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Autore: drisinil    19/10/2022    3 recensioni
[kurotsuki] [nospoiler] [canonverse] [long: 2 capitoli/settimana]
«Signor è-solo-un-club sei senza parole?» lo provoca Kuroo. «Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!»
«Okay, ma solo se il brindisi mi piace» risponde Kei con arroganza, spingendosi gli occhiali sul naso.
Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»
«Se vuoi...»
Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di scostarsi dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, crea pressione e controlla il gioco.»
Kei sorride, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto.
E' il vino più buono che abbia mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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23 - Lacrime di coccodrillo


11 marzo 2011
 

La cosa più spaventosa di un terremoto è il boato. Anche per uno razionale come Tsukishima Kei, il rombo della terra che si scuote è un suono che vibra delle armoniche più profonde della paura. Un terrore ancestrale, viscerale, da uomini primitivi in balia della furia degli elementi.

Quando la terra trema, gli studenti del club di pallavolo della scuola media Amemaru hanno da poco finito il riscaldamento e stanno allenandosi nel servizio.

Il boato sorprende Kei in fila, in attesa del suo turno. La palla gli sfugge di mano e rimbalza in modo scomposto, attraversando la palestra con lentezza irreale.

La terra trema. Si scuote, si torce, sobbalza e intanto lancia quel suo cupo ruggito da bestia mostruosa.

Le ceste a rotelle iniziano a vagare per la palestra spinte con violenza da mani invisibili, l'orologio si stacca dal muro in uno schianto di vetri in frantumi, i pali della rete oscillano sulle bussole di fissaggio, urlando con uno spaventoso clangore metallico.

E continua. Continua. Continua. L'adrenalina rallenta il tempo, il panico si diffonde, in molti piangono, ma non Kei. Kei è spaventato, ma lucido. Ha avuto la presenza di spirito di guardare l'orologio prima che cadesse e segnava uno o due minuti dopo le due e tre quarti. Ora il cellulare indica tre meno dieci e la terra trema ancora. Anche tutte le finestre della palestra tremano, vibrando nelle cornici.

Yamaguchi è fra quelli che piangono; non è isterico, ma terrorizzato. Accovacciato in un angolo, respira troppo velocemente.

«Non frignare, Yama. Respira come si deve!» gli ordina Kei, spazientito.

Tadashi non gli risponde, forse non lo ha nemmeno sentito.

Kei si inginocchia e gli stringe la spalla. «Yama! Respira. Lentamente. Così: dentro.... fuori...» Kei offre il modello di una respirazione lenta e regolare. «Così, Yama. Dai, respira piano e riprenditi. Dobbiamo andarcene.»

Gli occhi di Tadashi tornano presenti e si guardano intorno. Kei lo afferra per la maglietta costringendolo ad alzarsi. «Usciamo, seguimi.»

Benché evacuare i locali al piano terra sia esattamente quanto previsto dalle esercitazioni antisismiche, nessuno lo sta facendo.

«Usciamo tutti! Andiamo al punto di raccolta» ripete Kei a voce più alta, indicando la porta con gesti ampi. «Muovetevi, ma non correte.»

Sarebbero le battute del coach, il quale, però, sembra aver dimenticato il piano di evacuazione e anche di essere l'unico adulto.

La paura ti deve solo attraversare, Kei, non permetterle di comandarti gli sussurra nella mente la voce saccente di suo padre.

«State lontani dalle finestre e dai faretti del soffitto!» intima Kei.

Come in risposta, un faretto si stacca e si infrange sul pavimento. Uno dei primini grida, Kei lo prende per un braccio e lo trascina, insieme a Yama, verso la porta. Lo seguono tutti, come un branco di pecore.

Sono quasi arrivati al punto di raccolta esterno, quando la scossa finisce. E' stata fortissima oltre che molto lunga, questo Kei l'ha capito. La scuola ha l'aspetto terrificante e desolato di un manicomio, in cui si aggirano spaesati adulti incapaci di fingersi tranquilli e ragazzini atterriti.

Una cosa che Kei non dimenticherà di quel giorno è il fatto che il primo a pensare alla centrale nucleare sia stato Yama, mentre aspettavano che sua madre venisse a prenderli in auto, per riportarli a casa.

