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Autore: Orso Scrive    07/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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11.

 

 

Peschiera del Garda, provincia di Verona, agosto 2009

 

 

«Forza, Pippo, datti una mossa. Devi per forza far passare tutti gli alberi?»

Gianluca stringeva nella mano il guinzaglio di Pippo, il suo bastardino. Un incrocio di varie razze, non aveva mai capito nemmeno lui a che cosa assomigliasse: era una palla di pelo grigio e nero, perennemente arruffata. Come ogni sera, l’aveva portato fuori per la passeggiata e i bisogni. E, come ogni sera, Pippo stava conducendo minuziose analisi scientifiche a colpi di naso e di fiuto contro ogni singolo tronco dei pini marittimi che ornavano il lungolago.

«Non hai voglia anche tu di andartene a casa e buttarti sulla sdraio in giardino?» disse ancora Gianluca.

Il solo responso di Pippo fu fiutare con maggiore attenzione il tronco. Si girò di spalle, sollevò la zampa posteriore e lasciò partire un breve zampillo. Anche quel tronco era conquistato. Roba sua.

«Bene, hai fatto? Che ne dici se adesso…?»

Le parole morirono in bocca a Gianluca. Strabuzzò gli occhi e restò a bocca spalancata. Come lui, moltissimi passanti, sbalorditi, si immobilizzarono e restarono a guardare il cielo, incapaci di credere a ciò che stavano vedendo. Qualcuno disse che doveva essere un miraggio. Qualcun altro imprecò. Un paio di bestemmie volarono da un capo all’altro della strada. Anche Pippo guaì e corse a rifugiarsi dietro le gambe di Gianluca.

 

* * *

 

Paolo e Daniele erano seduti sull’erba.

Il profumo del lago li avvolgeva, mischiandosi ai loro odori naturali. Erano vicini e le mani si sfioravano. Complici il buio crescente della notte e un paio di lampioni rotti che nessuno si era ancora preso la briga di aggiustare, potevano stare insieme in piena libertà, senza dover subire le solite occhiatine petulanti della gente. Che, poi, le occhiatine erano ancora poca cosa, rispetto ai commenti che il più delle volte li inseguivano. Commenti aspri, cattivi, a cui facevano seguito risate sciocche e imitazioni gergali.

Qualcosa a cui non sarebbero mai riusciti ad abituarsi. Potevano soltanto sperare che, prima o poi, la gente si sarebbe finalmente messa in testa che la normalità era la loro. Loro erano normali, mentre non lo erano affatto quelle persone che stigmatizzavano a prescindere qualsiasi cosa, senza curarsi di scoprire se, chi avevano davanti a sé, possedesse un’anima, dei sentimenti, un cuore pulsante. La gente tende ad avere paura di tutto ciò che non conosce e che non vuole conoscere: e, siccome ha paura, attacca e ferisce, nelle maniere più atroci.

I due ragazzi sapevano tutto questo. Conoscevano le difficoltà. Avevano sperimentato più volte sulla propria pelle la cattiveria. Non erano stati insultati apertamente, né avevano subito violenze fisiche; almeno in questo, potevano dirsi fortunati. Ma ai sussurri che li inseguivano, alle risatine, agli sguardi velenosi… a tutto questo non si sarebbero mai davvero abituati.

E allora, per fortuna, la natura veniva loro in aiuto. La notte diventava la complice silenziosa e discreta del loro amore. Nel buio, in mezzo alle tenebre, potevano essere se stessi senza timore di nulla.

La mano di Paolo accarezzò il fianco di Daniele. I loro corpi si strinsero e le bocche si sfiorarono in un bacio delicato. Il primo di quella notte dei loro segreti.

Una luce improvvisa, un baluginio di colore rossastro li colse di sorpresa, facendoli sobbalzare entrambi. Confusi, si guardarono attorno, cercando di capire che cosa stesse succedendo. La paura di essere stati seguiti e sorpresi da qualche tipo balordo scemò all’improvviso quando, in alto nel cielo, videro ciò che li aveva illuminati in quella maniera.

 

* * *

 

Ivano Fagioli camminava con le mani affondate nelle tasche dei jeans.

