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Autore: Ciuscream    29/10/2022    3 recensioni
Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.
Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.
Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

[Lucius/Pansy – Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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VECCHI SOGNI
(parte terza)

[#writober, 29 ott. seta]

 

Parole. Parole che sono frecce, che sono spine, che sono solo quello – parole.

Pansy si volta cauta, come se, ad aspettarla, dietro di lei, ci fosse qualcosa di feroce e spaventoso o di talmente brillante da accecarle gli occhi. Sente che la voce adesso le si è aggrappata alla gola – spaventata anch'essa – e non sembra intenzionata a salire; rimane lì nascosta, rintanata dietro alle corde vocali, lasciando solo spazio alla rabbia, lasciando che sia quella a serrarle la mascella, a squadrare il volto aggraziato. Ha gli occhi acquosi quando questi si posano su Lucius – lui manca qualche battito, il viso contratto nella luce delle lanterne. Una patina le fa rilucere le pupille d'ebano, rendendole scintillanti di luce e di sensazioni a cui non vuole dare un nome. Non sa se sia paura, fastidio, rancore o sollievo. Non sa se voglia baciarlo, schiantarlo, torturarlo o amarlo fino a perdere i sensi.

È questo che la distrugge, o distrugge entrambi: non c'è niente di univoco e definito in quel loro modo di amarsi. Non c'è niente che segua le regole, niente che vada nella strada tracciata, niente di immutabile e stabile. Tutto cambia, tutto rimane immobile. Né avanti né indietro: si muovono solo in impazziti, assurdi, percorsi laterali.

“Che cos'è questo teatrino, Lucius?”

Non lo dice, non lo direbbe mai, che lui le è mancato altrettanto; che odia questo andirivieni, la sensazione di terrore nel vederlo tornare ancora, proprio ora che si era affacciata su un barlume di accettazione della sua assenza. E adesso si sente di nuovo debole, con il muro che ha passato a mettere su negli ultimi due mesi che si fa molle, si annacqua – si fa diga pronta a cedere.

“Non volevo piombare in casa all'improvviso”

“E perché mai? È casa tua, ti è sempre piaciuto sottolinearlo”

Lucius prende un piccolo respiro, socchiude gli occhi, lascia che i polmoni si riempiano d'aria e del suo profumo, che ruba tutto lo spazio. La verità non sale a galla: ha scelto di incontrarla lì perché voleva farle vedere che sa di quel posto, che sa di Belmont. Voleva farle vedere cosa ancora possono sapere, insieme; voleva usare quella stanza.

“È casa nostra”

“Nostra?”

Pansy ride e della risata che lui ha sentito, immaginato, tra i corridoi del Manor nel tempo che sono stati divisi, non c'è nulla. È una risata molto più amara, quasi stridula, pregna di tutto il dolore che adesso si tiene sotto le ciglia, a ricacciarlo dentro gli occhi.

Lucius fa finta di non aver sentito; fa finta di non vedere i connotati pieni di quel risentimento palese, così lontani dallo sguardo che gli ha sempre dedicato prima.

“Ascoltami, Pansy. Voglio solo farti vedere una cos-”

S'interrompe quasi all'istante; Pansy fa scivolare dall'abito la bacchetta, gliela punta addosso, la mira esattamente al centro del suo petto, contro il cuore. Gli occhi sono grandi, sono liquidi, le iridi immerse di un inchiostro destinato solo a parole di fiele.

“Non voglio ascoltarti. Non ti avvicinare”

Lucius non si scompone, rimane immobile, abituato nella sua non onorevole vita a vedersi recapitata addosso la minaccia di una maledizione. Alza appena le mani, a mo' di resa, e non dice altro. Indica solo con la testa la stanza che si apre alla sua sinistra, in un invito ad entrare che non vuole essere invasivo, che vuole conquistare usando la lusinga della curiosità – il più grande pregio e la più forte debolezza della ragazza che ha di fronte.