«Pensi che tuo padre...» Yama, fulminato dallo sguardo astioso di Kei, si morde la lingua. «che lì a Fukushima sia tutto a posto?»

«La centrale ha il sistema SCRAM attaccato ai sismografi, te lo ricordi? Quello con le barre di controllo che entrano tutte insieme nel nucleo e spengono i reattori.» Kei mima, con le mani che spingono l'aria verso l'alto, il movimento di inserimento delle barre. «Con un terremoto così, lo SCRAM sarà già bello che scattato.»

Yama annuisce, gli hanno spiegato questa faccenda quando hanno visitato la centrale all'inizio dell'anno scolastico. Non si ricorda bene i dettagli, ma conta di più il fatto che Tsukki sia così tranquillo.

«In questo momento staranno funzionando i generatori elettrici a diesel, per continuare il raffreddamento, che serve per le reazioni residue» prosegue Kei con sicurezza. Le procedure d'emergenza della centrale, il loro oliato meccanismo che non ammette imperfezioni e garantisce la sicurezza della popolazione, sono state le favole della sua infanzia. Papà gliele raccontava pieno di orgoglio, tenendolo in braccio davanti al bellissimo plastico in scala 1:50 di Fukushima Dai-chi, che aveva costruito a casa. Un oggetto meraviglioso e proibito, che né Kei né Aki avevano il permesso di toccare. Ovviamente, è una delle prime cose che si è portato via, la scorsa estate.

Il resto di quella giornata è frammentario e confuso. Altre scosse forti, le notizie tragiche e incredibili dello tsunami e della devastazione di Sendai, le reti telefoniche e internet impazziti e inutilizzabili. Più di tutto, Kei ricorda l'espressione determinata di sua madre, costretta dagli eventi a tornare nel mondo reale. Sotto la facciata di disinteresse e svagatezza si nasconde una donna molto intelligente.

La televisione offre informazioni confuse, la TEPCO non rilascia dichiarazioni. Tsukishima Leon non telefona ai suoi figli.

Kei inizia a sospettare che qualcosa non vada quando, verso sera, internet ritorna a funzionare e sui siti americani e cinesi si vedono le immagini di Sendai dopo il maremoto. Strade, case, automobili, treni travolti e spazzati via dalla furia delle onde anomale, la cui altezza non è mai la stessa ad ognuno che dà la notizia. Kei è sicuro che le barriere anti-tsunami della centrale siano alte dieci metri. E se le onde fossero state più alte? Gli è chiaro cosa accada a un generatore diesel se si trova sommerso in acqua di mare: smette di funzionare. Quindi le domande sono due.

Primo: come andranno avanti gli impianti di raffreddamento se i generatori sono fuori uso?

Secondo: il calore delle reazioni residue può accumularsi fino a diventare pericoloso?

La prima domanda ha una risposta semplice e amara: in nessun modo. Per la seconda Kei non ha certezze. Non conosce la formula, non ricorda i parametri della centrale, se anche li sapesse, forse non vorrebbe davvero fare il calcolo. Mettere la testa sotto la sabbia: una delle cose che papà detesta di più al mondo. Neanche a Kei piace, ma questa volta ne comprende le attrattive.

«E se esplodessero i reattori? E se il personale fosse esposto alla radiazione? E se la TEPCO volesse lasciarli lì dentro, pur di recuperare la centrale?» chiede ad Akiteru, steso accanto a lui sul letto, in una raffica di dubbi spaventosi.

Aki si finge tranquillo, ma continua a palleggiare contro il muro da disteso, uno dei suoi gesti più tipici di auto-rassicurazione. «Kei, se fosse così grave ce lo direbbero. Evacuerebbero le città e i villaggi lì intorno. E anche il personale, no?»

Kei annuisce, ma non è affatto convinto che qualcuno si prenderebbe la responsabilità di diffondere il panico prospettando la probabilità aleatoria di un incidente nucleare grave come la fusione di un reattore. Lo direbbero all'ultimo momento, se l'esplosione diventasse una certezza e l'evacuazione immediata una necessità.

«Sei preoccupato per papà, Keicchin?» gli domanda Aki, interrompendo il palleggio e allungando una mano per accarezzargli i capelli.

