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Autore: Ciuscream    14/10/2022    7 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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FRUSCI DI SERPI
(parte prima)

[#writober, 14ott – serpente]

 

Pansy ha sempre pensato che, se avesse dovuto scegliere un altro corpo ed essere un Animagus, si sarebbe trasformata sicuramente in un serpente. Ha sempre amato la loro eleganza sobria, il loro muoversi sinuoso, la loro corazza che muta e muta sempre – sempre e mai uguale a se stessa. Si reinventano, i serpenti; quando la loro pelle è stanca e – forse, lo sono anche loro – la abbandonano semplicemente dietro di loro. La dimenticano. Lasciano intatta la loro potenza di veleno, la loro semplice e definitiva capacità di ferire ma si lasciano alle spalle qualcosa di inutile e trascurabile – una certa dose di sé non necessaria a sopravvivere, un'apparenza che si può costruire nuova, si può costruire migliore.

 

Pansy, immersa nelle vie di Montmartre, sente di aver fatto lo stesso.

 

C'è tutto e non c'è nulla di lei nella figura che si aggira fra le strade acciottolate, che si Smaterializza più lontano e lascia che Place des Vosges l'abbracci con le sue delicate ali in mattoni. C'è tutto e non c'è nulla di quello che sognava nella donna che adesso è diventata – se, poi, lo è diventata davvero. Forse, si dice, indietro ha lasciato solo la pelle di bambina, di capricci e meschinerie, di una Hogwarts in cui – sotto il lago – aveva immaginato di nuotare, immersa nella luce verde del suo futuro, in tutt'altra direzione. Forse, come un serpente, è emersa dalle spire morte di quella che era per riemergere in quelle – non troppo più vive – di quella che è. E, faticosamente, ha cercato una via di uscita.

 

Draco non è mai stato serpente, nonostante la sua casa ne fosse cosparsa in ogni angolo; nonostante spire e teste e denti dal veleno di legno fossero intagliate su cornici e tavoli e vasi e listelli del parquet lucido e fosse impossibile non lasciarci cadere lo sguardo sopra, risalire lungo le loro pieghe, arrivare agli occhi dalla pupilla sottile, alla lingua che si spacca a metà così da assaporare doppiamente il dolore instillato, per bearsene di più.

Lucius, invece, serpente era – è – fin dentro le viscere; forse, serpi sono le sue viscere stesse. Pansy ha riconosciuto in lui l'attrazione e la repulsione per qualcosa di tanto simile e, allo stesso tempo, riconosciuto così estraneo, così identicamente estraneo, troppo uguale per essere riconosciuto fratello, troppo specchio per non fare paura.

Lucius s'è insinuato, come lei, in angoli ed anfratti che, forse, adesso, avrebbe voluto aver evitato; perché la curiosità è sirena, ma anche le sirene sanno mordere e ferire e, la sua, ha cantato canzoni di vittoria fin troppo premature, che si sono mutate in lamenti di scuse e giustificazioni, in suppliche e pene fin troppo poco severe.

Come un serpente è riuscito a sguillar via – dalle responsabilità, da quelle più squisitamente legali a quelle verso le persone che ha trascinato nella tana sbagliata. Così come è scivolato via da sua moglie, dal suo sguardo di rimprovero, da un letto freddo e da mani ancora più gelide. È scivolato dove sapeva di poter trovare una preda che non lo avrebbe ritenuto predatore ma che poi avrebbe ceduto. E Pansy è stata quello – preda. Consapevole però e, quindi, doppiamente predata.

 

Pansy ora, però, dei serpenti vorrebbe solo la punta dei denti che cola morte e non quella loro attitudine primordiale a strisciare via, a strisciare altrove, in attesa del momento propizio. Soprattutto perché, teme, il momento propizio per lei non arriverà mai.

È con l'ombra di questi pensieri che si Smaterializza all'interno della casa di Suzanne Valadon, gemella alla sua, ora che tutti i Babbani l'hanno lasciata libera dal loro ingombro e il sole, indebolito dalla notte che incombe, ne lascia sfumare ancora sopra qualche raggio. Sente lo stesso odore di chiuso, in quelle pareti che sono state ridecorate per mimare quello che doveva essere un tempio, un tempio decadente di arte e pittura e amore e della bellezza, infinita, di una musa. Se ci pensa, Suzanne non sarebbe mai stata serpente – piuttosto aquila, scintillante, stagliata nel cielo e sulla tela di una fierezza senza pari.

