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Autore: Orso Scrive    05/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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6.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

«Eccolo qua», disse Alberto. «Il professore me ne ha parlato tante di quelle volte, che mi pare di averlo sempre avuto davanti agli occhi. E, però, mi sento davvero emozionato, in questo momento.»

Dopo una buona mezz’ora di cammino, facendosi strada tra i sentieri che erano stati aperti in mezzo al castagneto, avevano finalmente raggiunto la parete rocciosa. Non era stato difficile individuarla, perché il castagno millenario che vi cresceva a pochi metri di distanza era un indicatore perfetto per poter riconoscere il luogo. Un albero che le dita di Aurora sfiorarono con amore e rispetto. Quando lo fece, la ragazza parve scossa da un brivido caldo.

I graffiti rupestri, che Lancellotti aveva scoperto tanti anni prima, erano da poco tempo stati liberati dai rovi e dagli arbusti che li avevano sempre tenuti celati. L’idea era stata quella di inserirli in un percorso storico-naturalistico che avrebbe permesso a chi fosse transitato in quei luoghi di ripercorrere le orme degli antichi Camuni. Purtroppo, non era stato risparmiato dalla visita dei vandali: alcuni schizzi di bomboletta spray di colore rosso avevano imbrattato un gruppo di figure, e in basso a sinistra si leggeva a pennarello nero la firma del vandalo di turno: Sukker, aveva scritto.

«Appena lo abbranco, gli insegno io a fare il Sukker», minacciò Aurora a denti stretti. «Gli strappo il cazzo a morsi e glielo ficco in gola.»

Nervoso, Manfredi lanciò uno sguardo ai due agenti. Per fortuna, si erano seduti a riposare sopra un masso screziato di licheni a qualche metro di distanza e non avevano sentito. Non gli andava troppo a genio, che la sua amica facesse la figura della sadica sanguinaria davanti a degli sconosciuti che avrebbero potuto riferire quelle esternazioni a chissà chi. Di gente sempre pronta a farsi bella agli occhi dei superiori ne era pieno il mondo.

«Non farti prendere dalla rabbia», tentò di calmarla. «Ricordati che non siamo giustizieri della notte…»

«Un giorno lo diventeremo, Manfredino bello.» Sorrise. Un sorriso sinistro. «Aurora la Vendicatrice, la Nemesi imbattibile di tutti gli stronzi. Nessun malvagio avrà scampo, dopo che lo avrò condotto nel mio covo e lo avrò legato al letto della Tortura e della Morte. I miei strumenti acuminati e incandescenti avranno carne e sangue per la loro soddisfazione personale.»

Alberto non rispose. Non sapeva mai che cosa replicare, quando lei faceva certe sparate. Dentro di sé, aveva deciso di continuare a non prenderla mai sul serio, quando diceva cose del genere.

Preferisco fare finta che non farebbe mai qualcosa di simile. Io, in ogni caso, non ci penso nemmeno, a chiederle fin dove sarebbe in grado di spingersi.

No, decisamente era meglio non saperlo.

Ignorando la vernice rossa che ne aveva deturpato alcune parti, i loro occhi si concentrarono sul graffito rupestre.

Le figure stilizzate erano quelle classiche dell’arte camuna. Uomini e donne nudi, pochi tratti soltanto, distinti tra di loro per la presenza degli organi sessuali, seppure a malapena abbozzati. Vi apparivano anche alcuni animali, come orsi, cervi e altre bestie che non riuscirono a riconoscere. I guerrieri erano armati di lance e di scudi, altri di arco e frecce, e molti di loro sembravano danzare con le braccia rivolte verso il cielo. Uno sciamano, o un dio, o qualcosa di simile insomma, riconoscibile per il suo copricapo frastagliato e per le dimensioni maggiori, che gli conferivano quasi l’aspetto di una divinità, era situato nella parte superiore del graffito. Era circondato da un ovale, come se l’antico artista lo avesse voluto raffigurare nell’atto di emanare luce. Sopra di lui, alta nel cielo, simile al sole o a una stella, capeggiava la rosa camuna, la croce ansata simile a una girandola inserita tra nove pallini, il simbolo stesso di quei luoghi e, per estensione, di tutta la Lombardia.

