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Autore: Ciuscream    26/10/2022    5 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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VECCHI SOGNI
(parte prima)

[#writober, 26 ott. - “it was all a dream”]

 

Dicembre gela Parigi e Pansy, che di gelato ha già tutto il resto, copre appena di più il viso con una vecchia sciarpa Serpeverde. Conserva l'odore di un profumo al papavero finito da anni, che lascia una scia sbiadita tra i fili intrecciati. Le ricorda qualcosa che non c'è, ora che i polsi e la base del collo sono addobbati da un sentore lieve di gelsomino, sfondo di una sé più adulta. Che quel distillato glielo abbia regalato Lucius è un pensiero su cui volutamente soprassiede – sono passati quasi due mesi dall'ultima volta in cui lui ha potuto annusarlo dalla base del suo collo e sono due mesi che, immancabilmente, Pansy lo indossa, impaurita dal pensiero che lui la colga senza, al suo ritorno. Non ci sono state parole, gufi, comparse dal giorno in cui lui ha lasciato la loro casa di Montmartre, né da una né dall'altra parte, e Pansy ha cominciato a sovrapporre e sbiadire i ricordi, come se si fosse svegliata da un sogno di cui al mattino non è più riuscita a sondare i contorni. Si è sforzata, ha provato a riportare alla mente i dettagli – il tono della voce, la forma del naso, l'odore delle camicie appena lavate – ma spesso si è ritrovata a domandarsi se si fosse inventata tutto, se la fantasia le avesse giocato un tiro più mancino del solito.

È finita a rispondersi di sì.

Solo la casa in cui ancora vive si erge a prova a contraria: ancora si meraviglia, sbirciando la bellezza delle sue stanze, scoprendone ogni giorno una nuova dietro una porta che non aveva mai notato prima. Lucius ancora la sorprende, a distanza di tempo, con quel dedalo di corridoi, in cui dietro ogni angolo scopre ogni giorno qualcosa di sorprendente, qualcosa che sa essere pensato – essere aggiunto, forse – per ricordarle sempre di loro, per rimanere impregnata di lui.

Per questo, quando la mancanza si fa più puntuta, si avvolge in quella sciarpa ed esce per Rue Cortot, alla ricerca di un riparo sotto il cielo che ormai è scurito. Montmartre e Parigi, ai suoi piedi, sono tutti una luce di festa: le insegne, gli alberi, le porte addobbate da coccarde, annunciano un Natale che arriva; della sua magia, però, Pansy, si sente privata fin proprio alla base.

Il Moulin de la Galette è stata la scoperta più grande del suo soggiorno parigino; Suzanne – lei, sempre lei – le ha sussurrato alle orecchie di andare a fare un giro, tanto per vedere. Pansy è entrata curiosa in quella struttura che le ricorda un tempo andato, gli occhi a serpeggiare qua e là tra i mille turisti Babbani e il soffitto non intonacato, con fili d'edera a screziarlo di sfumature colorate. Poi qualcuno, come attirato dal suo sguardo in ricerca, le ha indicato un punto poco lontano, un quadro a guardia di una porta adiacente a quelle di servizio; una riproduzione del Bal di Renoir troneggiava sulla parete di fondo e lei ha semplicemente atteso. Poi, una ragazza che ha riconosciuto essere una giovanissima Suzanne, dalla tela, le ha strizzato l'occhio, le ha indicato con il mento un punto più in basso e la porta sotto di lei è scattata con un tintinnio sordo.

 

Da quel momento, in ogni scampolo di solitudine che le morde i polsi, i piedi si muovono, rapiti, verso quel posto, l'unico in cui ha trovato un pezzo di magia, anche fuori dall'Inghilterra. Dietro quella porta in legno scuro, infatti, ha scoperto un potpourri delle più svariate famiglie magiche francesi, intente a mescolare incantesimi, arte, magia e un fumo inebriante e leggero, molto simile a quello che nelle lezioni di Divinazione impastava l'aria e ne rubava l'ossigeno. Quel pomeriggio, però, non è l'inerzia o la noia che l'hanno mossa; piuttosto, un biglietto breve, in un inglese stentato, ma con una calligrafia morbida e bellissima.

