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Autore: softandlonely    30/10/2022    1 recensioni
La stanza di Chrissy nell’appartamento di Bedford Avenue è molto più piccola rispetto a quella di Hawkins ma altrettanto vuota. Il letto, una scrivania, uno specchio, l’armadio. Nessun quadro alle pareti verde pallido, leggermente scrostate.
E lei, rannicchiata tra le lenzuola, una maglia nera troppo grande, la lettera stretta contro il petto.
Ha dovuto rileggerla tre volte per rendersi conto che è tutto vero.
Sarebbe tutto perfetto se non fosse che…
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chrissy Cunningham, Eddie Munson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hawkins
Luglio 1986
 
“Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi.”
 
Chrissy leggeva a voce alta il libro con la copertina blu che reggeva tra le mani, ma Eddie aveva smesso quasi subito di ascoltarla.
Forse era colpa del titolo. “Le mille luci di New York”.
Una coincidenza? Suonava più come una gran presa per i fondelli.
 
Magari invece era solo a causa dell’aria opprimente e carica di umidità della sua piccola stanza, nient’altro che un ventilatore cigolante a spostare calore da una parte all’altra che dava loro solo l’illusione di un sollievo.
O piuttosto era lei, accovacciata tra le sue gambe con una delle sue magliette addosso, in mezzo alle lenzuola stropicciate, la schiena che premeva contro il suo petto. I suoi capelli biondo fragola sciolti sulle spalle che gli facevano il solletico sul viso, rilasciando quell'odore capace di disintegrargli le cellule cerebrali, una alla volta.
Un profumo di albicocca – sì, albicocca – che si mischiava a quello molto più scadente del suo bagnoschiuma.
E qualcosa di dolce, qualche traccia di quella roba lucida che metteva spesso e rendeva le sue labbra scivolose.
Comunque. Chrissy non era il tipo di persona che qualche mese prima si sarebbe aspettato di avere nella sua stanza, con quella piccola mano che lasciava il libro per scomparire nella sua mentre leggeva.
Gesù. Non riusciva proprio concentrarsi. In fin dei conti era solo un essere umano.
 
“Tu sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad ammettere di aver superato il limite oltre il quale tutto è effetto collaterale gratuito e paralisi di terminazioni nervose.”
 
Cosa ci faceva lei lì? Continuava a chiederselo. Com’era potuto accadere che Chrissy – Cunningham, la reginetta della scuola, quella Chrissy, proprio lei – se ne stesse quasi tutto il tempo con lui in quella squallida casa?
Che poi non era neanche una casa, a pensarci bene.
Si sentiva quasi rassicurato quando ricordava che quel “qualsiasi cosa fosse” aveva già una data di scadenza.
Gli sembrava che l’ordine delle cose e le poche certezze della sua vita non fossero poi cambiati più di tanto.
Alla fine dell’estate sarebbero partiti entrambi, con le loro valigie piene di sogni e nient’altro.
In due direzioni opposte, senza farsi promesse.
Se ne sarebbe andata. Verso un’altra città, un’altra vita, migliore di quella. In un altro Stato. Dannatamente lontano.
E lui sarebbe scappato via, ovunque purché non fosse Hawkins. Sembrava davvero figo. Lo era. Tranne per la parte che la riguardava.
 
Eddie aveva alzato gli occhi al soffitto. Cercava di distrarsi, giusto per non parlare troppo come al suo solito e finire per dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Tipo... beh, niente di nuovo, da sei anni o giù di lì.
Solo che lei era così vicina da confonderlo. Da far sembrare la stanza ancora più piccola e rovente.
Il sole di luglio cuoceva le lamiere del tetto, un cane rabbioso tenuto alla catena continuava ad abbaiare poco lontano, costringendola ad alzare un po’ la voce per farsi sentire.
Senza pensarci più di tanto le aveva dato un morso, nel punto esatto in cui il collo si congiungeva con la sua spalla.
Non tanto forte da farle male – o no? –, ma abbastanza da farla sussultare. E sospirare, in un modo che era riuscito a sentire in ogni parte del suo corpo. Soprattutto, era riuscito a farla smettere di leggere.
 