Nonostante la sua semplicità, l’intero graffito comunicava una grande forza. Era davvero espressivo. Sembrava proprio di star assistendo di persona a una cerimonia avvenuta in quegli stessi luoghi migliaia di anni prima.

«Questa immagine mi ricorda qualcosa», mormorò Aurora, passando piano il dito indice sopra la figura della rosa. «Ho come l’impressione di aver già vissuto qualcosa di simile.»

«Non è una semplice impressione», replicò Alberto, con tono piatto. Sembrava quasi difficile doverlo ammettere, per lui. «Noi abbiamo già visto una cosa che le assomiglia tantissimo, una dozzina d’anni fa. In realtà, per quello che mi riguarda, non avrei mai fatto alcun collegamento tra le due cose, ma è stato il professor Lancellotti a mettermi una pulce nell’orecchio, quando gliene parlai.» Sospirò. «E una pulce bella grande, anche. E il professore, che prima o poi dovrai conoscere anche tu, ha la capacità di apparire convincente anche quando parla degli argomenti più astrusi e pazzeschi.»

Il sottotenente Bresciani si voltò a guardarlo. I suoi occhi verdi fissarono con intensità quelli nocciola del tenente.

«Vuoi dire che…» cominciò.

Manfredi scosse il capo.

«Io non voglio dire proprio niente», si schermì. «Lo sai come sono fatto: non voglio credere o negare nulla per partito preso. Mi guardo attorno, valuto e giudico in base alla mia percezione e alle idee che mi faccio.»

Guardò ancora il graffito, studiando le figure come se le vedesse muoversi e danzare, come se potesse ascoltare le loro voci intonare invocazioni in una lingua sconosciuta, una di quelle tante lingue originarie che si erano perdute nei secoli, soppiantate dalle parlate indo-europee.

«Mi limito a riportarti ciò che il mio professore ha detto me, durante un intervallo quando andavo a scuola», proseguì. «Secondo lui, questo graffito rappresenterebbe il popolo camuno, in un momento imprecisato della sua storia, colto nell’atto di adorare un… ehm… essere extraterrestre. Sostiene di aver studiato queste immagini così a fondo che non ci possono essere più dubbi, in proposito.»

Allungò la mano e tamburellò sopra la figura più grande, circondata dallo strano alone.

«Che poi, a suo dire, sarebbe questo. E quella», indicò la rosa camuna, «sarebbe l’astronave da cui discese l’essere.» La sua voce si era velata di scetticismo. «Devo ammettere che il professore ha sempre avuto una bella fantasia, per certe cose. Quando avevo quindici anni mi era abbastanza facile credergli, anche perché era il periodo in cui, alla televisione, si sentivano scemenze di ogni genere, ma ora… insomma, faccio parecchia fatica ad accettarle per vere, certe teorie.»

La mano di Aurora scattò a stringere quella di Alberto.

«Ma potrebbero non essere semplici fantasie, Manfredino!» esclamò. Nella sua voce c’era una concitazione rara: aveva perduto la sua solita flemma sinistra, a tratti pericolosa. Era eccitata. «Ora ricordo perfettamente, e ricordi benissimo anche tu, quella notte di agosto… Avanti, me l’hai citata un istante fa, ora non fare finta che non sia successo nulla di strano, quell’estate.»

Anche se con riluttanza, Alberto annuì.

«Sì», borbottò. «Sì, me la ricordo…»

Fissò la rosa camuna e, con gli occhi della memoria, la vide prendere vita, danzare e roteare nel cielo, emanando luci colorate e intermittenti.

 

 
   
 
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