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Autore: Glenda    17/10/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Per tutti i diavoli dell’inferno, che ti è saltato in testa?!”

Quel mattino Zjam lo aveva fatto convocare in fretta e furia ed adesso Noam stava lì, nel salotto di casa Kàrkoviy, seduto al tavolo rotondo dove tante volte avevano preso il tè con tanto di moglie e figlia di lui, e che invece era coperto da svariate testate giornalistiche che presentavano quasi tutte la stessa notizia in prima pagina, in varie declinazioni.

«Elezioni a Mòrask: è sfida aperta tra Noam Dolbruk e i principali gruppi industriali del paese»; «Fondi per lo sviluppo del Dàrbrand, le parole di Dolbruk: “Il risultato di quegli investimenti deve ricadere sul benessere della regione”»; «L’impegno di Dolbruk e Màrna: “No all’apertura di nuove aziende non amministrate dalla nostra gente”»; «Il candidato sindaco sostenuto da Liberi Insieme chiede l’adeguamento degli stipendi allo standard nazionale per il personale impiegato nelle industrie dislocate nel Dàrbrand»; «Orizzonte dice no allo sfruttamento delle risorse dei monti Mor-dareùk senza approvazione dello statuto autonomo» e via così, con toni più o meno gonfiati, parole più o meno fedeli, plausi o critiche: ma la sostanza era quella, ed era la verità.

Era accaduto durante la prima tribuna elettorale in cui il professore si era ufficialmente presentato come candidato per la poltrona di primo cittadino a Mòrask: Lant aveva sollevato subito la spinosa questione dei fondi per lo sviluppo delle aree economicamente arretrate e Noam gli aveva dato spago, arrivando alla fatidica affermazione che, in caso di vittoria, l’amministrazione Màrna avrebbe negato i permessi di estrazione ai grandi cartelli che spadroneggiavano nel Dàrbrand, salvo il soddisfare una serie di requisiti che prevedevano, di fatto, un ritorno economico per la regione stessa.

Apriti cielo: nemmeno si fosse trattata di una dichiarazione di guerra! Il giorno successivo i media si erano scatenati, travolgendo un impreparato Kàrkoviy, che per la prima volta si trovava a fare i conti con l’idea che aveva sempre dato per buona solo sulla carta: la possibilità di dover prendere in mano apertamente la questione “Dàrbrand” e di doverne fare un cavallo di battaglia per le future elezioni politiche, volente o nolente.

“Ti rendi conto della bomba che hai appena sganciato, in piena campagna elettorale?”

Sì – pensava Noam - ma l’incoscienza ci salverà, e sperò che il solito, rilassato sorriso bastasse ad alleggerire la tensione.

“Eddai, Zjam! Le vuoi vincere o no queste le amministrative? Mi hai chiesto di espormi, e nel farlo mi hai chiesto di accattivarmi l’elettorato dei miei concittadini… pensavi bastasse essere darbrandese di nascita perché il gioco fosse fatto?”

Un’ombra passò sul volto di Kàrkoviy. Lo pensava, altroché. Così come aveva pensato che una trasferta a Mòrask, qualche discorso brillante e una bella faccia avrebbero fatto il resto. Non li conosceva proprio, i darbrandesi.

“Hai minacciato gli uomini più potenti del paese!”

Se Zjam, nella sua ordinaria posatezza, era capace di alzare il tono, lo aveva appena fatto.

Noam smise di sorridere: gli era successo più volte di vedere il suo collega nervoso, in agitazione, irritato, ma mai nei suoi confronti o a causa sua. Certo, gli era capitato di metterlo in imbarazzo, di spingerlo a dissociarsi da alcune sue prese di posizione o di dover mediare davanti ad una telecamera con parole come “il signor Dolbruk è libero di esprimere la propria opinione: Liberi Insieme non chiede ai suoi membri di recitare il verbo del partito”. Ma, a conti fatti, aveva sempre sostenuto che far parlare di sé – anche in modo controverso – portasse popolarità, e ogni screzio tra loro si era sempre risolto tutto in una scrollata di spalle.

