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Autore: Orso Scrive    07/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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13.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

Cominciava a soffiare un leggero venticello, con qualche venatura pungente, che scendeva dalla vetta verso la valle. Una brezza venuta a ricordare che, ormai, la stagione estiva era ridotta a poco più che un ricordo.

Le foglie sugli alberi sussurrarono piano, e le prime di loro a essersi tinte dei caldi colori autunnali parvero pennellate di rosso, giallo e arancione in mezzo al verde. Il sole calava adagio e il cielo ingrigiva in fretta. Le vette circostanti, verniciate di rosa e di violetto, apparvero come immagini scintillanti a fare da cornice meravigliosa a quella tela impareggiabile chiamata natura.

«Tra un po’ sarà buio», constatò uno dei due agenti. Forse sperava che bastasse una simile considerazione per convincere i due membri del Nucleo Tutela del Patrimonio a fare marcia indietro.

Purtroppo per lui, quei due avevano ben altri piani, per la mente.

Alberto annuì e lanciò uno sguardo ad Aurora. Avevano già convenuto che, il momento migliore per acciuffare i vandali, sarebbe stato proprio quello dell’imbrunire. Era probabile che, a quell’ora, sentendosi sicuri e protetti dalla ombre, il tizio che si firmava Sukker e i suoi complici avrebbero potuto pensare di entrare in azione. Ma tenente e sottotenente dovevano anche riconoscere di non essere affatto esperti, di quei paraggi. Dovevano sbrigarsi prima che montasse la notte e, con essa, le tenebre. Altrimenti, c’era la possibilità concreta di smarrire la strada.

«Qualche idea di dove potrebbero colpire questa volta, i nostri amici?» chiese la giovane, rivolgendosi agli attempati e ansanti carabinieri della stazione di Capo di Ponte. Uno dei due, in particolare, non faceva che rammentare ad Alberto una vecchia locomotiva a vapore che aveva visto una volta.

L’uomo-locomotiva si tolse il cappello e si grattò la tempia, pensoso.

«Mah, a giudicare dai punti in cui sono stati rinvenuti i graffiti, pare che i vandali abbiano preso di mira una zona ben precisa e la stiano risalendo in modo abbastanza sistematico, seguendo i sentieri aperti di recente per la nuova zona archeologica… insomma, mano a mano che gli operai del comune e gli esperti della soprintendenza aprono sentieri e puliscono nuovi siti, loro arrivano a sporcare. Andando avanti lungo questo sentiero, dovremmo trovare un punto non ancora visitato.»

Il carabiniere parve titubante. Da come era sudato e arrossato, non sembrava molto propenso a proseguire in mezzo al bosco. Il sentiero si faceva molto più ripido e faticoso, e l’uomo non sembrava avere tanta voglia di affrontare quella pendenza. Il suo collega pareva della medesima idea. Anche la vecchia locomotiva, ricordò Alberto, aveva protestato quando il ferroviere aveva cercato di metterla in moto lungo i binari.

«Ma non è detto che…» cercò di dire.

Aurora non gli permise di finire la frase. Aveva già preso la sua decisione e non avrebbe permesso a nessuno di contrastarla.

«Andiamo», ordinò, con fare secco. «Se non li becchiamo subito, ci apposteremo per qualche ora. E, se non li acciuffiamo questa stessa notte, torneremo domani e dopodomani, finché non li prendiamo in flagranza di reato.»

Senza attendere risposta, la giovane riprese a inerpicarsi lungo il sentiero, che sassi semisepolti e radici intricate avevano reso insidioso. I due carabinieri cercarono lo sguardo di Alberto, sperando che potesse in qualche modo contraddirla. Ma il tenente si strinse nelle spalle, lasciando intendere che comandava lei, e riprese a sua volta l’arrampicata.

Rassegnati, i due carabinieri li seguirono.

«Li stai facendo soffrire, poveretti», disse Alberto a basso voce, affiancandosi all’amica.

«Un po’ di moto non può che fare bene alle loro pancione», sbottò lei. «Diamine, ma li hai visti? Sembrano al nono mese di gravidanza.»

Aurora sbuffò, nervosa.

«Cazzo, lo sai da quante ore è che non fumo, Manfredino?» borbottò. «Almeno tre! Di questo passo, morirò male e infelice… mi viene da piangere…»

Manfredi fissò il pacchetto che sporgeva dal taschino del giubbotto di pelle della ragazza, spinto in avanti dalla prepotente esuberanza del suo seno.

«E perché non te ne accendi una?» chiese.

Il sorriso di Aurora fu satanico.

«Dovresti saperlo, Manfredino», rispose. «Perché quando non fumo mi irrito, e quando mi irrito divento dispettosa, e quando divento dispettosa ho bisogno di sfogarmi su qualcuno: e non vedo l’ora di sfogarmi con quel Sukker.»

Poveraccio, pensò Manfredi, senza fare commenti.

Sapeva fin troppo bene che cosa fosse in grado di fare Aurora, quando diventava – come diceva lei – “dispettosa”.

I cespugli di mirtilli e di altri frutti di bosco mugolarono parole incomprensibili al loro passaggio. I profumi di terra, di foglie, di umidità li accompagnarono lungo la strada. Le ombre scure si chiusero dietro di loro.

