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Autore: Ciuscream    23/10/2022    5 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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OCCHI CHIUSI, CUORE APERTO

[#writober, 23 ott. - “find what you love and let it kill you”]

 

Il freddo di novembre pizzica le guance ma rende il cielo terso, di un azzurro profondo e palpabile, su cui il Manor si staglia nella sua grandezza come un monumento di vittoria. Vittoria sui vittoriosi, su quelli che dalla guerra hanno tratto il meglio e hanno lasciato, misericordiosi, ai vinti un angolo lontano della memoria, un posto dove leccarsi le ferite – vere ed immaginarie. Quelle di Lucius si sono quasi rimarginate tutte, perché l'oro è sempre un buon modo per riparare gli oggetti – i legami, gli individui – e lui, di quello, non è mai stato parco. Non c'è angolo della casa che non sia addobbato di rose bianchissime, quasi baluginanti di una luce morbida, e violette del pensiero, in onore di loro, in onore di lei. Il salone brulica di maghi – buoni e cattivi, mescolati, dimentichi – dagli abiti sartoriali più impeccabili; streghe si lanciano sguardi, osservano le curve dei loro abiti aderire a quelle del loro corpo, ad esaltarne ogni pregio con dovizia e un pizzico di magia.

 

Lucius non ha voluto nasconderlo a nessuno, ha voluto che tutte le Sacre Ventotto vedessero: ha scelto. Ha scelto di non dover sottostare più a quello che Abraxas e Cygnus avevano scelto per lui. A quello che, alla fine, era stato un matrimonio sommessamente felice, rigido, dove tutto era stato fatto secondo i dettami, le linee guida, affinché nessun rimprovero piovesse su due che, dei rimproveri, erano impauriti, repellenti.

Draco e Narcissa hanno lasciato la casa – entrambi – e nessuno dei due è voluto tornare, per quel giorno che sancisce quella che è una sconfitta, l'unica ferita i cui lembi non sono riusciti a tornare vicini, che non è riuscita a rimarginarsi per bene. Lucius ha scelto davvero quella che era la bambina che ha visto crescere vicino a suo figlio, che di suo figlio ha seguito le orme, i pensieri più malsani, gli impulsi più biechi per poi, nel momento più importante, nel momento di affibbiare un cognome – quel cognome –, ha scelto altro. Occhi castani, capelli castani, fisico magro, sangue mangiato da una maledizione contro occhi neri, capelli neri, un corpo che esagera solo respirando, sangue puro di Parkinson. Una copia che non può che dirsi sbiadita, un fac-simile della donna che avrebbe dovuto avere a fianco. Quella da sempre designata, quella che Lucius, da sempre, aveva individuato perfetta; quella perfezione che adesso fa sua, se suo figlio è stato troppo sciocco per perderla. Perché un collezionista d'arte e di oggetti magici, quando si trova davanti entrambi, non può voltarsi altrove, non può lasciarli andare: devono diventare suoi. E sua è diventata lei – tra poco, sua moglie.

 

Come sia cresciuto quel desiderio, che prima si è fatto pensiero, poi chiodo, poi ossessione, nemmeno lui saprebbe spiegarlo con parole coerenti. È solo cresciuto come un'erba infestante, che se strappi ritorna, più forte e più viva. Pansy, per lui, è una di quelle edere che si è mangiata la facciata della loro casa di Montmartre – loro per sempre – e non l'ha soltanto nascosta ma l'ha caratterizzata dalla sua presenza, l'ha resa indispensabile, ha reso una inscindibile dall'altra. Lucius inscindibile da lei. Si è fatta spazio tra le sue gambe, nel suo cuore, fra le pieghe del cervello, fra quelle ai lati degli occhi e ha seminato la sua presenza ingombra, non lasciandogli modo nemmeno di abbassare le palpebre senza vederci il suo viso dietro, immerso nell'ombra dei suoi pensieri.

Si meraviglia di come sia stato tutto semplice: ha semplicemente chiesto, semplicemente imposto, che quel matrimonio si sciogliesse, visto che aveva perso ogni sua ragion d'essere. Ha semplicemente comunicato che avrebbe sposato Pansy Parkinson. Ha semplicemente visto sua moglie, suo figlio, sua nuora abbandonare il Manor. Senza parole acri, senza minacce più o meno velate, senza chiedere che venisse messo su pergamena che l'eredità, un giorno, sarebbe stata comunque loro, nonostante adesso volesse cedere ai capricci di uomo a cui l'età fa scherzi. E adesso, intorno a lui, quello che pensava sarebbe stato soltanto un sogno proibito si dipana sotto le sue mani, immancabilmente guantate, come olio sull'acqua.

Lancia uno sguardo allo specchio e si fissa: è invecchiato, lo sa. I capelli sono poco più radi, ma sempre lunghi e lucenti come un tempo, così come lucenti sono i due serpenti ai suoi polsi, gli smeraldi incastonati nella spilla dei Malfoy appuntata al petto. Gli occhi sono circondati da pieghe non più così sottili, anche se lo sono di più di quelle ai lati della bocca, che ha conosciuto pochi sorrisi se toglie quelli destinati alla convenienza.

L'abito da sposo che è stato confezionato per lui è di un verde profondo e avvolgente, si posa sulle sue spalle con precisione marziale, scende con ricami d'argento lungo il petto e le gambe, e lo ammanta di un'aura ancora più vittoriosa di quella della sua casa. L'anello con lo stemma sta sopra la pelle, a mo' di monito, e una fierezza che non conosceva da anni gli scorre benefica lungo tutte le terminazioni nervose, scaldandolo.