Quel giorno era diverso: Noam sentiva la rabbia di Zjam, sentiva la sua frustrazione per esser stato scavalcato, sentiva la paura (quella paura che conosceva bene) che le cose sfuggissero dal suo controllo. Ma sentiva anche che si stava sforzando di non essere aggressivo con lui, e gliene era grato.

“Non credo di averli minacciati. Ho solo sottolineato l’ovvio… l’ovvio, almeno, per chi vive e lavora nel Dàrbrand.” (no: l’ovvio per suo fratello) “Questa era la sola promessa che poteva far presa sulla mia gente. Per ottenere il supporto di un popolo che rivendica la propria autonomia, l’unica mossa valida è dimostrargli che dalla rinuncia a quell’autonomia ha qualcosa da guadagnare…”

L’unica mossa valida per far presa su quella parte del Fronte che non si fondava su un puro e semplice nazionalismo, ma che basava la propria lotta su rivendicazioni più concrete: gli stessi che erano stati dalla sua parte una volta, gli stessi che potevano essere manipolati. Chissà se anche Thièl sarebbe stato disposto a sostenerlo, se davvero fosse riuscito a far abbassare la cresta a gente come gli Òraviy e compagnia bella.

“Se quelli che stai additando come i tuoi attuali nemici decidessero di abbandonare il Dàrbrand e portare i propri interessi altrove, i darbrandesi non ne avrebbero alcun vantaggio.”

“Ma non lo faranno, perché sarebbe l’equivalente che concedergli l’indipendenza. Per quali ragioni storiche credi che l’annessione del Dàrbrand sia stata così fortemente voluta?”

“Noam,” lo sguardo di Kàrkoviy si fece più scuro “anche noi riceviamo finanziamenti da loro.”

“Possiamo farne a meno.”

Zjam sbatté il palmo della mano sul tavolo.

“Dannazione! In che mondo vivi?”

Noam socchiuse gli occhi e prese un profondo respiro.

“Quando mi hai chiesto di collaborare con te, sapevi benissimo in che mondo vivo… e in che mondo avevo vissuto.”

Non voleva litigare. Eppure lo aveva sempre saputo che prima o poi sarebbero arrivati a questo. Aveva accettato di collaborare con lui perché Liberi Insieme era il male minore, perché Zjam non era un conservatore e non si opponeva ai cambiamenti… ma sapeva che non sarebbe stato nemmeno lui a spingerli. Voleva solo tenersi il suo posticino comodo in cui invecchiare tranquillo, con un’immagine intatta e una posizione sicura. Noam non amava strappare qualcuno dalle proprie sicurezza, sapeva bene cosa significava essere strappato via, anche se non aveva mai saputo cosa volesse dire sentirsi al sicuro.

“Mi dispiace.” disse.

Sembrava che Kàrkoviy non desiderasse udire altro e ritrovò subito un sorriso pacificatore.

“E meno male che almeno ti dispiace!” esclamò “Ma in qualche modo possiamo ancora sistemare tutto, basterà…”

Noam scrollò vigorosamente la testa: il sorriso di Zjam gli rimase congelato sul viso.

“Mi dispiace, ma a me non importa niente di vincere queste amministrative.”

“Non ti importa niente di… Noam, che stai dicendo?”

Lo guardò come per aver conferma di aver capito male.

“A me non interessa vincere le amministrative.” ripeté lui “E non mi interessa che Liberi Insieme passi da partito di opposizione a partito di governo. Non mi interessa del favore di Òraviy o di chi per lui, né dell’andamento dell’economia: non mi interessa nemmeno, per quanto possa apparire brutto da dirsi, di fare il bene dell’umanità.”

Esitò, respirò di nuovo a fondo, come per darsi il tempo di quel respiro per decidere se continuare o meno a parlare.

“Io voglio fermare il terrorismo nel Dàrbrand, Zjam.”

