MONETE DI SCAMBIO
(parte seconda)
[#writober, 19-21 ott. - polvere, “relax. nothing is under control”]
Pansy si è chiesta spesso se ci si può assuefare al dolore.
Se questo possa diventare un compagno, una polvere che ti piove addosso – cenere dopo un grande incendio – che copre (opacizza, forse) ma anche protegge; un vessillo che ricorda che, alla fine, si è passati oltre, quando delle fiamme rimane solo il fumo e petali grigi dal cielo. Se lo è chiesta spesso mentre suo padre in un letto del San Mungo si spegneva palmo a palmo, non lasciandole nemmeno la consolazione di una morte rapida, di quella che non permette di indugiare nel rammarico e nella sofferenza, di quella che è concesso piangere più intensamente, invece di frammentare le lacrime giorno per giorno, fino a finirle.
Pansy, alla fine, si è risposta di sì.
Ci sono tanti tipi di lutto: quello della morte ma pure quello dell'abbandono, di un'illusione che si schianta contro il muro granitico della verità, quello di venire a patti con una vita che non si dipana nel modo in cui si è mille volte sognato. A Pansy, sembra di averli vissuti tutti. Ognuno le ha donato uno strato – polvere su polvere – e della sua luce è rimasto il suo ricordo ovattato, come una lampada su cui è stato buttato uno straccio.
Quando Lucius l'ha scoperta sotto quegli strati che sono corazza, non ha fatto altro che allungare quelle dita lunghe e bianche e, su anni di dimenticanza, ha preso a disegnare arabeschi. Pian piano, a forza di sfregare, disegnare, intessere, ha riportato a galla la luce baluginante della sua anima – quella che Parigi ha visto scoppiare, illuminare, brillare con la Senna, vergognosa, come sfondo.
Per questo non riesce – non vuole, non può – allontanare gli occhi dalla sua figura, dalla bocca che si muove a lasciare uscire suoni di cui non coglie il vero significato, nenia di lettere confuse. Lo osserva: scivola; gli occhi di un colore del cielo che promette neve e, invece, Pansy ha scoperto essere cenere. La bocca – dritta e sottile – come dritte sono le sue dita, la schiena, lo sguardo di lama condita di supplica. Il mento, la pelle perfettamente liscia, perennemente profumata di un odore tanto maschile quanto buono, quanto suo. La gola scoperta – il Pomo d'Adamo fermo perché fermo è il suo respiro, inchiodato nell'attesa. Il colletto della camicia slacciato, l'incavo alla base del suo collo, altri dischi di madreperla a chiudere la stoffa ed impedirle di frugare sopra il resto del suo corpo.
Che cosa vuole, le chiede.
Che cosa vuole, che domanda buffa.
Tutto, vuole. Tutto quello che si può strappare ad una vita che stenta a concedere, a concederle. Vuole quello che ad altri è arrivato per grazia, con naturalezza, senza sforzi. Perché adesso che ha sentito com'è il gusto dolceamaro della felicità, dell'allagante e inebriante sensazione di quella scomposta gioia parigina, non è capace di farne a meno. E dietro le iridi ha ricordi affastellati, ha diapositive dai toni vividi – pennellate di Renoir, colori di de Vlaminck, corpi di Degas.
Ci sono loro, di notte, all'alba, a scoprire ogni bellezza di Parigi prima che i Babbani arrivino a brulicargli intorno. C'è un'aurora candida, loro e la Sainte-Chapelle, i capelli d'argento di Lucius colpiti da mille raggi e mille colori di quelle vetrate immense e splendide. Uno spettacolo dedicato a lei – solo a lei, unica e sola spettatrice di quel momento strappato alla finzione, così perfetto da sembrare irreale.
C'è poi Place de la Concorde vuota – se chiude gli occhi quasi le sente, le grida e le suppliche, di chi lì è stato privato del respiro – e un vento leggero, suoni di qualche macchina rara, la luna a fissarli benevola, ad allungare le loro ombre sull'asfalto.
La Tour Eiffel – un capogiro, lei che per le vertigini ha sempre litigato perfino con la scopa –, Lucius che sorride di quella paura e se la stringe addosso, in un modo che, forse per la prima volta, Pansy riconosce affettuoso, scevro di quella passione che spezza i freni e serra le mascelle.
I Giardini di Lussemburgo al tramonto, un velo dorato che si sparge sui petali, e Pansy che si confonde con uno di loro – lei, che ha il nome di un fiore – e si sente così, dorata, benedetta, allagata da quel sole che muore e da quello che nasce, in lei, mentre Lucius le preme un bacio breve sulla tempia.
E non è in grado di privarsene, non è in grado di controllare quello che sente fin dentro le viscere, quella sensazione che davvero la scuote, e la arrende, e la fa avvicinare a lui, prendergli le mani tra le proprie – fuoco e ghiaccio –, occhi che affogano e altri che ancorano, bocche che tacciono e, anche in silenzio, parlano.
Che cosa vuole, le chiede.
Che cosa vuole, che domanda buffa.
Perché Pansy si è chiesta spesso anche questo: se ci si può assuefare alla felicità.
E, alla fine, si è risposta di no.
“Lasciala, Lucius. Lasciala e sposa me”
A Lucius, per un attimo, manca il respiro.