietro a cercarlo, ad inchiodarlo sul posto. È come se fosse rinata, strappata fin dalle radici da un ambiente malsano, da un terreno bagnato di delusioni, concimato a ricordi di quella che era e non di quella che è. Della ragazzina frivola che, per svolazzare dietro a Draco, ha perso tutto di sé, Pansy adesso ha poco o nulla. Lo sente, però, che ogni tanto brucia; lo sente quando lo osserva, quando i suoi occhi si perdono sopra i suoi lineamenti nella penombra, e riesce così a pensarli più giovani, a pensarli diversi. Ma poi l'alba cancella la notte a colpi di pennellate potenti, quelle di quei suoi pittori, e Pansy torna a sorridergli per quello che vede davvero e non per quello che ha immaginato, con i sensi di colpa anestetizzati dal buio.

 

Si riscuote, quando lei gli posa la mano su un braccio e lo tira piano verso la riva opposta. Lo guarda e ride, ancora, di quella bizzarra abitudine Babbana di dare dei colori ai comandi: rosso significa fermo, verde significa andare. Gli ha fatto notare, con un'espressione fanciullesca e buffissima, che, anche per quegli stupidi dei Babbani, i colori Serpeverde battono quelli Grifondoro.

Lucius ha sorriso a sua volta.

Per qualche motivo malsano, quelle espressioni così leggere, spensierate, giovani, gli fanno venire voglia di averla ancora di più. Di macchiarne gli anni, di prendersela, di imprimere il suo nome in ogni angolo di pagina di quella vita ancora tutta da scrivere, mentre la sua ormai ha già scorso troppi capitoli. A volte, gli sembra che, in quella storia che porta il suo nome, non ci sia più nulla da dire e nulla ci sia da rifare.

Poi le unghie laccate di rosso di Pansy gli sfiorano il mento, i suoi occhi nerissimi e letali prendono al lazo i suoi, e Lucius si dimentica tutto, anche di aver pensato.

 

*

 

La figura di Pansy è stagliata lungo quell'orizzonte costellato di luci e brulicante di persone: è un'ombra nera e sottile, lucida e tagliente come una ghigliottina. La Conciergerie dietro di loro sembra sorridere, come lui, di quella metafora così azzeccata. Ha le guance leggermente arrossate da un vento leggero ma insidioso, che le accarezza i capelli attorno alle guance e le incornicia in un andirivieni morbido. Ha le labbra leggermente gonfiate dal freddo, pronte a spaccarsi se non curate per tempo.

 

La guarda, la vuole. I suoi occhi su di lei sono mani, ed unghie, e labbra. Sono incantesimi immobilizzanti, sono serpi.

 

Si arresta; interrompe quei troppi passi che lo ha costretto a mettere uno dietro l'altro, lusingandolo con fiumi di parole sulla bellezza che si può scorgere in ogni angolo, tra quelle strade parigine. Ma adesso si sente improvvisamente sordo a tutto quel tessere. La trattiene piano, con forza esigua, stringendo la pelle morbida dell'avambraccio. Si ritrova ad accarezzarla con il pollice, senza accorgersene; si ritrova a imporle – cauto com'è solo con lei – di fermarsi, di fermare quel suo perdersi, di salvarlo dalle onde che gli provoca addosso quel fiume piatto, dal disorientamento che quelle strade estranee gli cuciono addosso.

 

“Pansy”

La chiama con quella sua voce dura e ruvida, speciale, particolare, quella che a volte fa fatica anche a riconoscere propria, destinata solo a lei. Pansy si volta leggera, la lingua che – sbadata – le solletica un angolo delle labbra, gli occhi puntati su un tavolinetto dalla candela che vomita cera oltre il bordo e due menù scritti in una lingua che non saprà mai comprendere.

“Torniamo a casa?”

 

Lei lo guarda interrogativa, per quel tono che non trasuda propriamente una domanda. Pianta gli occhi nei suoi e riconosce, dentro la pupilla, un'urgenza che spintona e che la allarga. Ci pensa solo un secondo prima di rispondere, una protesta che si pianta dietro gli incisivi, poi annuisce appena.

 

“Avverti gli elfi, però. Ho voglia di fois gras

 

 



Note: se ho due giorni di tempo, è certo (matematico!) che scriverò nelle ultime ore del secondo giorno. E così è stato. Questo capitolo avrebbe potuto sicuramente dire di più ma, visto che ci sono ancora così tanti prompt e sono stati giorni impossibili a lavoro, lascio questa cosa un po' a metà, ancora introduttiva, questa volta dal pov di Lucius. 
So che ogni volta le mie note sembrano più che altro giustificazioni ma tant'è, capitemi.
Il titolo è preso dalla canzone Disney “Le Campane di Notre Dame”, la mia preferita in assoluto.

Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, vi abbraccio!
PS. Per un problema tecnico-tattico, il terzo capitolo aveva invaso anche il secondo. Adesso dovrebbe essere corretto! Un abbraccio

   
 
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