Le spalle di Kàrkoviy ebbero un sussulto, come se quelle parole gli apparissero completamente nuove, impreviste. Come se non ci avesse mai pensato.

“Tu… cosa?”

“Io voglio fermare il terrorismo nel Dàrbrand.” scandì, con voce solida “Ci saranno altri che penseranno a tutte le belle cose che si possono fare per rendere il mondo un posto migliore, ma io voglio fare questo, e lo voglio fare proprio perché so in che mondo vivo: perché penso di poterci riuscire.”

 

***

 

Quello che lui voleva.

Fermare il terrorismo nel Dàrbrand.

Trattare col Fronte.

Scendere a patti coi separatisti.

Ci erano volute le parole di Thièl per capirlo.

Suo fratello aveva ragione: i suoi ideali politici erano nati da un’opposizione, opposizione a suo padre, al clima in cui viveva, alla violenza, al rumore, alle restrizioni del governo centrale, al recinto troppo stretto dei Mor-dareùk e a centomila altre cose. Aveva sempre lottato solo contro ciò che non voleva.

Ci era voluto Thièl.

Ci erano voluti la sua rabbia e i suoi pugni. Ci erano voluti i suoi aeroplani di carta e le altalene.

E tuttavia, se Thièl era stato il mezzo, non era suo il merito: il merito era di Adrian.

Adrian che era riuscito a vederlo, nonostante tutte le menzogne e le omissioni.

Adrian che gli aveva detto di dar valore alla propria vita, perché lui era l’unico nella posizione di fare qualcosa che nessun altro avrebbe potuto fare.

Adrian che lo riteneva la persona migliore che avesse conosciuto.

Adrian che gli aveva appoggiato una mano sulla testa.

Era quasi paradossale che proprio lui, che un giorno gli aveva detto che nessuno è indispensabile, gli avesse offerto l’alibi per sentirsi tale almeno per un po’.

Noam sapeva di essere piccolo: sapeva che con le sue sole forze non avrebbe cambiato il destino di Mòrask, che non avrebbe segnato il corso della storia e non avrebbe, probabilmente, nemmeno mai ottenuto lo stramaledetto statuto autonomo e realizzato tutti i bei propositi coi quali era stato fondato Orizzonte: ma poteva essere l’uomo verso cui gli estremisti del Dàrbrand avrebbero accettato di allungare una mano, perché li conosceva e perché ci era riuscito una volta.

Doveva solo farlo di nuovo, e questa volta non fuggire.

Lasciò casa di Zjam con un forte senso di oppressione al petto, ma coi pensieri lucidi.

Adrian lo aspettava in macchina, perché sulla sua presenza a quella conversazione Kàrkoviy aveva messo il veto assoluto.

Come al solito gli bastò un attimo per leggere la situazione.

“Vuoi parlare o preferisci la musica?” lo accolse, tenendo tra le dita un paio di cd.

“Veramente avrei preferito un bicchiere di vino!” scherzò Noam “un liquore, della droga pensante, ma siccome devi guidare, vabbè…!”

“Ehi,” gli diede un amichevole pacca sulla spalla “non sei tenuto a sorridere quando non ti senti sorridente, non te l’ha ordinato il dottore.”

“Mm…” lui si stropicciò la testa “Già.”

Prese i cd dalla mano di Adrian, lesse i titoli delle tracce, ne mise uno nell’autoradio. Una canzonetta banale si diffuse nell’abitacolo.

“Però portami davvero a bere qualcosa.”

Adrian mise in moto.

“Come ti pare. Ma è mezzogiorno, non fare il darbrandese.”

“Non fare il gambemolli.”

Kàrkoviy abitava fuori città, in una villa in collina, e la strada offriva una bella vista panoramica sul mare. Molto cielo, molto orizzonte.