Pansy rimane immobile e lascia la bacchetta al suo posto, contro di lui; però lancia un'occhiata laterale, a sbirciare cosa ci sia nel breve angolo che riesce a scorgere. Una superficie specchiata, una luce che ci riflette sopra di un timido azzurro, molto più fredda di quelle delle lanterne che scaldano il corridoio.

Si avvicina di un passo; Lucius ha ancora le mani alzate, l'aria quasi divertita dalla piega che ha preso quell'incontro. Lo vede che sta cedendo: lascia che Pansy si avvicini, che scruti l'interno di quella stanza che è tutta uno specchio, un cubo che riflette le loro immagini da mille diverse angolazioni. Un cubo che li rende piccoli, ed enormi, lunghissimi, schiacciati, quasi impercettibili e moltiplicati.

Abbassa la bacchetta. Lucius la osserva guardarsi intorno, cercarsi nelle mille sé che compaiono e si muovono ad ogni suo movimento. La segue: adesso sono insieme in quei giochi di riflessi, vicini in ogni faccia.

“Posso parl-?”

Pansy alza di nuovo la bacchetta, come se si fosse ricordata all'improvviso il punto esatto in cui aveva interrotto il suo pensiero. Lucius sorride di un ghignetto che si apre di lato e, dentro di lei, qualcosa di accartoccia alla bocca dello stomaco.

“Ti spiego dove siamo, poi puoi decidere di andartene. Va bene?”

Pansy lo scruta con lo sguardo affilato, il sospetto che gronda dalle ciglia.

“Niente giochetti, niente manipolazione. Dì solo dove siamo e soprattutto perché

Lucius annuisce. Non inizia a parlare, però; chiude solo gli occhi e, intorno a loro, le superfici piatte dei mille specchi iniziano a creparsi di onde, come se un sasso fosse stato lanciato sulla superficie di uno stagno e avesse preso ad aprire cerchi sempre più grandi intorno a loro. Anche la luce sfuma e si trasforma, così come i contorni: solo loro rimangono fermi, il resto muta e prende a disegnare nuove geometrie di forme e di luci, con il terreno che trema appena.

La riconosce quasi all'istante: intorno a loro, la loro casa di Montmartre si disegna nelle superfici degli specchi, come se si fossero trasformati in finestre, ognuna affacciata su una diversa parete.

“Che significa?”

Lucius sorride di nuovo, o forse il sorrisetto di prima gli è rimasto in faccia, in attesa di scoprire su di lei quella sorpresa.

“Vieni”

Lucius l'aggrappa per un polso, quello che tiene la bacchetta; si avvia verso una delle pareti: adesso può vederlo, lo specchio che è diventato vetro. Pansy si arresta quando Lucius sta per raggiungerlo; lui non fa lo stesso. Allunga una mano: questa lo attraversa, come se il vetro si fosse fatto liquido, una parete d'acqua che non bagna e che permette di passare oltre.

Pansy arretra di un passo, spaventata.

“Che cos'è? Dove porta?”

“A casa”

“A casa?” Nelle sillabe si leggono, incastrati, mille interrogativi. “È una specie di armadio svanitore...?”

“Mh” Lucius soppesa la risposta e mette un passo avanti; questa volta è più marziale: la presa sul suo polso è più ferma, non le permette di divincolarsi o di usare la bacchetta ancora. Se la trascina dietro. Deve seguirlo. “Una specie”

Pansy attraversa con lui il vetro e una scarica gelata l'attraversa da capo a piedi, come una cascata d'acqua. Dall'altra parte del vetro, tutto è esattamente identico a come lo aveva visto dall'esterno. Solo che è molto più reale, non filtrato da nessuna superficie. È come se davvero si fossero spostati altrove.

Si guarda attorno, un leggero dolore dove Lucius tiene ferma la stretta. Non ci fa caso.

Osserva: tutto è quasi identico a come lo ha lasciato poco prima di uscire. Ma la luce che sfuma dalle finestre è molto più accesa, nonostante l'ora tarda e non ci sono lucine o coccarde che brillano, scoppiettando di luci. Sembra una giornata estiva ma non saprebbe dirlo con precisione. Non riesce a cogliere il freddo o il caldo – è come se fosse una temperatura neutra, indecifrabile – e tutto, seppur identico, le sembra in qualche modo impalpabile, come se fosse fatto della sostanza della seta.