Kei interrompe il gesto con una manata infastidita. «Non chiamarmi così! Non me ne frega un cazzo di lui» mente Kei. «Sono preoccupato perché se scoppiano i reattori, siamo tutti fottuti.»

«Papà non permetterebbe a nessun maremoto di fare esplodere i suoi preziosi reattori. Sono come...» Aki si interrompe e lancia forte il pallone contro il muro. L'angolo di rimbalzo lo proietta contro la libreria, sulla scrivania e poi per terra.

«Volevi dire: figli? Quelli che vengono prima di tutti,  a cui si dedica tempo e a cui non si dice mai di no?» Kei, a quattordici anni, padroneggia il sarcasmo come un adulto. «I reattori saranno anche figli suoi, ma, sai com'è, lui ancora non comanda gli elementi, anche se  forse è convinto di sì. Certo che poteva almeno alzare il telefono per sapere se siamo ancora vivi.»

«Lo ha fatto, Kei. Ha chiamato. Due volte. Sei tu che gli hai bloccato il numero.»

E' la verità. Kei si ricorda all'improvviso di averlo fatto davvero, mesi fa. Mamma ha addirittura inscenato un blando tentativo di sgridarlo. «Tu ci hai parlato, Aki? Che ti ha detto?»

«Che sta bene. Che dobbiamo stare tranquilli. Che è tutto sotto controllo, alla centrale. Che dobbiamo rispondere al panico altrui con la massima lucidità e cercare di essere d'aiuto qui a Osaki.»

Sembrano proprio le parole che papà direbbe ad Akiteru, per questo Kei pensa che non sia affatto la verità.
I giorni successivi gli daranno ragione.

***

La visita degli Okamoto arriva tre mesi dopo. Si presentano senza preavviso, sette giorni dopo la morte di Tsukishima Leon, per una leucemia fulminante che le fonti ufficiali TEPCO negano essere legata alla radioattività a cui è stato esposto nei giorni del disastro.

Quando suona il campanello, è mamma ad aprire la porta. E' strano vederla ancora così presente a se stessa; il tributo d'attenzione che la realtà ha pretesto da ciascuno si misura in decine di migliaia di morti, famiglie distrutte e un incidente nucleare secondo solo a Chernobyl. C'è voluto tutto questo per farla riscuotere, anche se sta già pian piano scivolando nella sua normale inconsapevolezza.

Kei sente i convenevoli e tenta la fuga verso la propria stanza, ma Akiteru, che sta scendendo le scale, lo trascina giù di forza per la collottola, insensibile alle minacce di morte.

I visitatori sono un uomo e una donna giovani, in abiti da lutto: Okamoto Tetsuya e Okamoto Ayumi. Lui è un tipo comune, lei invece attira l'attenzione: è piuttosto alta per una donna, con un bel fisico e un viso volitivo i cui tratti, forse, si adatterebbero di più al volto di un uomo. Al contrario del marito, occupa lo spazio come se le appartenesse, ed è una cosa che a Kei piace.

Gli piace di meno quando si inchina di fronte all'altare commemorativo del padre. Addirittura si prostra. In ginocchio, con la faccia sul pavimento e le punta delle dita unite. E piange. Un pianto quieto e silenzioso, ma vero, come se fosse disperata. Versa più lacrime lei di quante non ne hanno versate Kei, Aki e la mamma, tutti insieme. Eppure, non ha per niente l'aria di una frignona.

«Non posso nemmeno esprimere quanto ha fatto per noi il Professor Leon» dice, dopo essersi ricomposta, di fronte a una tazza di tè. «È un debito di gratitudine che non si può saldare. Io... quando noi, voglio dire, quando è successo, a marzo... »

Il marito le tocca la spalla, lei annuisce. «Vi chiedo perdono, sono qui per onorare il vostro lutto e la memoria di un eroe, non per annoiarvi con i miei fatti privati» dice Ayumi, asciugandosi il viso dalle lacrime e tirando su col naso.

La parola eroe esercita una frizione dolorosa sulle parti esposte dell'anima di Kei, rinnovando una collera, che, anche postuma, continua a divorarlo.

Mamma mormora qualche parola di vago ringraziamento. Akiteru guarda la visitatrice con simpatia e con ammirazione: «Lei lavorava alla centrale con mio padre, Okamoto-san? Sembra molto giovane.»