“Ho conosciuto Zjam per colpa di una manifestazione che avevo organizzato io. Avevamo allestito una specie di palcoscenico delle lamentele al Parco della Memoria. Chiunque voleva poteva prendere il microfono e raccontare di quando aveva avuto bisogno di aiuto e di come il sistema sociale non aveva fatto ciò che avrebbe dovuto fare. Giorno e notte, h24, in diretta web. Non avevamo nemmeno mezza autorizzazione per farlo, ma, nell’indifferenza generale, abbiamo resistito quasi tre giorni. È pazzesco quanta gente trovi irresistibile l’idea di denunciare un’ingiustizia che sente di aver subito, e di farlo davanti a tutti… dopo il secondo giorno la partecipazione era diventata non ignorabile, ci hanno fatto sgomberare e io ho ricevuto una multa che nemmeno due anni d’affitto. Non l’ho mai pagata: Zjam ha ottenuto retroattivamente tutti i permessi, con la sola condizione di poter parlare a tu per tu con me. Le elezioni politiche erano vicine, Orizzonte aveva un progetto ma non i numeri per presentare una lista, Kàrkoviy era il leader di un partito in crisi ma aveva prestigio e la quasi certezza di essere rieletto: ho trattato con lui per l’inserimento di alcune nostre priorità nel programma di Liberi Insieme. Sapevo che non poteva essere un’alleanza duratura e immaginavo – anche se ho sempre sperato di no – che anche Zjam, per trovarsi dove si trovava, non potesse essere un uomo del tutto pulito. Ma è sempre stato gentile con me, ed io sono fin troppo sensibile alla gentilezza. Mi sono affezionato. Credo di volergli bene e mi sento in colpa di aver agito alle sue spalle. Ma mi sento anche indignato per il fatto che mi abbia confermato apertamente di ricevere finanziamenti dalle stesse persone che in questo momento io devo, per forza di cose, attaccare. Più sono abituato ad essere odiato, più mi fa male.”

Adrian aveva ascoltato quel racconto col consueto silenzio pieno di attenzione.

“Tu pensi che non ci sia nulla di intermedio tra l’odio e l’amore?”

Amava le sue domande: non si capiva mai in che direzione volessero andare, o dove ti volessero portare.

“L’indifferenza…?”

“L’indifferenza non è un sentimento. È più uno stato d’animo neutro a cui puoi sovrapporre cose. Ma penso che si possa rispettare senza amare, oppure stimare odiando moltissimo. E soprattutto, penso che si possa voler bene a qualcuno anche disapprovandolo, o persino detestandolo fino a desiderare, che ne so…” lo guardò in tralice “di spaccargli un labbro.”

Amava quella dote di staccarlo da se stesso: di fargli immaginare le sue stesse emozioni provate da altri.

“Io non conosco Kàrkoviy.” riprese “Come non conosco tuo fratello e nessuno dei tuoi amici di Mòrask. Ma a volte penso che tu abusi delle parole odio ed amore, come se fossero sentimenti definitivi, implacabili e terrificanti. Proprio tu che in ogni cosa che fai o dici cerchi la dolcezza e le sfumature. Ammettiamo che Kàrkoviy sia molto arrabbiato con te e che le vostre posizioni non possano conciliarsi mai più: basta questo per parlare di odio?”

Lo stava ad ascoltare come un ragazzino che ascolta i consigli di un adulto.

“E tu… che abbracci tutti, che dici di fidarti di tutti, che cerchi l’affetto della gente, che lo ricambi, che vorresti fare gli altri contenti: basta questo per parlare di amore?”

No.

Non che non bastava.

Quello che provava per Adrian, invece, quello sì: era senz’altro una forma di amore.

“Credi che io abbia fatto una mossa sbagliata?” chiese a bruciapelo.

“Credo che tu abbia fatto una mossa coraggiosa e, guarda un po’ la novità, pericolosa. E credo che come al solito la cosa sotto sotto ti piaccia, perché – altra novità – metterti in pericolo ti fa sentire in pace con te stesso…”

“Ma…?”

“Ma se io non sapessi chi sei, se tu non fossi l’uomo onesto che conosco, dall’esterno penserei che questa è tutta una trovata pubblicitaria: le solite dichiarazioni buttate al vento per attirare l’attenzione, per far parlare, le solite manovre politiche da talk show. Sicuro che il professor Marna non abbia in mente proprio questo?”