Lucius se la porta ancora dietro e, con un cenno leggero del mento, le indica l'esterno: il glicine che sovrasta la casa di fronte, che ha sempre visto sfiorito, è impazzito di grappoli lilla, che ricadono uno sopra l'altro, appesantendo i rami e facendo scoppiare di colori il muro altrimenti scrostato. Pansy lo osserva, prima questo poi Lucius. Lui coglie ogni interrogativo ma non concede alcuna risposta; ancora, la porta con sé. Nel corridoio, i grandi lampadari in cristallo – gocce di vetro come pioggia – splendono colpiti dai raggi e mille giochi di luce screziano la carta da parati verde e dorata, con motivi di palme e pavoni. Pansy sorride, non volendo, a pensare quanto quella casa sia davvero di Lucius, nonostante da qualche mese lei l'abbia fatta propria.

“Ma... perché è ancora giorno? Perché il glicine è fiorito?”

Ci sono solo domande, nessuna risposta. Ci sono vasi nuovi, quadri alle pareti che si sono spostati dalle loro stanze originarie; ci sono nuovi oggettini magici, un piccolo planetario che gira con un tintinnio adorabile, segnando ogni giro della luna intorno alla Terra con un piccolo gong. Ci sono delle foto magiche: Pansy e Lucius, vicini, sorridenti (o quasi). Lei ha un cappello a tesa larga calcato sulla testa, lui l'espressione di chi vorrebbe fare tutt'altro. Dietro, lo sfondo degli Champs-Élysées addobbati a festa, un'elettricità che si può cogliere nel modo in cui la foto lascia intravedere lo sguardo che lui le rivolge – indulgente, quasi, per quello scatto rubato, per quella vita rubata ai suoi doveri. Altre li ritraggono assieme, altri da soli. Pansy le scorre tutte: sono foto di momenti che loro non hanno vissuto, che non sono mai esistiti. Sono momenti di una felicità ordinaria, che anela, che ha sempre anelato ma che non c'è mai stata.

Un groppo le afferra la gola; si trascina sull'ultimo quadro: un ritratto enorme, che sovrasta la parete, che ritrae una famiglia che lei non conosce. C'è Lucius, su una grande poltrona in velluto smeraldo; c'è lei, in piedi accanto, le dita intrecciate a quelle di lui, un anello che riluce all'anulare. Si fissa: è bella di una bellezza che non possiede. Ha uno chignon morbido che le lascia qualche ciuffo uscire ai lati del viso, ad incorniciarlo; un abito scuro che la fascia da capo a piedi con grazia, unghie e labbra laccate di un rosso profondo. E poi...

Il cuore manca un battito, due, molti di più di quelle che riesce a contare. Una somma di respiri mozzati, il sangue che – per recuperare – prende a viaggiare impazzito, facendole pulsare le vene. La vede: vicino a Lucius, dal lato opposto, una bambina dai capelli d'argento e gli occhi scuri, la fissa con un sorriso beffardo, di chi sta per combinare qualcosa di terribile. In mano, ha una bacchetta finta, che punta verso chi sta guardando, con lo sguardo serio e concentrato. Pansy la fissa: è come se la riconoscesse, come se nei suoi tratti trovasse qualcosa di sé e di Lucius e di loro, insieme. È bellissima, con i capelli di seta e lo sguardo di vetro. Un singhiozzo le scuote la gola.

“Cos'è questo, Lucius? Uno scherzo? Torniamo indietro, riportami al Mulino!”

Lucius le stringe il polso per un secondo, avvicina la sua mano con la bacchetta al suo cuore. Se la punta contro. E poi si tira addosso lei, se la preme addosso. Pansy non gli ha mai visto sul viso quello sguardo. Lo sguardo di chi è davvero crepato a metà, di chi non ha soluzioni, solo altre domande.