Camicia a quadretti, capelli lunghi, occhiali Ray-Ban da vista, macchina fotografica appesa al collo… era nato negli anni ‘80, cresciuto in quel decennio e nel successivo, e a quelli era rimasto legato. Forse era anche per tutti i film e le serie tv a carattere fantascientifico che lo avevano accompagnato in quel periodo indimenticabile, che aveva deciso dedicarsi all’ufologia.

Aveva letto tutto il possibile, aveva guardato documentari di ogni genere. Ogni mattina e ogni sera, quando accedeva a Internet, la prima parola che scriveva nel motore di ricerca era “UFO”. Così, giusto per essere sicuro che non gli scappasse nulla. Stampava tutti gli articoli che trovava, e dai quotidiani cartacei ritagliava ogni singolo trafiletto in merito alla questione. Il suo archivio personale, poteva ben dirlo, era ricchissimo. Una vera miniera d’oro per l’ufologia.

L’idea di fare il passo avanti e cominciare a curare un blog gli era venuta l’anno prima. Fino a quel momento, gli UFO si erano palesati altrove. Adesso, però, erano proprio lì, sul tetto di casa sua: aveva deciso di approfittarne. E aveva funzionato. Il suo blog era seguitissimo e, qualche giornale locale, aveva citato i suoi articoli.

Una vera soddisfazione.

Ivano diede un calcio a un sassolino, che rotolò lungo il marciapiede, oltrepassò la ringhiera in ferro battuto che delimitava il fiume e cadde nel Mincio.

La soddisfazione, sul piano teoretico, l’aveva raggiunta. Sul piano pratico, non poteva certo dire lo stesso. Sentiva che gli mancava qualcosa. Qualcosa di importante. Qualcosa che avrebbe fatto di lui un vero ufologo e che lo avrebbe ammesso di diritto nel panorama e nell’olimpo degli esperti del settore.

Gli mancava di compiere un reale avvistamento. Riportare quelli altrui era stimolante, ma finché non avesse avuto occasione lui stesso di vedere qualcosa con i suoi stessi occhi, gli sarebbe sempre rimasto addosso l’annoso dubbio: è realtà, oppure finzione?

Dopo essersi accertato che non arrivassero automobili, Ivano attraversò la strada. Risalì via Marzan per qualche decina di metri e svoltò in via Salgari. Casa sua era una villetta singola, che aveva ricevuto in eredità da uno zio, insieme a un cospicuo patrimonio che gli aveva permesso di dedicarsi alla sua attività senza troppi pensieri riguardo al vivere quotidiano. La proprietà era cintata da una ringhiera ombreggiata da una fitta siepe di alloro, che nascondeva del tutto alla vista il giardino. Dalla strada era impossibile vedere il terrazzino al secondo piano, dove Ivano trascorreva lunghe notte a fissare il cielo, nella speranza di osservare qualcosa.

Si fermò davanti al cancello. Con un certo orgoglio, osservò la targa di ottone dorato che vi aveva infisso, e che recava la dicitura “G.S.U.G. – Sede Nazionale”. Infilò di nuovo le mani in tasca, alla ricerca del mazzo di chiavi.

Le stava provando una per una nella serratura del cancello – ancora non aveva imparato a riconoscere quella giusta – quando una luce insolita, rossa e scintillante, lo investì in pieno, distraendolo.

Ivano si voltò a guardare che cosa stesse succedendo e, per poco, non gridò per lo stupore.

 

* * *

 

Marta e Francesca uscirono dal bar e si diressero con passo calmo lungo il marciapiede, verso il parcheggio in cui avevano lasciato gli scooter. La prima aveva i capelli di un nero lucente, come i suoi occhi. La seconda aveva tinto le sue chiome di un verde quasi fosforescente.

«E allora io gli ho detto che, se voleva scopare, a me stava anche bene, ma solo se si metteva il preservativo», stava dicendo Francesca.

Marta le lanciò una breve occhiata con i suoi grandi occhi neri.

«E lui l’ha messo?» chiese.

«Macché!» brontolò Francesca. «Ha detto che non ce l’aveva, e che poi non gli piace comunque, perché vuole sentire la carne contro la carne e non la plastica. E sai cosa ha detto? Che tanto lo tirava fuori in tempo!»