 

Il piccole salone odora di polvere e stantio e, riflessa nello specchio di fronte a lei tamburellato di rovina, Pansy rivede la sua immagine solo in parte, quella che il sole arriva ad illuminare. Un pensiero, insinuante, la seda sul posto – chi è, quella?

La gioia scomposta che le ha donato Parigi dalla prima volta che ne ha sentito l'odore, le è sgocciolata dalle dita dopo l'ultimo incontro con Lucius, finita in un bicchiere di un rosso Babbano su cui finirebbe per perdere i sensi se non mormorasse prima qualche incantesimo anti-stordimento. E, quindi, deve tornare , deve tornare alla forza di vita, di magia, di potenza che le dà quella casa, le vibrazioni dei muri, il sussurro delle travi al suo passaggio.

S'incammina piano nella stanza accanto, in quello che era lo studio di madre e figlio, in cui madre e figlio hanno creato, hanno vissuto, hanno reso eterno ciò che vedevano i loro occhi mortali; pochi passi e, oltre la porta sbeccata, si trova di fronte l'immensità di una vetrata che si spalanca sul cielo. Cielo che lei, serpente, ha sempre ammirato poco, nascosta nei Sotterranei.

La stanza è grande, illuminata adesso solo dalle sfumature calde di un tramonto che muore e che immerge, della sua luce, cumuli di tele non concluse, tempere e tavolozze ormai seccate dal tempo e dalla dimenticanza, pennelli ritti come bacchette e un divano sfatto, sfinito, come lei.

Prende un respiro. Respiro breve che si mozza – aria che s'interrompe a metà, che non raggiunge i polmoni e non scappa dalla gola – e rimane sospeso, così, mentre una voce estranea, arrochita da un lungo silenzio ma cristallina nel suo dipanarsi, parla alla sua destra, facendola sobbalzare.

Un volto immerso in una cornice polverosa muove leggero le labbra e alza appena il mento, a mo' di saluto leggero.

“Bambina...”

Pansy impiega qualche secondo a mettere a fuoco le pennellate che compongono il volto, la realtà di quel dipinto che ha vita e che, quindi, riconosce simile – riconosce magico. È Suzanne che sta parlando.

“È la prima volta che arrivi così tardi”

Pansy ha la bocca arida di parole, affollata di confusione e di curiosità che non trovano una traduzione in sillabe. La fissa, stupita e rapita, annuendo piano a quella che sembra essere più una constatazione che una domanda. Ci vuole un secondo prima che riesca a biascicare qualcosa.

“Il tuo ritratto...”

Pansy abbozza il ragionamento ad alta voce ma il resto dello stesso si arrovella, silenzioso, nella sua testa, rendendola incapace di articolare altro. Quello che sputa fuori è soltanto la conclusione, mentre le parole di Lucius di qualche notte prima, adesso, le sembrano più chiare che mai.

“Tu... tu sei una strega”

La Suzanne Valadon olio su tela – la terrible Marie di Degas – le sorride piuttosto ironica, come se la divertisse quel suo sottolineare quella conclusione tanto ovvia. Schiocca le labbra prima di parlare di nuovo, un velo di serietà adesso a posarsi sulle lettere.

“Sì, lo sono. Quantomeno... lo ero

Pansy sbatte le ciglia qualche volta – un'aria inebetita che non le dona – e poi riprende a parlare, qualche passo che si muove verso di lei, più rigido e ingolfato di quelli mossi dalla solita leggerezza che le ha regalato Parigi.