Sincero come sempre: Adrian non giudicava e non blandiva, lui prendeva atto e poi riferiva quel che vedeva.

“Ecco uno dei mille motivi per cui dovrei sempre parlare con te prima di fare qualsiasi cosa.”

“Su questo ti sbagli. È la tua spontaneità che è una garanzia, per me. Grazie a dio, tu non sei un calcolatore, e sono sicuro che intendi davvero fare esattamente ciò che hai promesso. La domanda che dovresti porti, piuttosto, è in che modo lo farai.”

“Mm…” touché. “Ci devo pensare…”

Adrian scrollò la testa e un sorriso storto comparve su un lato della sua bocca.

“Alla faccia del vivere il presente, eh? Mi correggo. Dire che non sei un calcolatore è riduttivo: nelle scommesse scoperte sei campione mondiale!”

Noam scoppiò in una risata e il groppo che aveva in gola si sciolse definitivamente.

Adrian aveva su di lui anche quel potere, già…

 

***

 

Noam pensava che solo nei film potesse accadere di trovarsi una grossa macchina coi vetri scuri parcheggiata sotto casa e di vedersi venire incontro un uomo alto come un armadio, con tanto di occhiali scuri e completo, che gli chiedeva se gentilmente poteva accettare un invito per una “chiacchierata informale”. Quella sì che era la situazione in cui non si sarebbe stupito nel vedere Adrian tirare fuori una pistola…! Invece Adrian prese la parola al posto suo, e si rivolse all’ingombrante messaggero con la disinvoltura di chi parla ad una vecchia conoscenza.

“Prima di accettare un invito così improvviso credo che il mio cliente gradisca delle presentazioni. Non ti risponderà si grazie a scatola chiusa.”

L’omone diede in una fioca risata che non rese meno severi i tratti del suo viso, ma, per una forma di gentilezza, si tolse gli occhiali e tese la mano a Noam.

“Ma certo, mi perdoni, signor Dolbruk. È che immaginavo si aspettasse già questa richiesta.”

Noam fece correre lo sguardo da lui ad Adrian, e viceversa, con una domanda sospesa negli occhi.

“Il signor Òraviy desidera parlarle.” chiarificò allora l’uomo “Di persona e in privato. Se non ha nulla in contrario, l’accompagno da lui.”

“Senza alcun rispetto del tempo del mio cliente” si intromise Adrian “che potrebbe avere altri programmi per la serata… ”

“Vesna, non fare il pignolo!” e sul suo volto c’era un’espressione che pareva dire pensa a quante volte ti sei trovato nella mia stessa situazione.

“Va bene, d’accordo.” tagliò corto Noam “Posso rimandare eventuali altri programmi.” e strizzò l’occhio ad Adrian.

“La ringrazio. Mi avevano informato che lei è un uomo molto conciliante.”

“Il signor Dolbruk è un uomo pure troppo conciliante” commentò Adrian, e, prima che l’altro potesse intervenire, aprì lo sportello posteriore “ovviamente sono tenuto ad accompagnare il mio cliente ovunque tu voglia portarlo, Vìrnosz. Il signor Òraviy non se ne farà un problema: sa come lavoro.”

Si scambiarono un’occhiata eloquente.

“Il signor Òraviy lo ha preventivato e la tua presenza è gradita, Vesna. Ci mancherebbe altro!”

 

***

 

Nonostante quasi tre anni in politica, c’erano cose che continuavano a mettere Noam a disagio. Tra di esse c’erano le macchine troppo grandi col sedile davanti lasciato vuoto, l’ostentazione del lusso e la farsa della sicurezza, e durante quel breve tragitto dovette sforzarsi per convivere con tutte e tre. Ma soprattutto si sforzava di immaginare Adrian al posto del tizio che era venuto – letteralmente – a prelevarlo sotto casa.