«Eh sì, certo!»

«No, ma infatti, cioè, gli ho detto che così non se ne faceva niente», andò avanti Francesca. «Cioè, insomma, io non ho una cazzo di nessuna voglia di restare incinta solo perché lui non vuole spendere cinque euro in più.»

«Però peccato, perché Fabio è proprio un bel manzo, io a una cavalcata con lui non ci rinuncerei», disse Marta.

Le due ragazze svoltarono in una stradina attorniata da alcuni cespugli di oleandro. Anche a quell’ora, il profumo delicato dei fiori si faceva sentire con piacere. La musica alta del bar continuò ad accompagnarle. In quel momento, stavano trasmettendo per l’ennesima volta – doveva essere la dodicesima, dalle sei del pomeriggio – LaLa Song di Bob Sinclar.

«Ma infatti, nemmeno io, però gliel’ho detto chiaro e tondo, che dentro non me lo ficca, senza preservativo», replicò Francesca.

«E così?» chiese Marta.

«E così, gli ho detto che se voleva potevo succhiarglielo, e figurati se mi ha detto di no», proseguì la ragazza, scuotendo la testa e agitando i suoi capelli verdi. «E sai che roba? Mi è venuto in bocca quasi subito, veloce come un fulmine! Quello mi sborrava nella figa, altro che! E per giustificarsi, ha detto che è colpa delle polveri che usa per gonfiarsi i muscoli e che lo fanno venire alla svelta.»

«Ah, ma quindi non è che sia un granché a letto?»

Francesca sbuffò, irritata.

«Ma che cazzo ne so: dopo mi sono messa lì a gambe larghe, ho pensato, adesso mi leccherà la passera, visto che gli ho fatto un pompino, no? Eh, no! Si è tirato su i pantaloni e ha detto che doveva vedersi con gli amici per una birretta e mi ha lasciato lì come una stronza.»

Marta fu sul punto di replicare qualcosa di estremamente sferzante di quel Fabio così poco attento alle esigenze femminili, quando qualcosa le distrasse dalle loro chiacchiere.

La luce rossa lampeggiò, illuminandole completamente. Fu così forte che tutte e due alzarono le mani davanti al viso per ripararsi gli occhi.

Non appena fu possibile, guardarono verso il lago, oltre gli oleandri, per capire che cosa stessa succedendo. Le due ragazze, esterrefatte, mandarono un gridolino e si dimenticarono all’istante delle scarse prestazioni sessuali di quel manzo di Fabio.

 

* * *

 

Lanfranco, quella sera, stava mantenendo un buon ritmo di camminata. Il contapassi digitale che teneva legato al polso diceva che aveva già percorso quindici chilometri senza mai rallentare la sua andatura.

Molto bene.

Capelli lunghi e grigi legati sotto una bandana, barba bianca che contornava il volto rugoso, magrezza estrema – quasi eccessiva – messa in risalto dalla canottiera nera su cui era raffigurato un teschio messicano e dai jeans scuri e attillati, braccia coperte di tatuaggi che doveva essersi fatto da solo con l’inchiostro, Lanfranco Bonometti non aveva soltanto l’apparenza di un vecchio hippie.

Lui lo era davvero.

Oltre a questo, era anche scrittore di fantascienza e di filosofia. Due generi che soltanto in apparenza non andavano d’accordo. In realtà, tra le due cose, c’erano innumerevoli punti di contatto; e, quando non ce n’erano, lui riusciva comunque a scovarli e a farli emergere. Purtroppo, la fantascienza era ormai in declino e della filosofia non interessava più a nessuno. I lettori delle opere di Lanfranco, insomma, si riducevano a vista d’occhio mese dopo mese. Ma a lui non importava. Meglio averne pochi, ma buoni, che troppi soltanto per una fama il più delle volte immeritata.

Da un paio d’anni a quella parte, le lunghe passeggiate erano diventate un obbligo, per il vecchio hippie. Una gioventù spesa tra bagordi e droghe di vario genere aveva minato il suo fisico. Ora, se non voleva finire troppo presto in una tomba – e lui, per quanto curioso del mondo aldilà, per adesso si sentiva ancora bene dove si trovava – era costretto a compiere ogni sera delle lunghissime passeggiate. E a Lanfranco, dopotutto, piaceva camminare: lo aveva sempre fatto, in fondo, sin da quando era bambino.