“Che stai facendo?”
 
“Scusa Cunningham. Lo ammetto, mi stavo annoiando.” le aveva risposto con aria innocente.
 
Lei si era girata quel tanto che bastava per incrociare il suo sguardo.
Sbuffando, anche se non sembrava arrabbiata. Il suo labbro inferiore era gonfio e arrossato, come se lo avesse stretto tra i denti. L’aveva baciata, portandole via quel poco che restava di quella specie di rossetto appiccicoso.
Le sue labbra erano calde come il suo respiro. No, non era affatto arrabbiata.
E poi i suoi occhi si erano fatti grandi e tristi, come sempre quando aveva qualcosa da dirgli e nessuna voglia di farlo.
C’era voluto un po’, ma alla fine ci era riuscito.
 
“Mio padre mi ha chiesto quando lo dirò anche a lei…”
 
“Del fatto che te ne vai?”
 
“E di cosa se no? Di te sa già tutto.”
 
“Ah lo sa? Strano che non mi abbia ancora invitato a pranzo.”
 
Chrissy aveva arricciato il naso, come faceva sempre quando lui diceva qualche cazzata. Le aveva sorriso.
Non poteva trattenersi. Era adorabile quando lo faceva.
 
“Scherzi a parte Chris, non mi sembri il tipo che sparisce nel nulla. Anche se tua madre è una stronza. Se dirglielo è quello che vuoi possiamo farlo insieme.”
 
“Non è una buona idea.”
 
“Cosa?”
 
Lei lo aveva guardato e lui aveva capito subito. La sua presenza non era gradita in casa Cunningham.
Niente di nuovo, nemmeno questo. Non che gliene importasse qualcosa. Aveva imparato fin troppo presto a fregarsene del giudizio degli altri, a fare buon viso a cattivo gioco. Ma l’idea che lei ne potesse soffrirne, quella sì, lo disturbava.
E poi c’era qualcos’altro. Era una piccola, fastidiosa e onnipresente sensazione.
Quella di essere il segno meno davanti alla sua vita.
Non era abituato a sentirsi in quel modo, ma era come se lei gli avesse aperto una voragine nel petto.
Lo faceva sentire totalmente esposto, anche nei suoi angoli più bui. Quelli più vulnerabili.
 
“Potrei accompagnarti, tutto qui. A distanza di sicurezza. La sai quella regola dei vampiri che non possono entrare nelle case se non sono invitati? Penso che sia valida anche per i seguaci di Satana.”
 
“Quanto sei scemo.” aveva risposto lei, inginocchiandosi davanti a lui, dandogli una perfetta visuale delle sue gambe. Eddie aveva seguito il percorso delle sue piccole mani mentre scendevano sul suo petto e si aggrappavano alla maglietta che gli si era praticamente incollata addosso.
Quando voleva sapeva essere insistente e tenace, Chrissy Cunningham. Chi lo avrebbe mai detto.
Ma stava sorridendo di nuovo: bingo. E lo guardava, tutta occhi, come faceva lei: un caleidoscopio di grigio, blu e verde.
Lui la fissava a sua volta, sicuro di sembrare un idiota.
Perché era così bella con la sua roba addosso? Da quando lei era nei paraggi non aveva mai un cazzo da mettersi, e Dio sa quanto odiava fare il bucato, ma…
Sul collo di Chrissy era rimasto il segno rosso che le aveva lasciato poco prima.
L’aveva sfiorato con le dita, la sua pelle soffice che sembrava riscaldarsi sotto il suo tocco.
 
“Perché non lo rifai?” gli aveva bisbigliato lei.
 
Ok, sapeva di essere fottuto. Ma non sapeva ancora fino a che punto.
 