Sapeva che aveva lavorato per Kàmil Òraviy e che aveva fatto parte della sua scorta personale per anni, ma Noam percepiva sempre un sottile disprezzo quando gli parlava di quel mondo, e lo aveva percepito anche un attimo prima, quando si era relazionato con l’ex collega. Un giorno gli aveva detto che fare la guardia del corpo non era una vocazione ma solo un mestiere e che, anzi, “preferiva lavorare persone di cui non aveva stima”, che comunque gente come quella avrebbe sempre trovato qualcuno disposto a proteggerla, e allora tanto valeva lo facesse lui. Tanto valeva lo facesse lui. Che era un po’ come dire che il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. Che era come dire che non gli importava poter pensare di se stesso che faceva qualcosa di buono o di bello. Questa idea lo aveva sempre turbato un po’, almeno quanto lo turbava l’idea di venir investito della responsabilità della vita di qualcuno senza provare per quel qualcuno alcuna forma di sentimento.

E lo turbava di più l’idea che Adrian non fosse consapevole di poter fare la differenza, che non avesse la più pallida idea di quanto la sua presenza lo avesse sostenuto, rasserenato, influenzato.

Scesero dalla macchina ai piedi di una villa che rispecchiava il peggiore dei cliché, partendo dalle siepi di bosso nel giardino e dai vialetti di ghiaia bianca per finire alla scalinata di marmo e alle statue a grandezza umana di un kitsch imbarazzante. Noam si chiedeva come si potesse vivere in un posto del genere, e si chiese anche se invece i padroni di casa non ci vivessero affatto, ed usassero quella location solo per mettere a disagio gli interlocutori scomodi.

Quel giorno era lui l’interlocutore scomodo, ma chissà quanti altri ne erano passati di là, chissà quante volte uomini come Kàmil Òraviy avevano mandato a chiamare un disgraziato che aveva osato alzare una voce contro di loro con la naturalezza con cui un professore infastidito chiama l’alunno indisciplinato alla cattedra.

Vìrnosz si fermò ai piedi della scala (tanto sulla porta principale c’erano altri due uomini, più immobili delle improbabili statue di dubbio gusto) e fece cenno ad Adrian di trattenersi, ma lui lo ignorò. Noam se ne sentì sollevato.

Un altro individuo, ingessato in un completo da serata di gala, li accompagnò in glaciale silenzio per un dedalo di sale - sui cui arredi da museo Noam evitò di soffermarsi - finché non fu davanti ad una porta aperta da cui proveniva molta luce, e annunciò i due ospiti al padrone di casa.

Dall’interno, la voce argentina e quasi dolce di Kàmil Òraviy lo sorprese, contrastando bruscamente con l’austerità dello studio, dell’uomo in completo e di quell’atmosfera da inquisizione (ma non con la bella luce del pomeriggio, che invadeva lo studio del Grande Capo con la sfacciataggine che solo il sole di certe belle giornate sa avere).

“È una gioia conoscerla di persona, signor Dolbruk! E mi voglia scusare per lo scarso preavviso!”

Prima che potessero affacciarsi sulla soglia, il padrone di casa si era alzato da un largo divano angolare ed era andato loro incontro, porgendo la mano a Noam e afferrando la sua vigorosamente.

“Ed è un piacere anche rivedere lei, Adrian, benché avrei preferito che qualche volta fosse passato per un saluto: lei sa che provo un perverso piacere nell’essere adulato e sarebbe stato molto gentile da parte sua assecondarmi!”

Adrian abbozzò un sorriso di cortesia.

“Non sono quel tipo di persona. Sono piuttosto il tipo che porta a termine il suo lavoro e poi toglie il disturbo come se non fosse mai passato. Se non sbaglio lei mi apprezzava esattamente per questo.”

Si guardavano dritti negli occhi con una diffidenza affabile, consapevoli l’uno dell’intelligenza dell’altro.

“Lo so, lo so, ed è quasi un peccato, perché lei è un eccellente conversatore. Quasi come il nostro promettente parlamentare, qui. Non pensa anche lei, signor Dolbruk?”