Quando non passeggiava e non scriveva i suoi racconti – nei quali, il più delle volte, filosofia e fantascienza si mischiavano a eventi autobiografici camuffati in vario modo – Lanfranco si dedicava alle ricerche su internet. Reputava il computer e la rete le più grandi invenzioni mai messe a punto dall’essere umano, insieme alla ruota nei tempi preistorici. Avevano reso il mondo un luogo molto più piccolo e aperto, avevano permesso di sondare segreti altrimenti inconoscibili, di avvicinare persone interessanti che, in caso contrario, non sarebbe mai stato possibile incontrare.

In rete, Lanfranco si occupava principalmente di visitatori extraterrestri. Il nome con cui era conosciuto dagli internauti era Lanfra47. Frequentava vari siti, tutti a carattere ufologico. E, da quando aveva letto degli avvistamenti avvenuti sul lago di Garda, Lanfranco aveva deciso di spostare le sue passeggiate notturne dalle campagne del bresciano alle sponde lacustri.

Lui lo aveva sempre saputo che, prima o dopo, loro sarebbero tornati a mostrarsi. Era da oltre quarant’anni che aspettava il grande momento, che Vrillon il Saggio gli aveva annunciato quando gli si era manifestato nel Tempio delle Anime. Adesso il tempo era giunto, lo sentiva.

Lanfranco si sentiva un estraneo in questo mondo che lo aveva sempre rifiutato. Da giovane, i vecchi del paese lo guardavano storto e borbottavano improperi al suo passaggio. Non tolleravano la presenza di quel ragazzino con la testa piena di grilli e dall’aria stravagante. Ora che il vecchio era lui, a guardarlo male erano i giovani, che non riuscivano a capire come potesse un uomo della sua età andarsene in giro conciato a quel modo e dedicarsi ancora ad assurdità come le storielle che scriveva.

Un pesce fuor d’acqua da sempre e per sempre. Una condanna dell’esistere a cui mai avrebbe rinunciato. Essere una persona “normale” solo per compiacere gli altri? Mai. Anche perché, alla fine, non gli era mai stato troppo chiaro, il concetto di “normalità”. Per quello che lo riguardava, erano gli altri, con il loro conformismo, con il loro essere tutti uguali gli uni agli altri, con la loro pressoché totale assenza di fantasia, a essere dei poveracci che non sapevano davvero che cosa si stessero perdendo. Solo che lui, contrariamente a loro, non li condannava in nessun modo: ciascuno doveva essere libero di poter vivere come desiderava, senza giudicare né essere giudicato.

Tuttavia, non poteva nemmeno negare che lo ferisse il fatto che i suoi simili non riuscissero davvero a comprenderlo. Aveva sperato che, con l’andare degli anni, certi atteggiamenti sarebbero cambiati. Si era dovuto disilludere. Erano trascorsi i mesi, gli anni e i decenni, lenti e inesorabili. Erano cambiate le mode, era cambiato il mondo, era cambiato tutto. Quasi tutto, anzi: perché certi atteggiamenti si erano tramandati intatti da una generazione all’altra. Si giudicava – e condannava – come sempre si era fatto. Invece di cercare di comprendere chi in apparenza era diverso, lo si buttava via come uno straccio vecchio. Non si voleva che certi individui insozzassero una società perfetta, con le sue regole e i suoi modi prestabiliti da sempre e per sempre.

Ma Vrillon gli aveva promesso che le cose, almeno per lui, sarebbero mutate. E il saggio inviato da Ashtar non avrebbe mai detto una menzogna. Era tutta la vita che Lanfranco attendeva e, adesso, sentiva che il momento era prossimo. Qualcosa glielo suggeriva, se lo sentiva nell’anima.

Erano diversi giorni che avvertiva qualcosa di insolito. Quella notte, però, la sensazione era stata più forte che mai. Per tutta la durata della camminata si era sentito distratto, distante. Esclusa l’ipotesi che si stesse per fare largo dentro di lui un attacco cardiaco, aveva concluso che stesse per accadere qualcosa.