 

* * *

 

Aurelio Pedersoli – conosciuto come Sukker – era un diciassettenne grasso, basso e brufoloso, con una vera e propria massa di riccioli intricati, unti e pieni di forfora sulla cima del cucuzzolo tondeggiante. Nonostante facesse un uso smodato di deodoranti, emanava costantemente un fetore di sudore rancido. Una leggera lanugine nera sotto il mento cosparso di acne lo faceva sentire adulto, così come la sigaretta da cui non si separava mai. L’espressione del viso non denotava una grande intelligenza, ma lui si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua, e questo lo faceva sentire superiore a moltissima gente. La sua missione personale, nella vita, era quella di scrivere il suo soprannome ovunque.

La scelta dei siti archeologici era stata una conseguenza naturale della sua ricerca di gloria: se la gente, dopo tutti quegli anni, guardava ancora gli sgorbi dei cavernicoli, per miliardi di anni avrebbe continuato ad amare la sua firma immortale.

La mente di Sukker aveva impiegato all’incirca sei o sette mesi, per dare forma a quel pensiero. Ma, dopo aver finalmente tratto quella conclusione precisa e inoppugnabile, era partito all’attacco, bomboletta alla mano e pennarello in tasca. Insieme a lui, c’era quella che lui stesso aveva chiamato la banda del Sukker: Paolo, David e Fabiola. Quest’ultima, in quanto unica ragazza della compagnia, era considerata dal Sukker una sua proprietà privata; ma lei, a dirla tutta, non sembrava volerne sapere proprio nulla. Il Sukker, comunque, era sicuro che fosse solo questione di tempo: come si ripeteva ogni sera, mentre cercava di schiacciarsi qualche nuovo brufolo comparso sulle guance – o mentre si misurava il pene in tiro con un righello per vedere se, durante la giornata, avesse varcato la soglia per ora invalicabile dei dodici centimetri («Ma è come lo usi e la quantità di sborra che versi fuori, quello che conta davvero», non faceva che sentenziare) – nessuno avrebbe potuto resistere al suo fascino.

Il suo sguardo fissò la pietra su cui apparivano alcune immagini. Omini, animali e altre cose del genere. Più li guardava, più Sukker si domandava che cosa mai ci trovassero le persone, in quelle robe. Intere scolaresche di bambini vocianti arrivavano da lontanissimo per poterli vedere e fotografare: del tutto inspiegabile. Ma avrebbe fornito lui, ai futuri visitatori, un reale materiale da ammirare: il suo nome.

Aveva già provveduto a imbrattare il cartello informativo che qualche operaio aveva attaccato a un palo, infilato nel terreno lì accanto: sopra la superficie metallica costellata di scritte che lui non si era certo preso la cura di decifrare, ora appariva per ben sette volte il nome Sukker, scritto a pennarello indelebile rosso. Un segno tangibile ed eterno del suo glorioso passaggio.

Ma per il graffito rupestre, ci voleva ben altro che un pennarello.

Con un cenno imperioso, da leader consumato, Sukker ordinò a David di avvicinarsi. Il ragazzo – biondo, magro e mingherlino, con gli occhiali – non parve molto felice di dover obbedire. Aveva quattordici anni e Sukker lo aveva praticamente obbligato a fare parte della sua banda.

«O fai quello che ti dico, o ti spacco la faccia, testa di cazzo», gli aveva detto Sukker, per convincerlo a seguirlo. Poi, come ricordandosene quasi per caso, aveva anche teso la mano e si era fatto consegnare per intero la paghetta che il ragazzino riceveva ogni sabato dai genitori.

Non che Paolo e Fabiola fossero molto più felici di David, di trovarsi lì.

Il primo, d’accordo, era legato da vecchia amicizia ad Aurelio, da molto prima che diventasse il Sukker. Ma da tempo lo seguiva con sempre minore entusiasmo. Dentro di sé, covava il fuoco della defezione e non vedeva l’ora di cogliere al volo l’occasione propizia per farlo divampare.

La seconda, in pratica, stava subendo un ricatto: quando aveva quindici anni, si era scattata una foto a seno nudo e l’aveva inviata a un tipo che le piaceva. Purtroppo, proprio quel giorno, al tipo era stato rubato il telefono dal Sukker, che si era così appropriato della fotografia: e ora minacciava di diffonderla a tutta la provincia, se lei non avesse acconsentito ad andargli dietro come un cagnolino obbediente.

Insomma, la banda del Sukker, per quanto ne pensasse il capo, non era certo un gruppo leale e compatto. Semmai, traballava e faceva acqua da tutte le parti, e sarebbe bastato pochissimo per mandarla in frantumi. Ma il Sukker non si curava di queste cose. Il Sukker non si curava di nulla. Lui comandava e tanto bastava.

David venne avanti. Era stato deputato al trasporto dello zaino con dentro le attrezzature del Sukker. Quest’ultimo lo costrinse in malo modo a voltarsi, aprì il vecchio borsone Seven e vi frugò dentro.

«Che cazzo di disordine, metti a posto, testa di minchia!» grufolò.

Prese la bomboletta spray e rifilò un calcio nei polpacci a David. Il ragazzino, gemendo, cadde sull’erba.

«Avanti, sistema lo zaino, moscerino», ordinò Sukker. «Altrimenti dopo ti do una lezione!»

Prima ancora che David o chiunque altro avesse avuto modo di dire o fare qualcosa, da dietro un cespuglio apparve una figura minacciosa.

«E se, invece, te la dessi io, una lezioncina che non dimenticherai mai?»

 

 
   
 
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