Ha già stretto tutte le mani che doveva e che poteva, ha visto sguardi malevoli e altri sinceramente compiaciuti di quella sua nuova aura. Non ha mai avuto amici, perché quando il denaro abbonda, è difficile che non faccia un rumore di lusinga sulle orecchie di molti. Così, Lucius ha tenuto vicino solo coloro da cui poteva captare consigli, tenuto lontano chi poteva costargli denaro, e – del resto – gli è rimasto in mano solo un pugno di mosche, che Pansy ha sostituito con la sua carne calda.

 

Pansy è quello che adesso ha, di vivo. Di umano, di degno.

 

Un violino inizia a suonare una musica leggera e Lucius la riconosce subito, come un avvertimento che si irradia dai timpani all'ombelico, e le persone intorno a lui si zittiscono all'istante. Non c'è un grande altare, né una scenografica presentazione. Due sedie in velluto scuro sono state piazzate al centro del grande salotto, illuminato da una luce che novembre sembra aver rubato ai suoi fratelli estivi, per scagliarla con violenza su di lui e sulle centinaia di rose candide che affollano i tavoli, i mobili, il grande lampadario in cristallo.

La piccola folla si divide in due ali – ugualmente fameliche di vederla, ugualmente curiose di strappare qualche pettegolezzo da raccontare ai grandi assenti – e lasciano un corridoio, per permetterle di sfilare fino a lui, per finalmente restituirgliela.

Per finalmente marchiarla con il nome dei Malfoy.

 

La musica cresce leggera, sempre più acuta e ritmata; la donna che suona si agita come in una danza, lasciando che ogni suo movimento diventi nota e, insieme, diventino l'inno di quell'ingresso. I secondi sfilano, uno dopo l'altro, e Lucius sente l'attesa mordergli le caviglie come mai era successo prima. Forse soltanto mentre tendeva la mano verso Harry Potter affinché la profezia ci cadesse dentro, aveva provato la stessa, inebriante, annichilente, sensazione di impotenza.

Ma il tempo scorre, il violino riempie l'aria del frutto delle sue corde strusciate, eppure Pansy non appare. Il silenzio sacro di poco prima inizia a brulicare di voci, di sibili, di mani che si avvicinano a bocche e bocche che si avvicinano ad orecchie, per nascondere i propri pensieri agli occhi degli altri.

L'impazienza diventa dubbio, il dubbio paura.

 

Non verrà?

 

Ma poi Pansy appare, meravigliosa come una visione, in un abito che la avvolge come una seconda pelle, quella di un serpente che non vuole abbandonare il proprio passato. È di un rosso intenso – il colore del sangue che scorre fuori da una ferita, quella ferita che lei ha riaperto – e le scopre le gambe in un modo che qualcuno (Lucius stesso, se avesse la forza di parlare) non faticherebbe a definire osceno. Osceno in un modo che lo inebria, lo confonde, lo fa vacillare.

La vede avanzare verso di lui, sola, fiera come una fiera pericolosa, le labbra dello stesso colore dell'abito, grandi, di cui vorrebbe sbavare il rossetto adesso, molto prima del sì, un inutile sì che ha già ripetuto, nella sua testa mille volte.

Non sorride a nessuno, Pansy. Sa che tutte quelle persone sono lì solo per banchettare su un qualsiasi passo falso, su quella storia che ha fatto parlare l'Inghilterra magica. Su quel colore che ha addosso, che tradisce che lei – dell'innocenza – si è privata troppo tempo prima perché il bianco potesse cascarle bene addosso.

Ha gli occhi fissi su di lui, piantati come un chiodo, dritti nei suoi come una promessa.

 

Lucius ci si perde; un solo passo e potrà toccarla, un solo passo e sarà sua. Allunga la mano ma non riesce a sfiorarla, gli sfugge. Se ne accorge con un groppo che gli mozza il respiro e gli blocca le dita: non può toccarla.

Non può farlo perché non è fatta di carne; è fatta di vento, di desiderio e di voglie, ma non di realtà, non di verità. Lucius la chiama ma la voce non c'è, non esce. Solo il violino si fa sempre più alto, insieme ai brusii tanto acuti da frizionargli i timpani, da renderlo sordo alla sua stessa voce, alle parole di Pansy che si avvicina ma non esiste, non c'è.

 

Sempre più acuti i brusii, sempre più alte le note del violino, sempre più acuti, sempre più alte, sempre più acuti, sempre più alte...

 

Lucius si sveglia all'improvviso: una goccia di sudore, dalla tempia, si stacca e scivola lungo la sua guancia, precipita oltre il collo, si insinua sotto la seta del pigiama e lo percorre come un brivido. Allunga una mano veloce – terrorizzato – sulle lenzuola lisce; sente il vuoto della mancanza di Pansy vicino a lui, il freddo di un posto che non è stato occupato. Nella penombra non scorge la loro camera da letto parigina, ma quella sua nuova all'interno del Manor – in cui solo dorme, solo vive e solo spera.

I ricordi arrivano veloci: Pansy che chiede, lui che la guarda e, impaurito, chiede tempo. Pansy che urla, Pansy che batte i piedi – capricciosa e sconfitta. Pansy che lo caccia, Pansy dalle pupille enormi e acquose. Pansy che non c'è, meno che mai nel suo abito da sposa color sangue.

 

E lo deve ammettere, mentre la goccia si insinua fra la stoffa e la bagna: non ha mai avuto coraggio, Lucius. Nemmeno per le cose che ama.

Ha sempre lasciato che lo uccidessero o che lo fortificassero, privandosene.

 

E adesso, lo ha fatto di nuovo. Ha perso di nuovo. Se n'è privato di nuovo, si è privato di lei.

 



Note: ormai il mio delirio è fuori controllo. Grazie a chiunque, pur non amando i singoli né la coppia, continui a seguire questa storia con affetto! Per me è più prezioso che mai.
Vi abbraccio

   
 
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