Ayumi annuisce. Sorride con occhi nerissimi, dal taglio vagamente felino: «Sono stata sua tesista, e poi mi ha offerto di continuare lavorare con lui, poco meno di un paio di anni fa. E' stato un grandissimo e immeritato onore.»

«Dev'essere molto in gamba» si complimenta mamma. E' una formalità, ma Kei pensa che debba esserci del vero: selettivo è un pallido eufemismo per descrivere l'atteggiamento di papà verso i collaboratori.

«E' mio marito il genio» risponde lei, posando la mano su quelle di lui. «Ma, ancora, chiedo scusa. Non siamo qui per parlare di noi» si schernisce.

«Tsukishima Kei» lo chiama, all'improvviso, voltandosi verso di lui. «Tuo padre diceva sempre che gli somigliavi, ma finora non sapevo quanto. Giochi a pallavolo, vero?»

Facile dedurlo dalle scritte sulla felpa. Kei odia quando gli adulti si rivolgono ai ragazzi con domande fuori contesto, solo per tentare di ingraziarseli. 

«Mn» risponde Kei, senza nascondere l'irritazione.

«Anche mio fratello» dice lei, con un sorriso. «Ha iniziato da poco il secondo anno di liceo. In che posizione giochi?»

Kei la trapassa con uno sguardo ostile e non risponde.

«Vedo che le somiglianze con il professore non si limitano al fisico» commenta Ayumi, con una specie di addolorata nostalgia, che non ha alcun diritto di provare. «Quella faccia oltraggiata è proprio identica.»

E' una stronza fastidiosa, ma brava a leggere le espressioni.

«Lo deve scusare» si intromette subito Aki. «Kei è... »

Ayumi lo interrompe subito e si rivolge ancora a Kei: «Sono io che devo chiedere scusa. Tsukishima-kun, mi sto prendendo delle libertà perché sei più giovane di mio fratello, e per la stima che provavo per tuo padre, non certo per mancanza di rispetto. Spero che vorrai perdonarmi.»

Kei sfoggia uno sguardo annoiato e continua a non dire una parola.

Ayumi abbozza un sorriso e inizia a frugare nella propria borsa, estraendo un pezzo di carta. «Tuo padre mi ha incaricato di darti questa lettera» aggiunge, chinando il capo. La porge a Kei con due mani, trattenendola agli angoli fra le dita.

Kei impallidisce. Respira sonoramente, si aggiusta gli occhiali, quindi afferra con malgarbo la busta dalle mani di Ayumi. Si concede il tempo di riconoscere la grafia fin troppo precisa di suo padre e poi strappa la lettera. Così, davanti a tutti, senza aprirla, senza commenti, riduce la carta in coriandoli, una nevicata fuori stagione che si deposita volteggiando sul tappeto.

«Con permesso» dice poi, alzandosi, seguito da un coro di balbettii, parole spezzate e scuse offerte al suo posto.

Kei non ha nemmeno l'ombra di un rimpianto per la lettera in sé o per le lacrime di coccodrillo di un padre ormai morto e sepolto. L'unico vero fastidio è lo sguardo di Okamoto Ayumi piantato in mezzo alla schiena mentre si guadagna le scale: non è rimasta scandalizzata dal gesto, non è sconvolta, non è neppure un po' risentita. Dall'eleganza con cui ha incassato il colpo, sembra che si aspettasse esattamente quella reazione. Purtroppo, non ha l'aria di una che molli facilmente la presa.




***
NdA - Quando, la prima volta che ho visto Haikyuu, ho realizzato che le vicende si svolgono nel 2012 a Miyagi, nel Tohoku, non ho potuto fare a meno di pensare che tutti i personaggi, nessuno escluso, solo un anno prima dell'inizio della storia avevano vissuto direttamente la tragedia del terremoto e maremoto del Tohoku e la catastrofe nucleare di Fukushima. Nel manga e nell'anime non se ne parla mai, ma tutti questi genitori mancanti nelle vite dei personaggi mi hanno subito fatto pensare ai quindicimila morti del disastro e all'incredibile vuoto che devono aver lasciato.
Per fortuna la vita va sempre avanti.

 

 

   
 
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