NINFEA TRA LE NINFEE
(parte prima)
[#writober, 8ott. – pallore]
Il pallore della luna spinge oltre il vetro del lucernario e si stende sulla pelle di Pansy come un velo di vernice, accentuando le zone d'ombra d'ogni piega del suo corpo. Lucius ha perso il sonno – mangiato da pensieri che hanno denti aguzzi – e adesso fissa quel suo corpo spiegazzato fino a poco prima dalle sue mani come qualcosa che non conosce davvero. Ha una posa innaturalmente bella, quasi finta, e lui si chiede se davvero ogni pezzo di lei sia parte di un'opera d'arte più grande, quella che mette su soltanto esistendo, muovendosi, dormendo. Pensa che, questa, forse è la loro più grande differenza, il punto di confine che non gli permetterà mai di toccarsi davvero, di fondere una vita nell'altra: lui, l'arte non sa farla. Può collezionare opere, può comprarne, trafficare con altre. Ma non c'è una vena creativa che pulsa, non riesce a produrre della bellezza in modo così naturale, innato. Lui sa solo rubarla ad altri, strappargliela dalle mani con le lusinghe del denaro e delle parole, morbidamente. Quello che sente di aver fatto anche con Pansy: quando la vede immersa nelle strade, a sovrapporre ciò che gli occhi vedono con quello che altri hanno riportato su tela, si chiede come ci riesca. Come riesca, dopo tutto quello che ha visto di lui – la sconfitta, la caduta, l'aver gettato suo figlio in pasto al male – fissare i suoi tratti e vederci qualcosa che fa luce. Come riesca, dopo aver amato Draco per tutta la sua breve vita, aver deciso di lasciarsi stringere da braccia così adulte, da braccia che non hanno velleità. Braccia che, tutta la vita, hanno stretto sempre lo stesso corpo – il corpo di una donna che, come lui, d'arte non sa farne.
Si chiede come riesca a scorgere qualcosa in quella sua – la gola si secca appena a quell'ammissione – aridità.
E poi un pensiero lo immobilizza ancora di più, tagliente nella sua verità: forse, non ci riesce. Forse, Pansy non vede nulla in lui – solo convenienza – la tranquillità che può dare un mecenate, la via per ottenere qualcosa che altrimenti non potrebbe avere, il guadagno che vince l'insicurezza di essere di nuovo messa da parte, per un'altra donna.
Un sospiro leggero lo distrae; si volta e la vede muoversi piano, con una mano che va a stropicciarsi gli occhi e l'altra che si allarga sulle lenzuola di seta, a cercarlo. La luce della luna si muove con lei, disegnandole addosso arabeschi di pallore su pallore.
Forse, si dice, di tutto questo, però, non gli importa poi molto.
*
“Pansy, svegliati”
Sono passate molte notti – alcune le hanno passate avvolti, altre lontani a mangiare il soffitto con gli occhi e il sonno scomparso – e Lucius a quei pensieri non è riuscito ancora a dare risposta. Si è fatto distrarre dal suo corpo, dalle strade che ci ha disegnato sopra con la lingua; ma pure dal Ministero, dall'Inghilterra, dalle cose che ha dovuto fingere e fingere ancora. Sorridere, stringere mani, posare la mano sulla schiena di Narcissa e cercare di non notare la sua rigidità, il disgusto per quel teatrino che devono continuare a mettere in atto e il senso del dovere che preme sulle spalle di entrambi. Le apparenze, prima di tutto.
Ma non lì, non con lei.
Pansy si muove leggera e mugugna appena quelle che sono sillabe senza senso ma dalle venature interrogative, mentre alza gli occhi e vede ancora la luna troneggiare nel cielo e il resto immerso in un buio allagante.
“Cosa... che succede?”
Lucius sorride appena, perché Pansy ha un viso bambino, gonfiato dal sonno – le labbra grandi, bellissime – e le pupille enormi in quella poca luce, quasi indistinguibili dall'iride di pece.
“Preparati”
Tutto quello che viene dopo sono movimenti meccanici, ingolfati dal sonno; insieme, un ammirare quel suo muoversi leggero, vagamente indispettito, con gli occhi ancora socchiusi e una curiosità che forse, sola, muove tutto il resto. Un maglioncino a righe, Babbano, un paio di pantaloni scuri, il viso di un pallore delicato, senza nulla ad agghindarlo. Un'espressione dubbia, una mano che si allunga, dita che si stringono contro la veste da mago. Interrogativi: quando ti sei vestito, dove stiamo andando, ma che ore sono. Riposte: alcuna. Un bacio sulla tempia, uno sull'orecchio, poi sul lobo, il collo, la gola, le labbra adesso al gusto di fragola. Il sonno che ancora abbassa le palpebre, corpi che si appoggiano leggeri. L'elettricità della sorpresa e di chi una sorpresa la fa. Un collezionista che vuole collezionare, che vuole tenere tutto quello che si è guadagnato ben stretto. Risultare il migliore – insostituibile, invincibile. La guarda: non vuole perderla, non vuole perdere. Esiste ancora un modo per vincere, strappare l'arte agli artisti, trattenerla, farla propria. Il caschetto si muove leggero, Pansy stroppiccia gli occhi. Il modo in cui la vuole – il modo in cui lei gli restituisce quel senso di vittoria – quasi gli fa male ai polsi, sotto i calli scomparsi alle mani – mani lisce, da signore. Mani che hanno solo conosciuto la fatica della bacchetta, il suo eterno sfregare e colpire e incantare e uccidere. Non può perdere, non può perdere ancora.
Pansy mormora piano. “Allora, andiamo?”
Note: purtroppo oggi non ho davvero avuto tempo per mettere mano alla storia. Quindi lascio un grande to be continued alla prossima puntata (che, se riesco, potrebbe essere proprio domani, tradendo i giorni pari).
Grazie comunque per essere arrivati fino qui!
Vi abbraccio