Non sapeva bene che cosa, di preciso. Ma lui era pronto alla trasformazione. Era sempre stato pronto.

Notò un guizzo luminoso che attraversò il cielo. Un altro lampo di luce lo indusse a fermarsi. Si affiancò a un frassino che affondava le sue radici nelle acque palustri di un canneto e si appoggiò al tronco. Oltre le canne poté vedere le luci accese sulla sponda bresciana del Garda. Ma non fu su quelle che si focalizzò la sua attenzione.

Gli occhi di Lanfranco corsero al cielo e videro.

Videro ciò che anelavano di vedere da un tempo lunghissimo.

Sulle sue labbra contornate dalla barba e dalle rughe, si disegnò il sorriso consapevole di chi abbia appena ricevuto l’illuminazione.

 

* * *

 

Luisa, per quella sera, aveva programmato di restarsene distesa sul divano di casa, davanti alla televisione: su Italia Uno ci sarebbe stata una replica di Mistero, un programma di cui anelava essere ospite per poter rivelare al mondo intero le sue conoscenze cosmiche; mentre Rai Due avrebbe trasmesso la sua serie TV preferita, Ghost Whisperer, con protagonista quella bella piccoletta e tettona della Jennifer Love Hewitt. Insomma, la sua serata sembrava più che stabilita fin dal mattino.

Poi, però, nel pomeriggio, era successo qualcosa.

Come ogni giorno, dopo il tè bollente alle spezie delle 16.30, si era spogliata di ogni indumento e si era seduta a gambe incrociate sul tappeto persiano nel salotto, accanto alla grande piramide di vetro. La musica ambientale diffusa a discreto volume dalle casse dello stereo le aveva accarezzato i timpani e il fumo dei vari incensi accesi qua e là le aveva solleticato le narici. Aveva sollevato le braccia, unito le dita delle mani, chiuso gli occhi e tratto un profondissimo sospiro.

Era, come sempre, il momento di mettersi in contatto con Selenius Maximus. Dentro di sé, sperò che fosse eccitato, perché aveva una gran voglia di sesso, quel pomeriggio. E Selenius era il solo in grado di soddisfare per davvero tutte le sue più insaziabili voglie. Nessun essere umano sarebbe mai stato capace di far provare a Luisa le stesse sensazioni profonde che, ogni volta, le regalava la sua guida spirituale cosmica. Selenius Maximus la lasciava sempre piacevolmente sfinita.

Ma quel pomeriggio, Selenius aveva ben altre cose, per la mente, che non il piacere fisico.

Dopo essere entrata in uno stato di contemplazione interiore molto avanzato, Luisa vide comparire di fronte a sé la figura evanescente e misteriosa di Selenius. Altissima, bellissima come sempre, la figura emanava una luce calda e avvolgente.

Parlò.

«Questa stessa notte voi umani riceverete un segno tangibile della nostra benevolenza verso di voi», disse la voce, lontana e vicina, forte come le comete lanciate negli spazi astrali. «Se sarete capaci di accettarlo, un nuovo passo sarà compiuto perché giunga il momento dell’Incontro. Recati presso la grande concentrazione del liquido vitale e tieni gli occhi fissi all’infinito. Lì vedrai i miei emissari.»

Così aveva detto Selenius Maximus. Ancora frastornata, Luisa era uscita dal suo stato comatoso e si era ritrovata sul tappeto, ansante e sudata. Il messaggio della sua guida aveva continuato a risuonarle in mente per tutto il pomeriggio.

Adesso era il momento tanto atteso.

Il sole era calato e le lunghe ombre avevano ghermito la spiaggia e il lago, tramutandolo in una lastra nera. Luisa si sorprendeva sempre di come, già ad agosto, le ore di luce tendessero ad accorciarsi.

Seduta a gambe incrociate sulla spiaggia, le mani affondate nei sassi umidi, i piedi nudi, con un ampio scialle multicolore sulle spalle e i numerosi ninnoli di metallo – appesi ai lobi e al collo, infilati ai polsi e alle caviglie – che tintinnavano a ogni minimo movimento, avvolta adesso non dall’odore di incenso ma da quello delle alghe che marcivano presso la riva un poco ritirata, Luisa fece come le era stato detto. Tenne gli occhi fissi all’infinito.