Gli rivolse un’occhiata amabile e Noam si sentì per un attimo inchiodato da quello sguardo. Pensò che Kàmil Òraviy fosse indiscutibilmente l’uomo più soverchiante che avesse mai incontrato: altissimo, spalle larghe, lineamenti perfetti, un sorriso accattivante ma pieno di sottintesi, il portamento di chi ha la certezza di essere guardato e non teme alcun giudizio. Sembrava irreale: preso tutto di un pezzo dalla copertina di una rivista, dalla locandina di un film, e messo lì… Finto: ma con due occhi di ghiaccio così affilati che sembravano poter guardare anche l’invisibile e mettevano paura. Era stato quell’aspetto ad aiutarlo a divenire Kàmil Òraviy, o era stato l’essere Kàmil Òraviy a portarlo a costruirsi quell’aspetto?

“Oh, mi perdoni. Non l’avrò mica messa in imbarazzo?”

Noam si riscosse, sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.

“Assolutamente. È stata piuttosto la modalità dell’invito a mettermi in imbarazzo, se si può dire.”

Uno ad uno e palla al centro.

“Mi scuso anche per questo,” (nessun reale dispiacere nella sua voce, al contrario, un divertito compiacimento) “ma avevo davvero molta, molta urgenza di parlarle. Per la stima che ho di lei, mi creda!”

Quell’uomo era pericoloso e non voleva nascondere di esserlo.

“Infatti sono qui.”

E rimase lì, in attesa, cercando di mantenere fermo il sorriso e non abbassare lo sguardo.

Òraviy fece spazio sulla porta, e lo invitò ad entrare. L’uomo che li aveva accompagnati era scomparso come un fantasma, senza rumore.

“Preferirei che parlassimo da soli” disse, guardando in tralice Adrian.

“Io preferirei di no.” tagliò corto Noam.

“Di cosa ha paura, signor Dolbruk?”

Mellifluo, terribilmente gentile.

“Dei conflitti.” rispose.

“Oh, ma io detesto i conflitti. Non ci sarà alcun conflitto tra le mura di casa mia.”

“Non ci sono segreti tra Adrian e me. Voglio che resti. ”

Òraviy annuì con lentezza, poi lo squadrò da capo a piedi con quei due occhi incredibili, attenti, troppo attenti, ma troppo, troppo distanti.

“Lei è proprio giovane. Quanti anni ha, se posso permettermi?”

“Trentadue.”

“Trentadue. L’età di mio figlio.”

Lo disse con distacco, senza nessuna forma di tenerezza paterna. Noam pensò a Segùr: come si faceva a vivere nell’ombra di un padre simile? Ad essere qualcuno, nonostante un padre simile? Da un genitore così, non era possibile sperare di essere visti e per esistere c’erano due sole strade: sfidarlo o fuggire. Segùr era fuggito. Lui aveva fatto prima una cosa e poi l’altra.

“Trentadue,” ripeté “e così pieno di risorse. Complimenti. Ma lasci che le dica una cosa, lo prenda come un consiglio da parte di chi ha più esperienza di lei: è importante avere dei segreti. I segreti tengono al sicuro non solo noi, ma soprattutto le persone con cui scegliamo di non condividerli.”

Noam rimase di nuovo per un attimo bloccato, incerto se dovesse interpretare quella frase come una non richiesta perla di saggezza o come una minaccia. Fu Adrian a sciogliere l’impasse.

“Se il signor Òraviy desidera parlare con te, non vedo perché dovrei intromettermi. Stai tranquillo, conosco perfettamente questo posto e le persone che lavorano qui. Non c’è luogo più sicuro.”

Òraviy sfoggiò un sorriso d’approvazione al suo indirizzo e lui ricambiò, ma con gli occhi cercò Noam, che comprese benissimo. Se Adrian avesse voluto ascoltare quella conversazione, lo avrebbe fatto: niente di più semplice per uno come lui, che aveva lavorato in quella casa per anni.

 

  
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