E così qualche giorno dopo si era ritrovato a osservarla dal suo furgone, mentre percorreva il vialetto e gli lanciava un’ultima occhiata per scomparire dietro la porta di casa. Quella casa dove si ostinava a tornare ogni giorno, nonostante tutto. Diceva di farlo soprattutto per suo fratello, ma lui sapeva che era vero solo in parte.
Mentre la aspettava Eddie si guardava intorno. I prati perfettamente tagliati, gli alberi senza una foglia fuori posto, le auto lucidate a specchio. Un passante che portava a spasso un cagnolino, uno di quelli piccoli e fastidiosi, mentre spiava dentro al furgone con aria circospetta. Lui aveva agitato una mano in una sorta di saluto, sfoggiando un sorriso finto che aveva costretto il tizio a spostare lo sguardo sul marciapiede, con un moto imbarazzato.
Eddie scrutava con crescente preoccupazione le finestre della grande casa bianca, tutte coperte da tende altrettanto candide che gli impedivano di vedere all’interno.
Ma poi, all’improvviso, Chrissy era uscita ed era stato subito chiaro quanto tutto fosse andato storto.
Aveva gli occhi gonfi, le guance bagnate di lacrime e mascara, il viso arrossato specialmente sulla guancia sinistra come se… Cristo, l’aveva schiaffeggiata come una bambina.
Si era rannicchiata sul sedile stringendosi le gambe contro al petto fino a che non aveva ceduto all’insistenza dello sguardo silenzioso di lui. Avrebbe voluto, davvero voluto, saper dire la cosa giusta.
 
“È stata una pessima idea. Sarebbe stato meglio sparire nel nulla. Vorrei non averlo fatto. Vorrei… non doverla rivedere mai più.”
 
“Puoi farlo. Puoi… non rivederla.” le aveva bisbigliato, senza dare il tempo alla sua dannata bocca di connettersi al cervello, sempre che gliene fosse rimasto uno.
 
“Che intendi dire?” gli aveva risposto lei. Quei suoi occhi grandi erano di nuovo pieni di lacrime.
 
“Lo sai. Che puoi stare da me. In fondo cosa cambia rispetto a ora? Non… significa niente. Quando sarà il momento te ne andrai. Ce ne andremo.”
 
Chrissy non aveva detto di no. Aveva solo tirato su il naso e poi l’aveva guardato in quel modo.
Come se gli stesse silenziosamente chiedendo se faceva sul serio.
 
Sì cazzo, facciamolo, aveva pensato lui.
Improvvisamente non importava più quello che sarebbe successo dopo, perché lei aveva smesso di piangere.
 
“Vieni con me?” gli aveva chiesto, balbettando.
 
Sceso dal furgone, aveva varcato per la prima volta quella porta.
Una volta Chrissy aveva definito quella casa come una specie di sala operatoria. A lui sembrava più che altro un museo.
Molto più tetro, a dirla tutta, rispetto a quelli che aveva avuto modo di visitare in gita scolastica.
Non c’era nulla fuori posto, nemmeno un granello di polvere.
Un divano bianco che sembrava appena uscito da un negozio.
Fiori sul tavolino del soggiorno, accanto a riviste che, ci scommetteva, non interessavano a nessuno.
Avevano salito le scale silenziosamente, i loro passi ovattati dalla moquette, e avevano raggiunto la stanza di Chrissy.
Era grande tre volte la sua ma conteneva solo una scrivania e un letto tutto cuscini rosa pallido.
Pareti bianche, nessuna ispirazione. Niente che gliela ricordasse, se non l’uniforme da cheerleader appesa a una gruccia.
Lei si era infilata dietro la porta dell’armadio, dentro alla quale aveva recuperato un paio di scatole.
Avrebbe voluto dirle di non riempirle troppo. Lo spazio nel caravan era quello che era e lei sembrava avere una quantità assurda di vestiti.
Solo, non aveva il coraggio di chiederle di rinunciare a qualcosa.
In un attimo Chrissy ci aveva infilato dentro abiti e biancheria alla rinfusa, qualche libro, un quaderno dalla copertina fuxia recuperato dal cassetto del comodino.
Ne aveva presa una invitandolo con lo sguardo a fare lo stesso con la seconda, e si era affrettata giù per le scale.
Stava per seguirla dietro la porta di quella casa spettrale quando aveva sentito una voce tagliente raggiungerlo alle spalle.
 