Le stelle, con la loro purezza, le parlarono di mondi lontanissimi. Le costellazioni le suggerirono strade di luce capaci di condurre a una nuova conoscenza. Nebulose e pianeti narrarono di mitiche imprese di cui pochi uomini e donne sarebbero mai stati davvero al corrente.

E poi venne la luce rossa e Luisa vide.

 

* * *

 

Aurora era seduta sopra lo schienale della panchina, i piedi abbandonati sul sedile. Quella sera, indossava shorts di jeans tanto corti e attillati da lasciar fuoriuscire la parte inferiore delle chiappe e una canottiera nera. Aveva raccolto i capelli rossi in due trecce, che le ricadevano sulle spalle. Stava fumando la sua sigaretta e non aveva nessun altro pensiero al mondo.

Il rumore scoppiettante del motore le fece alzare gli occhi. Lo avrebbe riconosciuto tra mille altri. La vecchia Vespa ansante e affannata di Alberto era inconfondibile.

Senza smettere di fumare, osservò il suo amico fermarsi di colpo al limitare del parco pubblico, lasciare la Vespa sul cavalletto e cominciare a correre verso di lei. Mentre avanzava a grandi falcate, si sfilò il casco, liberando la massa dei suoi lunghi capelli castani, che gli ricaddero in disordine sul viso e sotto le spalle.

«Aurora… Aurora!» chiamò Alberto.

La ragazza trasse una lunga boccata di fumo e la lasciò scivolare piano da naso e bocca. Non si scompose, ma lo osservò con una certa meraviglia. Di solito, Manfredino era un tipo molto calmo e riflessivo. Non ricordava di averlo mai visto tanto agitato.

«Che cazzo hai combinato, si può sapere?» chiese a bruciapelo, appena lui fu vicino. «Non avrai mica tirato sotto qualcuno con quel catorcio, spero. Per stanotte non ho affatto voglia di aiutarti a occultare cadaveri. Però, se proprio tocca…»

La ragazza prese un’altra boccata di fumo.

«…se tocca lo faccio, va bene. Ma poi mi devi dare qualcosa in cambio. Qualcosa a mia scelta.»

Aveva parlato con una serietà tale da sembrare davvero convinta che lui avesse investito e ucciso qualcuno e poi fosse corso in cerca del suo aiuto.

Alberto si fermò davanti alla panchina e vi buttò sopra il casco.

«Cosa…?» sbottò. «No, no…»

Riprese fiato in fretta.

«Aurora, svelta, devi venire con me! C’è una roba che devi vedere prima di subito!»

Lei gli scoccò un’occhiata assassina. Abbassò gli occhi alla mano che reggeva la sigaretta.

«Sto fumando.»

Una risposta che valeva più di mille altre parole. Quando Aurora fumava, non andava disturbata. Per nessun motivo.

«Puoi fumare anche se…»

«Assolutamente no», replicò lei. «Ho il culo comodo su questa panchina e da qui non mi muovo finché non lo decido io.»

Alberto parve esasperato.

«Cazzo, sono stato quasi sul punto di farmi investire tre volte e ho quasi rischiato di incappare in una pattuglia degli sbirri, per correre qui da te e farti vedere quella roba, quindi ora alza quelle chiappe molli e vieni con me, porco di quel…» E, a questo punto, Alberto Manfredi evocò il Padre Divino.

Aurora fece un sogghigno.

«Mi piaci quando ti imponi, Manfredino», disse melliflua. «Mi ecciti tutta. Non so dirti se mi sono anche bagnata, perché con questo cazzo di caldo sto sudando persino dalla Filippa e non me ne accorgo, ma… mi hai convinta. Quando tiri fuori le palle a questo modo mi accendi tutta.»

Alberto inarcò un sopracciglio. Quel nome lo aveva colto talmente di sorpresa che, per un istante, dimenticò il motivo che lo aveva fatto correre fino a lì.

«La Filippa?» ripeté. «E chi sarebbe, scusa?»

Aurora gli rivolse un sorrisetto indulgente.