 

Al Moulin, presto!

 

Che mancasse di firma, è un dettaglio che non ha mai, nemmeno per un istante, pensato potesse ostacolarla; infatti, ha supposto i molti che sarebbero potuti essere gli artefici di quelle poche lettere e, nessuno di questi, avrebbe gradito ricevere un no in risposta.

Rosier, Lestrange, Lefebvre, Durand – solo alcuni dei molti nomi, solo alcuni dei molti visi, delle molte bacchette che ogni giorno in quel piccolo salotto s'incontrano e, brindando con un calicino colmo di Whisky Incendiario, vivono la loro magia proprio ad un passo dai Babbani, lasciati fuori da quella bolla nascosta.

Belmont Lefebvre è quello che, più di tutti, per primo, ha iniziato a danzargli intorno con un ché di sinistro e scivoloso, come un serpente che circonda una preda, stordendola e confondendola prima.

A Pansy, con un tuffo al cuore, ha ricordato all'istante qualcuno.

 

Al suo ingresso, quel giorno, è accasciato morbidamente su una poltrona in pelle, un sigaro dal sapore acre nella destra e un bicchiere pieno nell'altra; la bacchetta sbuca dalla tasca interna della giacca in modo sfacciato – è d'ebano. La accoglie con un sorriso affilato di lato, i capelli scuri a ricadergli in viso e un boccolo incastrato dietro l'orecchio; ha gli occhi di un verde profondo, a fare il paio con quello della sua sciarpa, e Pansy pensa che, con quella al collo, le sue iridi quasi scintillerebbero.

“Hai fatto presto”

Sussurra, un accento francese spiccato a sporcargli le sillabe, e si alza all'istante in modo rapido e leggero. Una mano si allunga a prendere quella di Pansy, per portarla al viso. Non la bacia; lascia soltanto che le labbra stazionino a pochi millimetri dalla sua pelle – può sentirne il fiato caldo – per poi lasciargliela a ricadere lungo il fianco, con una strana grazia.

Un pizzico di delusione le colora le guance; non si aspettava che il mittente fosse nessuno in particolare ma, da qualche parte, in un posto a cui non dà nome, sperava, sperava davvero, fosse stato qualcun altro a chiamarla. Qualcuno per cui voleva cadere in trappola.

“Mi hai mandato a chiamare tu?”

“Non troppo entusiasmo, cherie

Belmont sorride; Pansy lo trova bello di una bellezza fin troppo aggraziata, quasi femminile, che le ricorda Draco più di quanto vorrebbe.

Sorride anche lei; lascia scivolare il cappotto e qualcuno, un Elfo, lo raccoglie velocemente, rimanendo in attesa del resto. Tiene la sciarpa per qualche istante in più tra le dita, come indecisa sul da farsi, e Belmont la indica con un leggero cenno del capo.

“Non farti troppo vedere con quella. Siamo in molti ad essere stati ad Hogwarts all'ultimo Torneo, la sconfitta ancora brucia”

Nelle sillabe, c'è un'ironia non troppo palese, una verità che vuole nascondersi e confondersi dietro la parvenza di un sorriso. Pansy stringe la stoffa verde e argento con una presa ancora più salda, prima di lasciarla cadere.

“Dite di noi, ma voi inglesi siete i veri arroganti. Lo confermate sempre”

“Potter è sicuramente un arrogante, ma non per questo ha vinto il Torneo. Quello è stato per bravura” e per fortuna, vorrebbe aggiungere. Ma non le sembra il momento adatto in cui iniziare ad essere sincera.

 

Belmont sbuffa un po' d'aria dal naso e il suo sguardo si fa appena più affilato; Pansy lo vede che si sta trattenendo dall'aggiungere qualcosa. Socchiude soltanto gli occhi, invece; la studia. Pansy alza il mento, un leggero moto di fierezza che arriccia le labbra colorate di un rosso scuro, e sente l'uomo poggiarci lo sguardo sopra, perdersi per un attimo. Poi scuote leggero il capo, un altro sospiro che gli alza e gli abbassa il petto, un attimo in cui Pansy lo coglie a temporeggiare.

“Non ricordi le parole giuste in inglese?”