“E così sarebbe a causa tua che mia figlia sta buttando all’aria la sua vita.”
 
Si era voltato e lei era lì, gli occhi dello stesso colore di quelli di Chrissy.
Vestita con una giacca scura abbottonata fino al collo, nonostante il caldo soffocante.
E delle calze, Cristo, chi diavolo indossava le calze in pieno luglio?
 
“Signora Cunningham.” l’aveva salutata, mentre lei continuava a fissare assente la scatola straripante di vestiti che reggeva tra le mani.
 
“Se non fosse per causa tua non se ne sarebbe mai andata.” aveva mormorato a denti stretti, la voce che sembrava incrinarsi appena. “Chrissy non è mai stata particolarmente intelligente, ma non mi aspettavo certo che finisse con uno come te. Io lo so chi sei. Lo so da dove vieni. Sei solo uno spiantato, drogato, figlio di puttana.”
 
“Oh, fanculo. Con tutto il rispetto, signora Cunningham, per me può andare a farsi fottere.”
 
Ormai era evidente: la sua cazzo di bocca era collegata direttamente allo stomaco invece che al cervello.
Ma era troppo tardi per pentirsente.
Nella testa di Eddie c’era solo rumore bianco mentre prendeva la porta, sbatteva la scatola sul retro del van e si infilava al posto di guida.
 
“Perché ci hai messo tanto?”
 
Senza dire una parola aveva avviato il motore per dirigersi a Forest Hills.
Era stata lei a interrompere l’assurdo silenzio che si era creato tra loro.
 
“Eddie. Questa cosa è una follia. E Wayne? Si arrabbierà secondo te?”
 
Già si immaginava quello che avrebbe detto a suo zio. Qualcosa tipo “Ehi vecchio, ti ho fatto i pancake per colazione. A proposito, Chrissy resterà qui per un po’, ma non è come pensi. Tranquillo, ho tutto sotto controllo. E, ehi, lo scarico del lavandino si è intasato un’altra volta.”
 
“Naaa. Lo sai che ti adora.” le aveva sorriso, agitando una mano davanti a sé.  
 
Chrissy lo aveva ricambiato e si era rilassata contro il sedile. Sembrava stare di nuovo bene.
Sentiva che in qualche modo era quella l’unica cosa a contare davvero.
Anche se le parole di quella donna continuavano a risuonargli fastidiosamente nel cervello, si ripeteva che non erano importanti. Non fino a quando fosse riuscito a renderla felice.
 
 
Atlanta
Gennaio 1987
 
Suonare per bere gratis è fantastico, davvero.
Probabilmente è uno dei motivi per i quali si è appassionato alla chitarra.
Solo che negli ultimi tempi sembra meno divertente. È piuttosto triste, a dire il vero, soprattutto perchê i soldi messi da parte per quel viaggio cominciano a scarseggiare, ogni giorno di più.
Eddie si chiede da quando le cose hanno iniziato a prendere quella piega, mentre esce dal locale insieme a Gareth e si accende l’ennesimo joint.
La notte non è esageratamente fredda e comunque, l’alcol sembra fare il suo dovere.
Lo riscalda, lo aiuta a non pensare, o a farlo meno intensamente.
 
“Torno subito.” dice all’amico, che gli risponde con un mugugno infastidito.
È il loro modo di comunicare, da quando per entrambi è evidente che le cose non stanno andando esattamente come avevano sperato.
Da quando Gareth gli ha detto chiaro e tondo che vorrebbe tornare indietro, che hanno fatto una cazzata.
E Hawkins è diventata di nuovo una presenza ingombrante, un non detto grande quanto un elefante in mezzo a loro, in quel furgone, un ammasso di lamiere ammaccate che sta cadendo a pezzi.
In fondo Eddie l’ha sempre saputo.
C’è sempre stata una parte di lui consapevole del fatto che da quel parcheggio dei caravan non c’era via d’uscita.
Quella parte di lui terrorizzata dalla paura di non vivere.
Di finire ad avvitare bulloni in fabbrica come suo zio per il resto dei suoi giorni.
 