Un secondo trascorre interminabile; Pansy, schiacciata al suo petto, sente il cuore premergli contro la cassa toracica. Può sentirne il ritmo direttamente contro il timpano, ovattato solo da ossa e stoffa. Lucius prende un respiro senz'aria e poi inizia a parlare. La voce è arrochita, quasi irriconoscibile; prova a schiarirla con un piccolo colpo di tosse che non sortisce effetto.

Quando le parole escono, sono appena soffiate, sono un sussurro.

“Ascoltami” Ancora la stringe, ancora la intrappola. Pansy non fa resistenza: nelle pupille ha ancora impressa la bambina dai capelli d'argento.

“La stanza in cui ci trovavamo si chiama le Miroir du futur. È una stanza incantata e piena di magia potente e antichissima. I Lefebvre la custodiscono con cura: molte persone si sono perse nelle sue stanze, in passato. Non hanno mai fatto ritorno.” Gli occhi si piantano in quelli di Pansy; li trova tutti pupilla.

“È qualcosa che mescola la potenza dello Specchio delle Emarb e della Stanza delle Necessità: al primo ruba la facoltà di indovinare i desideri; alla seconda, la capacità di trasformarli in realtà, almeno tra queste mura” S'interrompe; la fissa, si fissa su di lei. “Però qua, dietro il vetro, non c'è la realtà. C'è una delle realtà possibili. C'è quella che più desideriamo.” La voce quasi si spegne mentre la frase termina; sta snocciolando le parole contro la fronte di Pansy – questa si è fatta umida di un sudore fatto di incomprensione e paura, di un'emozione che la scuote prepotente.

“Non posso sposarti, Pansy. Ma posso darti questo, se può bastarti. Potremmo esserci noi, a Parigi. Potremmo avere tutto questo” Allarga le braccia intorno a sé; le mostra tutto. La collezione di quelli che sono i suoi desideri, tutti in bella mostra. “Potremmo avere lei”

Pansy si allontana con un piccolo scatto, divincolandosi dalla stretta. Lo sguardo torna al quadro, lo sguardo che si immerge in quello della bambina che le punta la bacchetta contro. Riconosce così tanto di lei – lo sguardo, il colore inghiottente, una provocazione che è già latente in quei suoi tratti bambini – e così tanto di lui – la posa aggraziata, i capelli d'argento, il viso affilato e beffardo. Tutto il meglio e tutto il peggio di loro, mescolato, in un crogiolo esplosivo e annichilente e impossibile.

“La lasceresti essere un'illegittima?”

Pansy torna su di lui, la rabbia che le scuote leggera le dita.

“Se quello che desideri è quella bambina, una nostra bambina, la lasceresti confinata qui?”

Era un'ipotesi su cui non si era mai soffermata: aveva pensato alla bellezza dell'avere Lucius, di potersi dire Malfoy, di passeggiare nel Manor con il mento alto. Scelta. Ma non a questo; non a questa seconda vita – seconda per ordine cronologico, per importanza, per logica. Seconda come seconda sarà sempre lei; dopo Draco, dopo Narcissa, dopo le Sacre Ventotto, dopo il Ministero, dopo il lavoro e il patrimonio e i possedimenti – esima.

Lo allontana di nuovo.

“Non può esistere questo, non potrà esistere mai”

Lucius non si scompone; anzi, se la tira addosso con più violenza.

“Può esistere, se vuoi” Tra le sillabe di Lucius c'è una disperazione che a Pansy è sconosciuta; una che avrebbe riconosciuto simile molti anni prima, quando non conosceva la sorte di suo figlio, quando la Battaglia di Hogwarts infuriava e aveva paura di perdere ciò che aveva di più caro. Come adesso.

Le posa la fronte contro la sua, ce la schiaccia di una prepotenza che lei non gli aveva mai visto addosso, che non gli aveva mai visto usare con lei. Strofina il viso contro il suo, con urgenza, ne ruba l'odore e il sapore. La bacia. Le bacia gli occhi, il naso, le guance, le labbra, il collo e poi scende, tra la scollatura che si apre lenta. Pansy lo scosta ancora, ma è molto più debole, è una resistenza che di strenuo non ha nulla. Morbida.