“Non lo sapevo. Non mi hai mai... parlato”

“Non potevo, il rischio che entrasse qualche Babbano era troppo grande. Ci pensa già Maurice[1] a spaventarli, a volte” Sorride appena, con soltanto la venatura di un rimprovero ad incupirle lo sguardo. “Il suo ritratto è nell'altra stanza”

 

Pansy lo ricorda perfettamente: i baffi scuri, lo sguardo severo, la posa quasi regale di quell'uomo che non è mai riuscita a riconoscere magico. Se ne vergogna appena, con una punta di rossore sulle gote nascosta dalla penombra. È Parigi, forse, ad averle annebbiato lo sguardo, per colpa della foschia della lontananza o di una bolla di protezione che nasconde ma opacizza. È mortificata, però, che tra i mille cimeli che sa riconoscere strabordanti magia – tanti gli incantesimi che Lucius le ha insegnato, per primo – non ha incluso quei quadri, che le sono sempre sembrati fermi, immobili, innocui. Non ha mai visto una palpebra sbattere, la cornice vuota, uno sbadiglio di fronte alle chiacchiere vuote e incomprensibili di qualche Babbano. Ha trascorso in quella casa tantissimo del tempo che le abbondava ma – mai – avrebbe pensato di trovare lì della magia, mai ha pensato a quanto Suzanne potesse essere davvero simile a lei. Si rende conto con un capogiro di quanto sia stata stupida a non averci pensato prima.

 

“Non volevo interrompere i tuoi pensieri, dovevi averne molti per tornare qua mentre si fa notte. Però ti ho vista tante volte in questi giorni e stasera ho letto qualcosa di diverso nel tuo sguardo” Pansy distoglie le iridi da quelle dipinte con un pizzico di riluttanza, come se ci fosse rimasta incagliata dentro e fosse difficile divincolarsi. Il viso le rimane piuttosto rigido, non tradito da altra sorpresa oltre quel movimento impercettibile; solo gli occhi svettano verso il cielo che si è annerito e inizia a tamburellarsi di qualche stella dalla luce timida.

“Colpa di un uomo?”

Pansy sospira appena e gli occhi tornano improvvisamente annebbiati, come se la sua bolla le impedisse di lasciar trasparire troppo – non di fronte a lei – per non far diventare reale qualcosa che vive sospeso nell'irrealità.

 

“Non mi rispondere, cherie, non importa, lo so da sola. Mi permetto solo di dirti questo: ci sono sguardi che sono fatti per catturare e non per farsi catturare. A quelle come noi piace, alla fine, finire dentro le trappole, avere l'illusione che sia nostra la scelta di stare in una gabbia, anche dorata. Ma una gabbia è una gabbia, una trappola è una trappola. Ho amato molti uomini, molti di più hanno amato me. Mi hanno rubato gli occhi, la bocca, le mani, la linea dei fianchi, il colore delle gote. Tutto hanno preso di me – la luce che si riflette su una treccia – e l'hanno messa su tela. E poi, quando hanno visto che non potevo essere ristretta in pochi colori mescolati, che il mio viso non era proprietà di alcuno e le mie mani potevano competere con le loro pennellate, hanno scelto altro. Gli uomini sono pigri, per natura. Fingono che gli piaccia cacciare ma poi si stancano di correre, soprattutto se qualcun altro corre accanto a loro e, più che mai, se ciò che cercano di catturare è molto più veloce di loro. Non farti rubare gli occhi, ma petite amie, usali per guardare il tuo mondo, per cercare ciò che tu vuoi. Non piegarti, perché l'amore – quello vero, concesso esista – non schiaccia ma innalza. E, stasera, le tue palpebre, le tue spalle, sono piegate oltre la soglia del concesso. Alza gli occhi, bambina: scegli chi vuole renderti eterna, senza avere un quadro da esposizione in cambio.”

 

Pansy tradisce una smorfia, con la mascella che si serra per la frizione che quelle parole le hanno fatto sulla lingua, aspre della sua stessa acerbità. Ma non fa in tempo ad elaborare il pensiero successivo che, dalla stanza accanto, la voce calda e impastata di Maurice arriva alle orecchie di entrambe come un rimbombo, nel silenzio assoluto che le avvolge.

Maman, lasciala stare!”

(continua)

 



Note: [1] Maurice Utrillo, figlio di Suzanne Valadon.

Sul gong, arrivo a consegnare il nuovo capitolo scritto in mega fretta e furia. Era tantissimo che volevo far comparire Suzanne ed eccola qua!
Segnalo solo che il titolo è ripreso dalla poesia “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Vi abbraccio e grazie a tutti per essere arrivati anche oggi fino qui!

 

   
 
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