Rovista nelle tasche, ritrova i gettoni che ha cambiato qualche giorno prima.
Si infila nella cabina, illuminata dalla luce al neon, mentre tutto intorno a lui la notte è un cielo scuro, punteggiato dalle luci dei palazzi e immerso in rumori ovattati e distanti.
Il numero lo sa a memoria, anche se il foglietto rosa su cui Chrissy l’ha segnato è sempre lì, al sicuro nel suo portafoglio.
Lo compone velocemente, senza riflettere troppo su quello che le dirà o non le dirà.
Sperando che non sia in casa o scelga di non rispondere, come qualche giorno prima, anche se quella mancata conversazione lo ha trascinato in una spirale di pensieri negativi che si sarebbe risparmiato più che volentieri.
La linea suona a vuoto per un po’, fino a che qualcuno dall’altra parte risponde.
Il primo gettone se ne va.
 
“P-pronto?”
 
È una voce debole, la sua voce, quella dall’altro capo del filo.
 
“Ciao, principessa.”
 
“Eddie? Ciao.”
 
“Ti ho svegliata?”
 
“Lo sai che ore sono?”
 
“No. Scusami.”
 
“Non fa niente. Dove sei?”
 
“Ad Atlanta. Abbiamo appena finito di suonare in un posto davvero figo. Dovresti venirci…” le mente.
 
“Perché hai questa voce?”
 
Quella domanda lo infastidisce più di quanto dovrebbe.
L’ultima cosa che vuole è sentirsi in dovere di dimostrarle di essere degno di lei.
 
“Scusa, mammina.” le risponde, più freddo di quanto avrebbe voluto.
 
Anche con la sua totale assenza di lucidità si accorge di quanto deve esserle sembrato stronzo.
Infatti quello che segue è un silenzio vuoto, anche se gli sembra di poterli scorgere, i suoi piccoli, veloci respiri nella cornetta. Quasi riesce a immaginarla, nel buio del corridoio, appoggiata al muro, i capelli scompigliati e il filo del telefono attorcigliato attorno all’indice, mentre aspetta che lui le dica qualcosa di più di stupide frasi di circostanza.
 
“Sul serio Chris, è tutto a posto. Volevo solo sapere come stai.”
 
Un sospiro. Un altro gettone che scende.
 
“Mi hanno ammessa, Eddie. Ho ricevuto la lettera qualche giorno fa. Non mi sembra vero.”
 
Eddie esita qualche istante.
Lascia che quella notizia si depositi piano tra i suoi pensieri e le sue consapevolezze.
Lascia che lo divida a metà, tra la gioia di vederla sbocciare e la presa di coscienza di quanto la distanza tra di loro stia diventando sempre più difficile da riempire. Tra l’essere felice per lei e il sentirsi dannatamente egoista.
 
“Cosa ti avevo detto Chris? Sono fiero di te. Davvero.” le dice, cercando di infilare in quelle parole di tutto quello che lei merita di sentirsi dire. Perché in fondo ha ancora bisogno di renderla felice, di sentirsi importante per lei.
 
“Grazie. Grazie… io… Eddie…” sospira lei dall’altra parte, lasciando la frase a metà. “Dimmi di te. Quale sarà la vostra prossima meta?”
 
“Credo che staremo qui per un po’. Un bel po’. Abbiamo trovato un ingaggio, ci pagano, quindi… va tutto alla grande, davvero alla grande.”
 
Un’altra bugia.
 
“Oh… certo, capisco.”
 
Non gli dirà che le manca e nemmeno lui lo farà.
Non gli chiederà di raggiungerla e lui ne sarà felice, perché anche se volesse non potrebbe permettersi di farlo.
E forse non lo vuole, non questa volta. Forse vuole solo smettere di combattere contro l’inevitabile.
Continua a ripeterselo. Doveva essere così.
Quel “qualunque cosa fosse” aveva già una data di scadenza.
 
 
*****
La mia prima volta nei pensieri di Eddie… c’ho un’ansia che non avete idea.
Mi spiace se ha fatto male ç_ç
Un abbraccio. S.
   
 
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