«Non lo indovini, Manfredino?» Si colpì con una manata tra le gambe. «È la mia migliore amica, no?»

«Ah…» Alberto deglutì. «E da quando si chiama così?»

«Da questo preciso istante, se non ti dispiace che dia il nome alle mie parti quando ne ho voglia», replicò la ragazza.

Aspirò un’ultima boccata di fumo. Saltò giù dalla panchina e torreggiò su di lui in tutta la sua altezza. Lo sovrastava di oltre una spanna e mezza. Con il rammarico nello sguardo, gettò in terra la sigaretta e la schiacciò sotto il tacco dell’anfibio. Con qualsiasi abbigliamento e con qualsiasi clima, Aurora non avrebbe mai rinunciato ai suoi anfibi neri, perennemente impolverati.

«Ma ti avverto che, se la cosa che devi farmi vedere non mi interessa, dovrai farmi un massaggio ai piedi tutte le sere fino a settembre e dovrai comprarmi tre o quattro pacchetti di sigarette. Come minimo.»

«Ti faccio tutto quello che vuoi, ma ora datevi una mossa, tu e la tua Filippa!»

Le fece cenno di seguirlo. Adesso, doveva ammetterlo, Aurora era quantomeno curiosa.

Alberto la guidò fino alla Vespa. Cercò di avviarla, ma al quarto tentativo dovette desistere. Il motore surriscaldato non ne voleva proprio sapere di mettersi in moto.

«Dammi retta, Manfredino, a questo affare faresti meglio a dare l’eutanasia. Vedrai che starà bene, nel paradiso delle Vespe», commentò lei, aspra e ironica.

«Fa niente, se facciamo una corsa a piedi, forse lo becchiamo ancora», replicò lui.

Cominciò a correre lungo la strada. Interdetta, per un istante Aurora restò ferma a guardarlo passare attraverso i coni di luce proiettati dai lampioni. Infine, si decise a seguirlo. Ora era dannatamente curiosa.

Non le ci volle molto per coprire la distanza che li separava. Anche a scuola, in palestra, Aurora si lasciava sempre tutti quanti alle spalle. Presto però si trovò con il fiato corto. Forse, quell’estate, aveva esagerato un po’ troppo, con il fumo.

«Mi dici cosa cazzo sta succedendo?» sbottò, ansante.

«Aspetta…» borbottò Alberto, senza rallentare il passo.

Continuarono a correre. I pochi passanti li guardarono come se fossero due pazzi. Aurora fu attraversata dal medesimo dubbio. Presto, comunque, si rese conto che Alberto la stava guidando verso il lago. Sembrava che stesse andando verso il Lido Campanello.

E fu infatti nella piazzetta antistante il porticciolo che si fermarono.

Senza fiato, con la milza dolorante e i polmoni infiammati, Aurora si compresse il seno con le mani e si piegò su se stessa.

«Manfredino, giuro che se è uno scherzo del cazzo ti trascino fino a casa per le palle, e dopo te le addento anche, e il mio non è affatto uno scherzo, ti ricordi che l’ho già…» riuscì a mormorare.

Invece che lasciarle il tempo di terminare la sua minaccia, e senza dire alcuna parola, Alberto l’afferrò per il braccio e la trascinò quasi di forza verso la spiaggia. Passarono sulla striscia di erba rinsecchita e calpestarono la ghiaia della riva. Cric-cric. Si fermarono in faccia al lago. Una paio di nutrie, simile a grossi topi, spaventate dal loro avvicinarsi, si tuffarono in acqua.

«Che cazzo stai…» cominciò lei.

Alberto le prese il mento tra le dita e la obbligò a volgersi verso la lastra nera del Garda.

Solo che, in quel momento, la lastra nera sfavillava di rosso. E dal rosso passò all’arancio, dall’arancio al giallo e poi al blu, al viola, al marrone, al verde, a una moltitudine di colori indefinita. Una tavolozza vorticante che si specchiava nelle acque calme del grande lago.

Aurora, suo malgrado, fece un sobbalzo. La sua mano artigliò quella di Alberto e la strinse in modo convulso.

Davanti ai loro occhi, si stava presentando il più stupefacente degli spettacoli.

 

 
   
 
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