“Non può bastarti, Pansy? Perché non può?” Preme altri baci contro la sua pelle, le parole ovattate da quella vicinanza, il suo odore che vuole rubarle direttamente dai pori. Porta una mano alla sua nuca, sfila la mano dentro il caschetto corvino; stringe. Il dolore alla base della nuca si dipana lungo Pansy come uno stridio, la scuote.

“Lasciami, Lucius” Le parole sono un sussurro, una supplica senza convinzione.

Lui non obbedisce; le mani lunghe e bianche vanno al suo vestito, al nodo che lo stringe sul davanti. Lo scioglie con un movimento leggero, mentre avanza e, al tempo stesso, la fa arretrare, fino a che le spalle non toccano il muro e lei è di nuovo in trappola, braccata da lui. Fa sfilare le mani sotto la stoffa che si è aperta – per lui, grazie a lui –, le fa frugare sul corpo magro, ad accarezzare la stoffa del pizzo, la texture della sua pelle d'oca. La sente fremere sotto di lui, e lui freme allo stesso modo. Sente le mani di Pansy arrivare da lui: vorrebbe fosse per cercare la sua giacca, per far saltare i bottoni uno per uno. Invece lei spinge, cerca di allontanarlo. Deve farlo da solo, quindi. Sgancia i vestiti, la camicia; stoffe che ora si spalancano da entrambe le parti a lasciare stridere pelle contro la pelle. È ceramica, è porcellana quel loro premere – bianchi e gelidi, caldi solo dei loro tocchi.

“Lasciami, ti prego”

Pansy geme, però, e le parole perdono significato. Lucius scende con la bocca, la bacia; dal seno, alla pancia, l'ombelico in cui immerge la lingua, e poi il confine dei suoi slip che aggira. Le bacia la piega delle cosce, si avvicina e si allontana dal suo piacere; ne sente l'odore, se ne bea, si chiede come potrebbe davvero vivere senza averlo più sotto le mani, sulla lingua. Come può privarsi della più potente delle magie mai create, dell'incantesimo più annichilente. Si odia, per la sua codardia. Basterebbe poco e lei sarebbe sua; solo sua. Affonda il viso contro di lei, contro la stoffa; la scosta con un gesto veloce della mano, la assaggia. Pansy si contrae appena, il vestito di seta che stride contro il muro, la mano che preme sui cappelli d'argento, che se lo preme addosso.

Parla ancora, la lingua sporcata del sapore di lei, le parole sporcate di quell'amore dolciastro.

“Perché non può bastarti, Pansy?”

Affonda la lingua dentro di lei, come a farla sua così, come se volesse rendersi allo stesso modo indispensabile. Sua – nel Miroir, a Montmartre, nella vita che potrebbe essere se soltanto lei facesse un passo indietro, un compromesso.

Pansy geme, e le sillabe le escono a singhiozzi; il piacere vorrebbe chetarle, rubarne tutto lo spazio, non permetterle di rimanere sul punto. Vorrebbe solo lasciar uscire sospiri e grida, una resa incondizionata, un armistizio che sa di orgasmo, un sì che li racchiude tutti. Ma Pansy muove appena il bacino, si fa indietro, riapre gli occhi e fissa un punto di fronte a sé, una loro foto con la Tour Eiffel come sfondo lontano e lei che mima un occhiolino verso l'obiettivo.

“Perché non sarò mai più seconda”

 



Note: CHE FATICA RAGAZZI. Questo Writober mi sta provando: voler dire mille cose e avere il tempo contato per farlo. Spero di essere riuscita a rendere qualcosa del miliardo di cose che avevo in testa. Non lo so. Fatto sta che questo è il penultimo capitolo della storia, il prossimo sarà l'epilogo: grazie a chi ha letto fino a qui, sclerando un po' con me e con loro (per colpa loro!)
Vi abbraccio

   
 
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