Belmont la fulmina con uno sguardo che è veleno e qualcosa di molto più morbido, di acquoso; poi alza appena le spalle e l'abito da mago segue le sue movenze con un fruscio leggero. Il camino poco lontano gli illumina le guance, scaldandole di un colore che altrimenti non gli apparterrebbe.

“Non ne esistono di adatte. Forse, le uniche sono... quel dommage!” Si corregge subito dopo, con un ennesimo sorriso amaro. “Che peccato...”

Pansy mette su uno sguardo interrogativo, gli occhi che piano piano lo seguono mentre inizia a muovere qualche passo. La stanza nascosta nel Mulino oggi le sembra particolarmente povera di avventori; molte delle grandi poltrone sono vuote, il fuoco scoppietta placido – non attizzato dalle continue attenzioni dei presenti – e l'aria è meno satura di fumo. Anche il brusio che solitamente la invade è ridotto a qualche chiacchiera, con parole che non riesce a riconoscere, in un francese troppo stretto perché lei colga anche soltanto qualche spezzone. I presidi di Beauxbatons, appesi tutt'intorno alle pareti, discutono animatamente tra di loro di qualcosa che non riesce a comprendere.

“Che cosa?”

Belmont non risponde; muove soltanto qualche passo ancora fino ad arrivare ad una pesante tenda in velluto bordeaux, che Pansy ha sempre pensato nascondesse un muro. Invece, quando l'uomo la scosta con un gesto leggiadro del braccio, dietro scopre un grumo di porte tutte uguali, in legno scuro, identiche a quella che segnala l'ingresso. Le indica la prima con uno scatto leggero del mento, gli occhi che si scuriscono appena.

 

“Per di qua”

“Dove stiamo andando?”

 

La apre ancora prima che lei riesca a chiedere ancora, senza concedere nulla a sua volta. Un piccolo corridoio si sviluppa oltre la stessa, in mattoncini di un rosso caldo e accogliente, su cui si apre lateralmente una stanza di cui non riesce a vedere l'interno dal suo angolo visuale. Lampade ad olio lo illuminano quasi a giorno, fittissime, e Belmont aspetta lei lo segua, prima di parlare di nuovo. L'abito scuro di Pansy si muove di un fruscio di stoffe lucide, su cui le lampade lasciano dipanare i loro chiaroscuri.

Il ragazzo scuote ancora il capo, l'ennesima delle mille volte, come rassegnato, infastidito, prima di parlare ancora.

“... ci sono persone a cui non si può dire di no”. Precisa, come se volesse rispondere ad una domanda che è stata posta in un altro momento. “A presto”

E prima che Pansy possa aggiungere altro, scivola dietro la porta, sparendo oltre la soglia. Lei sgrana appena gli occhi, guardando il punto in cui un attimo prima sostava il mago, con lo sguardo che si perde sull’ingresso che – anche dal versante interno – sparisce sotto un'identica tenda in velluto.

 

“Ehi, Belmont!” La sua voce rimbomba nello stretto corridoio. “Ma... Ma che significa?” La nota della paura inquieta di un animale braccato le sporca le sillabe.

 

La risposta arriva prima che possa vedere, sentire, captare qualsiasi altro suono; non è una risposta in decibel ma è tutta d'olfatto, un profumo silvestre e speziato, così suo, così terribile, così annichilente, che impiega molti più secondi di quelli necessari a voltarsi. Lo avverte, alle sue spalle, sbucato da quella piccola stanza che si apriva sull'ignoto, il pericolo più grande della sua vita, la sua più grande sconfitta.

Un tremito la scuote appena, con il sangue che si gela e poi si infiamma nel giro di qualche secondo. Sembra tutto troppo assurdo per essere realtà; troppo vivido per essere un sogno.

 

“Ciao, Pansy”

 

Quella voce le striscia lungo la nuca, risalendo fino a riversarsi sui timpani, rigandoli.

Qualcosa, all'altezza del cuore, con furore, esplode.

 

(continua)
 



Note: grazie anche questa volta di essere arrivati fino a qui. State dedicando a questa storia parole che davvero mi scaldano il cuore. Spero di riuscire presto a ringraziarvi come si deve.
Vi abbraccio!

   
 
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